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Doping: 5 giornali, un manifesto per far ripartire il ciclismo
#1
Cinque grandi quotidiani europei - L’Equipe, The Times, Le Soir, Het Nieuwsblad e La Gazzetta dello Sport - hanno pubblicato in contemporanea stamane un «Manifesto per un ciclismo credibile».
Ve lo proponiamo:

MANIFESTO PER UN CICLISMO CREDIBILE

Siamo un gruppo di 5 giornali di 4 Paesi diversi (Belgio, Francia, Gran Bretagna e Italia). Abbiamo accompagnato la storia del ciclismo da oltre un secolo. Amiamo appassionatamente questo sport e crediamo fermamente nel suo avvenire.
Siamo però molto preoccupati per la situazione attuale. Alla lunga lista di pagine nere del doping, che da molti anni adombra l’orizzonte del ciclismo, si sono aggiunti: il «Caso Armstrong», le confessioni di molti suoi compagni di squadra e il rapporto dell’Agenzia antidoping americana (Usada), che punta il dito contro le disfunzioni se non la complicità dell’Unione ciclistica internazionale (Uci). Dall’inchiesta Padova intanto filtrano altre inquietanti informazioni e a gennaio si aprirà in Spagna il processo all’Operacion Puerto. Queste recenti rivelazioni dimostrano chiaramente che c’era un «sistema ciclismo» malato e non possiamo più dare fiducia all’Uci e ai manager di squadra complici di quegli inganni.
Ma le responsabilità coinvolgono tutte le componenti del ciclismo: istituzioni, dirigenti, sponsor, organizzatori e atleti.
Abbiamo la sensazione che ci sia stato, recentemente, un netto miglioramento. Abbiamo fiducia nelle nuove generazioni di corridori, ma pensiamo che sia impossibile ripartire con le stesse strutture, le stesse regole e gli stessi uomini.

E’ per questo che domandiamo/suggeriamo alle istituzioni, agli sponsor, ai gruppi sportivi, agli organizzatori e agli atleti:

- Che l’Uci riconosca le responsabilità nell’affaire Armstrong e faccia un’ammenda ufficiale.
La costituzione, sotto la responsabilità della Wada di una commissione neutra e indipendente che faccia un’inchiesta sul funzionamento e sulle responsabilità dell’Uci nel «Caso Armstrong» e nella lotta antidoping in generale, al fine di denunciare gli errori, gli abusi ed eventualmente le complicità.


- Che l’organizzazione dei controlli antidoping delle corse più importanti sia direttamente responsabilità della Wada e delle agenzie antidoping nazionali.

- Che le pene di sospensione per il doping «pesante» siano più severe e che i gruppi sportivi si impegnino a interrompere il contratto e non ingaggiare per altri 2 anni i corridori con squalifiche superiori ai 6 mesi.

- Che venga ristabilito il «Gentlemen Agreement» tra le squadre per la sospensione cautelativa dei corridori oggetto di un’inchiesta doping.

- Un intervento diretto e una maggiore assunzione di responsabilità degli sponsor che danno il nome alle squadre.

- La riforma del World Tour, del suo sistema di punteggi e di attribuzione licenze.

- Che si tenga un summit degli «stati generali» del ciclismo prima del via della stagione 2013 per ridefinire la nuova organizzazione e le nuove regole.

Confidiamo che il mondo del ciclismo colga questa, storica, occasione per riformarsi profondamente.

Het Nieuwsblad (Belgio)
La Gazzetta dello Sport (Italia)
L’Equipe (Francia)
Le Soir (Belgio)
The Times (Gran Bretagna)

Tuttobiciweb.it

In grassetto le proposte con cui sono d'accordo, le altre per me son cazzate...
 
Rispondi
#2
Beh, direi che anche la proposta sul WT mi pare una cazzata: cioè, non mi pare nemmeno una proposta. Sarebbe una proposta se fosse accompagnata da una qualche idea di riforma, detta così non serve a nulla.
 
Rispondi
#3
La proposta sul Wt non mi pare strettamente collegata al doping,non c'entra nulla quasi,ma secondo me servirebbe,scempi tipo quelli della Basque Cycling non dovrebbero esistere...
 
Rispondi
#4
Caso Armstrong: A proposito di manifesti...
Una risposta al documento proposto da Gazzetta & C.

Gli sconquassi derivati dall'inchiesta dell'USADA (l'agenzia antidoping americana) su Lance Armstrong non ce li lasceremo alle spalle tanto facilmente; è inevitabile che il ciclismo, già martoriato da anni, ne esca ridotto ai minimi termini, visto che mai prima di questo caso l'UCI era stata così pesantemente tirata in ballo come complice di un sistema di doping di fatto legalizzato per alcuni mentre rimaneva vietato per altri.

Nel momento del "che fare?", cinque grandi giornali europei hanno provato a proporre una loro ricetta, pubblicando in contemporanea sabato un "Manifesto per un ciclismo credibile". Non cinque giornali qualunque, bensì organi di informazione strettamente legati al ciclismo, dalla Gazzetta dello Sport all'Équipe, da Het Nieuwsblad a Le Soir, fino al Times, che si è recentemente fatto paladino del movimento "salviamo i ciclisti", entrando così nel novero dei quotidiani europei amici delle biciclette.

Un tale spiegamento di forze ha prodotto un documento sinceramente deludente, che brilla per basso profilo e per insistita miopia nei confronti di un problema - il doping - che dovrebbe essere affrontato in maniera rivoluzionaria (per cambiare la questione dalle fondamenta) e non riformista (approccio che lascerebbe tutto più o meno come oggi). Parliamo di rivoluzione perché la gravità del momento è inenarrabile: non si sarebbe mai potuto immaginare un buco di 7 anni nell'albo d'oro del Tour de France, 7 anni, esattamente quanti ne passarono tra Sylvère Maes 1939 e Jean Robic 1947. Solo che in mezzo a quelle due edizioni ci fu la Seconda Guerra Mondiale; nel nostro caso invece c'è il doping, o meglio l'antidoping, nell'accezione in cui l'abbiamo ahinoi conosciuto in questi anni.

A suo modo, una guerra anche questa, e infatti non restano che le macerie di un ciclismo che tocca oggi l'abisso della sua credibilità. E allora, ci chiediamo, si può uscire da una guerra attuando solo cambiamenti di facciata ma lasciando intatto il sistema che ha prodotto un tale disastro? Leggiamo e commentiamo insieme il "Manifesto per un ciclismo credibile", partendo dal notare nel titolo un importantissimo cambiamento di impostazione anche da parte di attori (quali i 5 giornali in questione) che nel prosieguo del documento si sono dimostrati invece assai conservatori, sin troppo moderati.

Si pone come obiettivo un ciclismo credibile, e non più un ciclismo pulito: la differenza è sostanziale, perché ci permette di mandare in pensione un concetto, quello di pulizia, che si è rivelato quantomeno utopico, e lo sostituisce focalizzando l'attenzione su ciò che veramente rende resistente agli urti un sistema: la credibilità, appunto.

Siamo un gruppo di 5 giornali di 4 Paesi diversi (Belgio, Francia, Gran Bretagna e Italia). Abbiamo accompagnato la storia del ciclismo da oltre un secolo. Amiamo appassionatamente questo sport e crediamo fermamente nel suo avvenire.
Siamo però molto preoccupati per la situazione attuale. Alla lunga lista di pagine nere del doping, che da molti anni adombra l'orizzonte del ciclismo, si sono aggiunti: il «Caso Armstrong», le confessioni di molti suoi compagni di squadra e il rapporto dell'Agenzia antidoping americana (Usada), che punta il dito contro le disfunzioni se non la complicità dell'Unione ciclistica internazionale (Uci). Dall'inchiesta Padova intanto filtrano altre inquietanti informazioni e a gennaio si aprirà in Spagna il processo all'Operacion Puerto. Queste recenti rivelazioni dimostrano chiaramente che c'era un «sistema ciclismo» malato e non possiamo più dare fiducia all'Uci e ai manager di squadra complici di quegli inganni.
Ma le responsabilità coinvolgono tutte le componenti del ciclismo: istituzioni, dirigenti, sponsor, organizzatori e atleti.
Abbiamo la sensazione che ci sia stato, recentemente, un netto miglioramento. Abbiamo fiducia nelle nuove generazioni di corridori, ma pensiamo che sia impossibile ripartire con le stesse strutture, le stesse regole e gli stessi uomini.


Nel preambolo del MPUCC (acronimo del Manifesto ecc.) concetti importanti (non si può aver fiducia nell'UCI, finalmente se ne sono accorti!) si accompagnano a ragionevoli paure (sulle inchieste che giungeranno presto a compimento) ma anche a palesi errori di prospettiva. Si parla di inganni, e si coniuga al passato l'esistenza di un sistema ciclismo malato, quando invece il sistema ciclismo è rimasto orientativamente lo stesso del 2005, se non per l'introduzione del passaporto biologico. Si legge poi della sensazione di un recente netto miglioramento e si esprime fiducia nelle nuove generazioni: parole al vento che sentiamo da quasi 20 anni e che sono sempre state smentite dai fatti.

È per questo che domandiamo/suggeriamo alle istituzioni, agli sponsor, ai gruppi sportivi, agli organizzatori e agli atleti:

- Che l'Uci riconosca le responsabilità nell'affaire Armstrong e faccia un'ammenda ufficiale.
La costituzione, sotto la responsabilità della Wada di una commissione neutra e indipendente che faccia un'inchiesta sul funzionamento e sulle responsabilità dell'Uci nel «Caso Armstrong» e nella lotta antidoping in generale, al fine di denunciare gli errori, gli abusi ed eventualmente le complicità.


Fin qui ci siamo: l'UCI dovrebbe fare ammenda, d'accordo. Ci sarebbe anche da chiedersi dove fosse e cosa facesse la WADA negli anni di Armstrong, anni in cui sarebbe bastato essere più attenti per capire tante cose ed eventualmente intervenire. Invece s'è dormito (o s'è finto di dormire).

- Che l'organizzazione dei controlli antidoping delle corse più importanti sia direttamente responsabilità della Wada e delle agenzie antidoping nazionali.

Qui iniziamo a dissentire pesantemente dal MPUCC, perché continuare a far ruotare tutto intorno ai controlli antidoping, quando la loro inefficacia si è dimostrata in tutta la sua evidenza (le centinaia di controlli su Lance, tutti - o tutti meno un paio - negativi, son lì a confermarlo), equivale a voler descrivere le leggi dell'universo partendo dal presupposto che il sole giri intorno alla terra. Che sia l'UCI a gestire questi test, o che sia la WADA, non cambia la sostanza che ci dice quanto sia facile farla franca. Un grande spiegamento di forze e mezzi per non ottenere che poche positività a fronte di un sistema talmente marcio che - per gli anni 1999-2005 - si decide di non riassegnare le vittorie del texano, visto che "quel periodo risulta pervaso da una nuvola di sospetti" (questo virgolettato è dell'UCI). In definitiva: a che serve questo tipo di controlli, oggi come oggi?

- Che le pene di sospensione per il doping «pesante» siano più severe e che i gruppi sportivi si impegnino a interrompere il contratto e non ingaggiare per altri 2 anni i corridori con squalifiche superiori ai 6 mesi.

- Che venga ristabilito il «Gentlemen Agreement» tra le squadre per la sospensione cautelativa dei corridori oggetto di un'inchiesta doping.

Qui il MPUCC sbraca completamente. La filosofia che informa questi due punti non è nient'altro che l'idea di un inasprimento del trattamento per i reietti. Ma noi non abbiamo più bisogno di questo approccio, ripetiamo fino allo sfinimento che il risultato finale (per ora) del progressivo accanimento sui ciclisti è stato il buco dei 7 anni al Tour, ovvero la peggiore offesa che potessimo immaginare per lo sport che tanto amiamo. Abbiamo già fatto questo tipo di lotta, e gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Vogliamo continuare per ottenere cosa? Come possono, degli esperti giornalisti del settore, esibire una tale sicumera e non vedere che, applicando la loro proposta, continueremmo ad avere a che fare col ciclismo delle squalifiche, ovvero con uno sport impoverito di personaggi, di storie, di tutto ciò che può essere attraente per chi lo guarda?

Il titolo dell'opera parla di ciclismo credibile, poi nel contenuto si svolta verso lo stato etico, verso la massima severità nei confronti "di chi sbaglia". Niente di meglio che tutto ciò, per ritrovarci, tra 5 o 10 anni, a riparlare delle stesse identiche cose. Il doping genetico è dietro l'angolo (se già non è tra noi), le staminali fa(ra)nno miracoli, ma la ricerca continuerà inarrestabile, e gli scenari che verranno aperti dalle nanotecnologie ci sono ancora oscuri (fibre muscolari di ghepardo impiantate nelle gambe umane? Non è fantascienza, è solo questione di tempo). In una parola, il ciclismo pulito è impossibile. Potremo vivere delle stagioni meno dopate di altre, ma nel tempo ci troveremmo costretti a un'infinita rincorsa dell'antidoping al doping. Tutto come oggi, insomma. È quello che vogliamo?

No. S'è detto che quel che vogliamo è un ciclismo credibile. E allora questa credibilità va raggiunta per altre vie. Perseguendo l'unica strada che sta dando ad alcuni la percezione di un ciclismo cambiato in meglio (indipendentemente se ciò sia vero o no). E noi questa strada la vediamo nel passaporto biologico. Gestito da un ente terzo, condotto in maniera certosina (e cioè prevedendo che si facciano tutti i controlli su tutti, laddove oggi c'è chi viene testato appena 3 volte in un anno contro le 13 previste), e soprattutto funzionale alla tutela della salute dell'atleta.

Questo significa che se i valori medico-fisici in un dato momento non corrispondono a quel che dovrebbe essere, si ferma l'atleta per qualche giorno (o settimana) nell'attesa che rientri nei parametri, dopodiché lo si fa di nuovo correre. E non sarà necessario sbandierare urbi et orbi tali misure, del resto anche un'influenza particolarmente pesante potrebbe alterare detti valori, portando allo stop precauzionale. Quel che serve è un cambio radicale di visione, che sposti il focus da un problema di punizione (che non serve a niente) a un problema di salute (che invece è fattore realmente centrale e necessario).

Tutto ciò conduce di fatto all'abolizione delle squalifiche per doping. Esatto. Non è esacerbando le misure restrittive che si andrà verso la soluzione della questione, bensì cancellandole per come le abbiamo conosciute. Perché, lo ripetiamo ancora e ancora, quel che vogliamo è un ciclismo credibile. E un ciclismo credibile è uno sport in cui i protagonisti si affrontano molte volte nell'arco di una stagione, in cui nessuno ha la possibilità di calcare la mano con l'aiutino, e in cui non si corre il rischio di veder totalmente stravolto ex post il senso di una competizione.

- Un intervento diretto e una maggiore assunzione di responsabilità degli sponsor che danno il nome alle squadre.

Questo è un punto di pura utopia, nel momento in cui è già difficile reperire nuove sponsorizzazioni per il ciclismo (specialmente in determinati paesi - tra cui l'Italia stessa). Vogliamo più sponsor e pretendiamo che i loro marchi si leghino ancor più indissolubilmente al problema del doping, magari con un aggravio di spesa per loro?

- La riforma del World Tour, del suo sistema di punteggi e di attribuzione licenze.

Qui è sin troppo facile essere d'accordo, del resto l'attuale sistema di punteggi conduce dritti dritti al nonsense di certe campagne acquisti di squadre blasonate che vanno a pescare atleti - ad esempio - tra i dilettanti iraniani (con tutto il rispetto) per riuscire a rimanere nella massima serie dell'UCI. Paradossalmente, c'è meno spazio per i bravi ciclisti nelle migliori squadre rispetto a qualche anno fa, e il livello generale, di questo passo, andrà a scadere ulteriormente.

- Che si tenga un summit degli «stati generali» del ciclismo prima del via della stagione 2013 per ridefinire la nuova organizzazione e le nuove regole.


I famosi stati generali... si citano sempre per ogni ambito (non solo sportivo), non hanno praticamente mai avuto alcuna funzione reale (se non forse ai tempi della Rivoluzione Francese). Resta il problema relativo a chi andrebbe a comporre questi stati generali: chi nel ciclismo può dirsi scevro da problemi legati al doping? Su che basi andrebbero a discutere i convenuti? Da quali punti di vista? Riis dovrebbe parteciparvi o restarne fuori? E Di Rocco? E Bergonzi (in rappresentanza di un giornale che parla di doping con la profondità di una parete in cartongesso)?

Sarebbe in ogni caso bello che gli idealizzati stati generali partorissero almeno una proposta di buon senso. Tipo, "le classifiche, una volta passate al vaglio di giuria ed elaborazione dati, e dopo un tempo limitato per eventuali ricorsi, rimangono intangibili per sempre". Mai più riscritture, ma più riassegnazioni, mai più revoche.

Confidiamo che il mondo del ciclismo colga questa, storica, occasione per riformarsi profondamente.

Noi invece temiamo che il ciclismo non coglierà un bel niente, e che quand'anche cogliesse lo spirito del tempo, non avrebbe il coraggio per rivoluzionarsi (altro che riformarsi) secondo quanto sarebbe necessario. E il MPUCC resterà, nei ricordi dei suoi estensori e di pochi altri, una labile dichiarazione d'intenti nata già per essere inutile.

Marco Grassi - cicloweb.it
 
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