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Brabantse Pijl: l'impresa di Pambianco nel '64
#1
La Freccia del Brabante nacque come gran corsa in preparazione di Fiandre e Roubaix, mentre oggi si svolge dopo, come fase intermedia per giungere alle classiche delle Ardenne. Il percorso della Freccia ha sempre tenuto conto delle diverse collocazioni nel calendario. Non è mai decollata a livello di classica di primissima fascia, ma resta una grandissima corsa, ed il cast di quest’oggi lo conferma. Per gli italiani è stata un tabù per anni e dire che ebbe in Arnaldo Pambianco un precursore che ……fece parlare a lungo i belgi. 
Per dare un valore quadro dell’impresa dell’amico Gabanì il primo aprile 1964, val la pena ricordare che annichilì i protagonisti del Fiandre di quattro giorni dopo, e soprattutto, diciotto giorni dopo, l’intero podio della Parigi Roubaix più veloce della storia. All’uopo, anche se non lo scrive mai nessuna penna sportiva, i 45,129 kmh fatti registrare il 19 aprile da Peter Post, rappresentano pure il record più lontano ancora in essere della storia dell’intero sport olimpico.    

Dal mio libro: "Arnaldo Pambianco, il campione e l'uomo" (2011)

L’eccezionale impresa di Arnaldo Pambianco alla Freccia del Brabante 1964
Val la pena ricordare, soprattutto per i giovani lettori, ma anche per qualche anziano vinto da eccessivo nazionalismo, o troppo indottrinato da un giornalismo che si è via via impoverito di realismo e capacità d’analisi, che le corse di un giorno, in Belgio, hanno un valore mediamente più alto di qualsiasi altra terra, Francia e Italia, ovviamente, comprese. Per raggiungere il medesimo valore oggettivo, francesi e italiani, devono far scendere in campo le loro classiche più prestigiose: poche, pochissime al confronto con la massa di ottime e l’eccezionalità di un numero comunque superiore, di quel Belgio dove il ciclismo è ancora oggi una religione. Ed è pur vero, che ai tempi più remoti o quelli dell’intorno il mezzo secolo dai nostri giorni, nell’epopea di Pambianco per intenderci, la distanza era pure maggiore, anche perché erano pochi i corridori, non del Benelux, che s’avventuravano a sfidare i colleghi locali. Lo stesso stile di quelle corse era diversissimo: battagliato dal primo all’ultimo metro, che obbligava i partecipanti ad un numero di scatti impensabile altrove. Ovviamente, questo confronto si inverte quando si parla di corse a tappe, ma chi nell’oggi insiste a valutare poco gli aspetti testé sopra, è bene che si studi sul serio la storia del ciclismo, senza far le prove con il “bla bla bla” degli albi d’oro, che sono spesso confondenti e, da soli, insufficienti nella conoscenza della materia. 
In altre parole, questa premessa era un obbligo per far capire che nella storia di Gabanì stiamo per incontrare un’impresa, una delle sue migliori, sicuramente la meno conosciuta e ricordata, rispetto al suo stupendo valore. 
Già la trasferta fu di quelle che lanciano segni di ciclismo antico, potremmo dire alla garibaldina. Erano in quattro gli italiani che anticiparono la spedizione più completa e decorosa per il Giro delle Fiandre: Arnaldo, Baldini e Adorni della Salvarani e Mealli della Cynar. Per loro, aldilà del viaggio comunque avventuroso, non c’era un minimo di assistenza, dall’ammiraglia, al direttore sportivo, al meccanico e al massaggiatore. Quattro da soli, padroni di un destino che aveva come ferri del mestiere la bicicletta, con un paio di tubolari di ricambio e la valigia con il minimo indispensabile. Quattro, che giunsero in un alberghetto minuscolo di Bruxelles, dalle parti della Stazione Nord, la zona della capitale belga più ricca di quei caffè cabaret particolari, definiti “tabarins”, dove comunque non potevano certo svagarsi, prima ancora che per le loro singole volontà, dalla ferrea disciplina che il proprietario dell’alberghetto, tanto abituato nell’ospitare corridori, imponeva. Ma poi, con la stanchezza del viaggio, chi avrebbe mai pensato ai “tabarins”? Si iscrissero alla Freccia del Brabante come fossero isolati, e lo erano nei fatti di quella occasione, aldilà delle maglie. La corsa era un summa del Fiandre, più corto d’una quarantina di chilometri, ma pur sempre duecento e più chilometri impegnativi e tutti da correre, come in ogni gara fiamminga o vallone. Una manifestazione che, nel 1964, segnava la quarta edizione ed era già popolarissima, come ogni appuntamento in grado di muovere la religione del ciclismo. L’avevano già vinta: Pino Cerami, il siculo che nel 1956 era diventato belga a tutti gli effetti e che, verso i quaranta anni, seppe divenire un bel cacciatore di classiche; Ludo Janssens, un finisseur di pregio anche se non di notissimo nome e, nel 1963, uno dei più grandi corridori potenziali mai giunti su una bicicletta, Jos Wouters. Tre belgi dunque, come belgi erano il 95% dei vincitori delle corse fiamminghe e valloni fino a metà degli anni sessanta. Vincere là, per uno straniero era dunque un’impresa di valore quasi epocale. Limitatamente agli italiani, un qualcosa di ancora maggiore. Prima della stagione 1964, infatti, sul suolo belga, zoomando ogni corsa, quindi anche le manifestazioni a tappe e le singole frazioni di esse, solo quattro azzurri erano riusciti ad imporsi: Alfredo Binda ai Mondiali di Liegi nel 1930; Fiorenzo Magni, nel Giro delle Fiandre nel 1949-‘50 e ’51 (di lì appunto  l’appellativo di “Leone delle Fiandre”),. Fausto Coppi nella Freccia Vallone del 1950 e Loretto Petrucci nella Parigi Bruxelles del 1953. Ad onor del vero anche Fermo Camellini, vinse la Freccia Vallone nel 1948, tre mesi prima di diventare francese (terra in cui abitava dal 1921) anche per cittadinanza, ma considerare costui come espressione del movimento ciclistico italiano, è una forzatura che si fa polpette del buon senso. 

Bene, con un simile rarefatto retroterra, potevano forse i quattro simil-pionieri, senza assistenza ed esperienze, ambire a rompere l’incantesimo che perdurava dal 1953? Era una domanda che si ponevano anche loro, ma che in Gabanì si sublimava con una sete particolare di vittoria: poteva essere la sua personale vendetta su Waregem.

La Freccia del Brabante 1964, si disputò mercoledì primo aprile, per la gran parte sotto una pioggia battente e con una temperatura piuttosto rigida. Come ogni competizione del luogo, fu battagliata fin dai primi chilometri ed ogni tratto in pavé, sia in pianura che sulle cote, rappresentava una frusta per ogni partente, nonché uno stimolo di passione in più per le urla d’autentico giubilo delle decine di migliaia di persone che assistevano all’evento. Poco dopo la partenza, infatti, già un’azione di gran nota, protagonisti Frans Brands, un belga dalle orecchie a sventola inconfondibili e il tedesco di origine polacca Hans Jaroszewicz, che si avvantaggiarono. Il vantaggio dei due non raggiunse per lungo tempo un’entità notevole, non già per un organico inseguimento del gruppo, che iniziò a perdere pezzi da dietro solo dopo una quarantina di chilometri, bensì per le continue scaramucce di corridori che scattavano, ma non avevano la forza di proseguire. Dopo settanta chilometri circa, in un momento di relativa calma, dal grosso uscirono due olandesi di nome, Huub Zilverberg e soprattutto Peter Post, corridore dalla classe cristallina che, una ventina di giorni dopo, superando allo sprint i belgi Benoni Beheyt, Campione del Mondo in carica e Yvo Molenaers, vincerà la Parigi Roubaix alla media record di tutti i tempi: 45.131 kmh! 
Un particolare tipico delle corse belghe del periodo: Zilverberg e Post, erano compagni di squadra nella Flandria Romeo e Brands, che si trovava davanti, idem. Fughe a più uomini dello stesso sodalizio erano una componente della combattività di quelle manifestazioni e facevano parte dello spettacolo. A poco meno di cento chilometri dal traguardo di Bruxelles, i due inseguitori raggiunsero la coppia davanti, mentre una trentina di chilometri dopo, l’andatura imposta dal treno della Flandria, provocò il cedimento del tedesco Jaroszewicz. Cedimenti che coinvolsero anche quel gruppo che, nel frattempo, s’era spezzato in diversi tronconi e dove il solo Pambianco, fra gli italiani, era rimasto sul sempre più ristretto drappello degli immediati inseguitori il trio di testa. Adorni, causa foratura, era rimasto ulteriormente attardato, ed aveva preferito ritirarsi, mentre Baldini e Mealli erano nel secondo troncone. Carmine Preziosi, italiano di passaporto, ma belga d’adozione e vita, era addirittura nel terzo. L’azione del trio di testa proseguì veloce come fosse una cronosquadre, ignara del pavé, degli strappi, molti con fondo sassoso e della media davvero di nota viste le condizioni atmosferiche e la fatica per una fuga così lunga. Dietro, intanto, il gruppetto sempre più risicato, stava producendosi in un veemente inseguimento. Arnaldo era lì, come un veterano di quelle corse e con la strana smorfia di chi, da generoso ed altruista, sta vivendo il suo giorno da killer, pronto a cogliere l’attimo fuggente e castigare ogni avversario. Ed attorno a lui non c’era certo poco: dall’iridato Beheyt, allo scaltro e veloce Emile Daems collezionista di gran classiche; dal temibilissimo Gilbert Desmet I che, nella miriade di successi annoverava una Parigi Tours e che, un mese dopo, vincerà anche la Freccia Vallone, al chirurgo delle corse non superiori ai 220 chilometri Willy Monty; da Jozef Planckaert, un gran corridore che si votava alle corse a tappe, ma che aveva la sua forza maggiore nelle classiche, come la Liegi Bastogne Liegi del 1962 aveva ampiamente dimostrato, al sempre più convincente e vincente Victor Van Schil; fino al trentenne giunto al pieno delle sue possibilità agonistiche Yvo Molenaers. Diversi di questi militavano nei medesimi sodalizi, quanto bastava per pensare col pessimismo della ragione all’impossibilità di lasciarseli dietro e vivere l’ottimismo della volontà consistente nell’onore di essere con loro in una corsa così tirata che li vedeva specialisti. 

Ad otto chilometri dal termine, davanti restò il solo Peter Post. Frans Brands e Huub Zilverberg, avevano dato tutto e si sfilarono. Contestualmente, dal gruppo, che aveva ancora poco più di un minuto da recuperare su Post, un uomo dagli occhi azzurri, si lanciò con l’impeto di chi covava da tempo ciò che stava facendo. Era Arnaldo Pambianco, che sviluppò immediatamente un’azione da finisseur di razza, capace di esaltare all’istante la marea umana che stava ai margini della carreggiata. Furono meno di tre i chilometri che servirono a Gabanì per sorpassare a velocità doppia Zilverberg e Brands, poco più di cinque quelli necessari per superare nel medesimo modo, un grande corridore come Post. Ne restavano poco più di due per contenere il ritorno dei nobili avversari che aveva schiaffeggiato col suo sublime acuto. La beffa di Waregem stava per essere vendicata, con la sontuosa pedalata che elegge i Campioni reali, indipendentemente dalle etichette e dalle conquiste di un iride non assoluto, come quello dei dilettanti. Spingevano a tutta dietro, ma Gabanì di Bertinoro era un imprendibile folletto, ed arrivò sulla linea a bracca alzate, lasciando a Molenaers, Van Schil, Hermans e il Campione del Mondo Beheyt, che finirono nell’ordine a due secondi, il peso più feroce del suo schiaffo. Arnaldo aveva vinto in Belgio undici anni dopo Petrucci, quinto italiano della storia a cogliere il successo nella terra della religione ciclistica. Aveva annichilito Post, Molenaers e Beheyt che, diciotto giorni dopo, formeranno il podio più veloce d’ogni tempo, in una classica impietosa come la Parigi-Roubaix. Arrivò dopo cinque minuti l’amico Ercole Baldini, che gli disse: “Tè vint té Arnaldo? Ma quant ci andè fort!” (Hai vinto tu Arnaldo? Ma quanto sei andato forte!). 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Ammetto di aver scoperto della vittoria di Pambianco in una Freccia del Brabante soltanto ieri, sfogliando l'albo d'oro di Wikipedia.

Mi fa molto piacere aver completato oggi la mia conoscenza a riguardo, con questa narrazione.

Dispiace davvero come Pambianco sia così trascurato dalle narrazioni canoniche.
 
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#3
Panbianco sottovalutatissimo. Il Giro che ha vinto battendo, tra gli altri, Anquetil e Gaul dovrebbe essere ricordato come un impresa eccezionale, invece se ne parla poco. Tra l'altro un po' di tempo fa lessi un altro bellissimo racconto di Morris sulle due tappe alpine di quel Giro, che così per gradire erano di 250 e 275 km, in cui Panbianco andò fortissimo e riuscì a difendere la sua maglia rosa
 
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