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Marco Pastonesi
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LA STORIA. Marco Pastonesi e la sua "squadra speciale"
È il team manager meno vincente del panorama ciclistico mon­diale. Diciamo pure il più sconfitto in assoluto: ma è felice. In verità non è propriamente un team manager, ma si comporta come se lo fosse. Ha una quantità infinita di corridori non suoi, tutti rigorosamente perdenti ai quali chiede solo impegno, professionalità ed emozioni, ma mai vittorie. Non ha un soldo da investire su di loro, e non promette nemmeno premi vittoria: al massimo un buon bicchiere di vino dopo una sconfitta. In compenso ama scavare, scrutare nel cuore di quelli che lui considera a tutti gli effetti “i miei ragazzi”, che prima di tutto per lui sono amici e poi corridori. Ama ascoltarli, incoraggiarli, proteggerli: “perché ne hanno bisogno”, dice.
Del rugby, sport che ha praticato e scritto ama il «terzo tempo». Del ciclismo si esalta dal secondo in giù. Non è un masochista, nonostante ami tutto ciò che è sofferenza, ma è piuttosto un in­guaribile romantico, che sa stare vicino a chi ne ha bisogno. Per la serie: «se uno è un campione non ha bisogno certamente del mio supporto».
Marco Pastonesi, cinquantasette anni da compiere il 27 agosto, è una delle pen­ne più brillanti e apprezzate nel pa­norama ciclistico. Sicuramente uno dei fiori all’occhiello de La Gazzetta dello Sport. Dal 2002 segue il ciclismo a tempo pieno. Ama ascoltare le storie di chi solo apparentemente una storia non ce l’ha. Quella degli ultimi, di chi è re­golarmente perdente o si perde nei meandri del gruppo. Ama seguire chi insegue. Ama raccontare chi non cerca scuse dopo l’ennesima sconfitta. Pre­mia chi svolge il proprio prezioso e oscuro lavoro nelle re­trovie, lontano da cineprese o tele obiettivi. È perennemente rapito da chi implode ed è dubbioso di chi esplode. Abbiamo deciso di incontrarlo per farci raccontare i segreti della sua “non squadra”, composta solo e soltanto da onesti faticatori del pedale, al quale si può chiedere di tutto, fuorché una vittoria. È un omaggio a chi prepara il terreno, a chi lancia i capitani, a chi ricuce, insegue ed è pronto a passare la propria ruota ai capitani. È chiaramente un gioco, ma non un vezzo: piuttosto un approccio filosofico verso lo sport. Un modo alto di intenderlo, di praticarlo e guardarlo: nel suo caso di seguirlo. Se non vinci, piaci a Marco Pastonesi: perché lui, in ognuno di loro, qualcosa di buono ci trova sempre.

Marco, quando nasce questa tua «non squadra»?
«Al Giro d’Italia del 2002, quando ho cominciato a scrivere di ciclismo per La Gazzetta dello Sport».

Di quanti corridori è composta la «non squadra»?
«È illimitata, non c’è un numero chiuso, ma esiste la condizione che è quella di non aver mai vinto una corsa da professionista. Solo in casi davvero eccezionali posso concedere una wild-card. Chiudo un occhio con chi ha avuto un attimo di debolezza e ha vinto una cor­sa. L’ho concessa in via del tutto eccezionale solo e soltanto a Francisco Ja­vier Errandonea “Paxi” Vila, spagnolo di San Sebastian, classe ’75, professionista dal 2001, il quale dopo una carriera immacolata ha sciaguratamente vinto una tappa alla Parigi-Nizza nel 2006, in maniera peraltro anche valorosa, dopo una bellissima fuga solitaria».

Chi sono i tuoi capitani?
«Daniele Righi e Charley Wegelius. Da­niele, senese classe ’76, professionista dal 2000 con al suo attivo una cronosquadre (2003, Coppi & Bartali, ndr), quindi da non annoverare come vittoria personale: non è colpa sua se ha vinto, ma della squadra. Lo stesso discorso va­le per Charles, finlandese di nascita ma britannico di passaporto, classe ’78, professionista dal ’99 con tre cronosquadre al proprio attivo (2002 Coppi &Bartali; 2007 Giro d’Italia; 2008 Coppi & Bartali, ndr): anche per lui vale lo stesso discorso fatto per Daniele. Quindi per anzianità e risultati, loro due sono chiaramente le mie punte di diamante».

Chi dei due capitani ti ha dato la maggior soddisfazione?
«Sicuramente Daniele Righi. In una tappa del Giro della Provincia di Gros­seto, quella famosa in cui i corridori hanno sbagliato l’arrivo e vinse Frap­porti, Righi arrivò quarto e quel piazzamento rappresenta ancora oggi il suo mi­glior risultato. Insomma, nonostante davanti avessero sbagliato strada, lui è riuscito ad ottenere solo un quarto posto: per me un vero eroe. Ma merita una menzione anche Marco Marzano, che l’anno scorso è arrivato secondo in una tappa della Vuelta. Dopo una lunga fuga solitaria, fu ripreso a poche centinaia di metri dal traguardo. Ricordo che quel pomeriggio lasciai passare qualche minuto e poi lo chiamai per rincuorarlo. Lui, avendo registrato il mio numero sul cellulare, mi rispose prontissimo: “Tranquillo, non ti ho tradito”. Quindi ha celato il suo dispiacere per una sconfitta bruciante, con una bat­tuta di spirito. Quindi bravissimo: ha davvero capito tutto».

Chi nel tuo team promette meglio?
«Paolo Bailetti, classe 1980, professionista dal 2005, che promette di rimanere nella mia “non squadra” per tutta la carriera. E poi c’è Mauro Da Dalto, ve­neto di Conegliano, professionista dal 2006, che è quello che mi ha fatto di­menticare Bruseghin, il corridore dei corridori. È stato lo stesso Marzio a de­signarlo come suo erede naturale: corridore generoso, potente, possente, gran gregarione e poi amante e produttore di vini, proprio come Marzio. An­che Mau­ro quindi è un altro dei miei capisaldi. Poi c’è Leonardo Giordani, ro­mano classe ’77, professionista dal 2000, consapevole dell’errore di gioventù commesso (il mondiale vinto tra gli Under 23 a Verona nel 1999), ha deciso di non sgarrare: da allora non ha più sbagliato e il suo palmares è rimasto immacolato».

Però ci saranno anche quelli che scalpitano e prima o poi ti regaleranno un dispiacere…
«L’anno scorso Damiano Caruso, classe ’87, professionista da due anni è stato un vero pericolo. Tenerlo a freno è du­ra. Sperare che non vinca una corsa è pura illusione, perché questo ha talento da vendere. Altro che scalpita è Sacha Modolo, mi ha fatto tremare un anno fa con il quarto posto alla Sanremo, poi per mia fortuna è rimasto nei ranghi».

E tra i più giovani chi vedi meglio?
«Alfredo Balloni, classe ’89, è un ottimo elemento e penso che potrebbe diventare un ottimo corridore: grande faticatore, grande motore, che può puntare però a mantenere lo zero in casella. E poi c’è Alan Marangoni, che da quando è stato ingaggiato dalla Liquigas ho la certezza matematica che non vincerà mai una corsa: ha più capitani lui dell’esercito italiano. Poi mi piace tutta la De Rosa, perché è composta da ragazzi giovani intelligenti, forti e capaci. Tutti hanno ampi margini di miglioramento. Certo, lo so, Fabio Bordonali riuscirà a far vincere più di un corridore, ma la De Rosa resta la mia preferita perché al momento è la summa di quelle caratteristiche che a me piacciono: ragazzi che vanno all’attacco, che non hanno paura di niente e di nessuno e danno spettacolo. Con questo cosa voglio dire: si può es­sere dei buonissimi corridori dichiarando serenamente i propri limiti. In questo caso sono solo limiti di gioventù perché, è bene ricordarlo, dalle squadre di Bordonali sono sempre usciti ottimi atleti. Non è un mistero: a me piacciono i corridori leali e generosi, che svolgono il loro lavoro con impegno e determinazione. E che all’occorrenza sanno anche andare allo sbaraglio: quindi evidenziano, esplorano e patiscono i propri limiti. A quel punto hanno tutto il mio ap­poggio spirituale, la mia passione».

Un uomo sul quale puoi contare fino in fondo?
«Mi piace molto Christian Benenati, classe ’82, professionista da tre, anche lui portacolori della De Rosa Ceramica Flaminia. Ha un cognome che sembra un refuso e penso che con lui si possa andare sul sicuro».

Chi ti piacerebbe avere in squadra?
«Uno come Luca Solari mi piacerebbe molto, perché è una bella persona, ma ha vinto due corse: non è degno del mio “non team”. Proprio come Jonathan Monsalve, che appena passato professionista quest’anno con l’Androni ha già vinto due corse. Invece Antonio San­toro, classe ’89, non mi fa dormire sonni tranquilli: è a zero, ma si muove troppo bene. Sono preoccupato. So che molto presto dovrò rinunciare a lui. Però punto molto sui fratelli Ma­scia­rel­li, Andrea e Simone: una coppia, una ga­ranzia. Ma anche Luca Fioretti, della Ora Hotels, promette molto bene».

Scusami Marco, ma la domanda è inevitabile: sei proprio sicuro di voler il bene dei tuoi corridori…
«Io voglio solo il loro bene e spero che si accontentino di essere degli ottimi corridori senza la smania di essere dei vincenti. Non vinceranno, ma dietro al­le vittorie dei loro capitani c’è anche il loro lavoro. In ogni caso non ti nascondo che in me ci sono due sentimenti estremamente profondi e contrastanti: da una parte la gioia di poterli considerare sempre parte integrante della mia “non squadra” è pari alla gioia di una loro affermazione».

La tua è una vera e propria ode al gregario…
«Esattamente, ma non tutti sono dei ve­ri gregari, infatti escono dalla mia “non squadra”».

Chi ti ha fatto vivere la delusione più grande?
«Marzio Bruseghin, quando ha vinto il campionato italiano a cronometro e mi ha lasciato. Con le sue vittorie la mia vi­ta è radicalmente cambiata. Volevo se­guire il ciclismo con uno pseudonimo. Da allora la mia vita non è più la stessa…».

Come direbbe Nanni Moretti: continuiamo a farci del male…
«Ma io non mi faccio male, anzi sto be­nissimo e penso che anche loro stiano piacevolmente al gioco, perché tale è. Io i miei ragazzi non li prendo mai in giro. Anzi, cerco sempre di tirarli dentro ai miei pezzi. Con loro ho un rapporto eccezionale. I poveri, gli umili, i gregari sono per me i migliori. Anche tra i capitani, i migliori sono quelli che hanno provato e toccato con mano la manovalanza. A me piacciono le persone e in squadra ho tanti ragazzi eccezionali».

La tua “non squadra” affonda radici profonde nel rubgy?
«Penso di sì. Quando da ragazzo giocavo in serie A la mia squadra era davvero un’armata Brancaleone. Eravamo sempre tra i più poveri, i più sfigati e meno pagati. Anzi, per essere precisi io dal­l’ASR Milano non ho mai preso una lira. Ogni volta che andavamo a giocare contro Rovigo o Treviso - non contro L’Aquila perché là per decenza non mi hanno mai fatto giocare -, eravamo sempre gli ultimi della classe, quelli del “cucchiaio di legno” per intenderci. Lì ho affinato la cultura dei vinti, dei perdenti che però danno sempre il massimo, fino in fondo e con la massima lealtà. Eravamo sfigati e perdenti ma abbiamo fatto tremare in più di un oc­casione gli squadroni ricchi e titolati: per noi quelle sono state in ogni caso delle vittorie. È lì che ho compreso e affinato il concetto che non è certo l’or­dine di arrivo che fa differenza fra le per­sone. L’ordine di arrivo dice solo che c’è chi ha avuto un po’ più di fretta di arrivare rispetto ad altri. Quindi, finita la parentesi agonistica si apre un’altra vita e secondo me quella di Ri­ghi e di Wegelius, tanto per citare due nomi, è una vita nobilissima e più che dignitosa».

Facci il nome di un corridore che oggi ha cessato l’attività e ti è rimasto nel cuore?
«Ne ho tanti, ma ne faccio uno per tut­ti: Fornaciari. Paolo ha vinto in carriera solo una tappa all’Herald Sun Tour in Australia (1994). Fuga a due con Fabio Roscioli che a pochi chilometri dal traguardo è fermato da una foratura ed esorta Paolo a proseguire. Fornaciari fa di tutto invece per non lasciare solo Roscioli, ma Fabio lo esorta: “Vinci per me”, neanche fosse un mondiale... Pao­lo suo malgrado va a vincere, ma io l’ho subito “riqualificato”. Vittoria contro la propria volontà: quindi lo considero an­cora un mio personalissimo eroe della “non squadra”».

Però sei bravo: ti ricordi le vittorie di tutti…
«Sai che sei simpatico?…».

Grazie. Scusa Marco, qual è il tuo motto?
«C’è chi ricomincia da zero, io preferisco restarci».

da tuttoBICI di Aprile
www.tuttobiciweb.it
 
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#3
Io ODIO questo personaggio, veniva ai microfoni della RSI anche nelle tappe di montagna e si metteva a parlare del Giro di Svizzera mentre Andy scattava a Plateau de Beille, per tutta la salita hanno parlato di gusti di gelati DodgyDodgyDodgy
 
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