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Eugenio Monti, il leggendario amante della velocità.
#1
Lo chiamavano il “rosso volante”, mani e gambe sensibili alla velocità e un coraggio radente l’incosciente, ne han fatto una delle figure più nobili e leggendarie dello sport italiano, ed in assoluto il più grande nella storia mondiale della sua disciplina. Un uomo all’apparenza timido, con l’idioma del fair play ben presente nella mente, ma con un evidente e vibrante agonismo e quella tenacia che, da sempre, distingue i super dai bravi dello sport.  Il suo nome, Eugenio Monti, per i più giovani abituati dal giornalismo odierno a non farsi cultura, dirà poco, ma per quelli che han qualche annetto in più e che han potuto vederlo, magari da piccini come nel caso del sottoscritto, crea un brivido. Eugenio, il “rosso”, è l’uomo che più di ogni altro ti ricorda il bob, il fascino di quella “gigantesca slitta”, la sua pericolosità, l’esigenza di giocarsi sui centesimi la gloria o la beffa, nella perfezione di una guida che vai a consumare offuscata dalla velocità e dal bianco della pista. Un mito verso il quale le parole non si sprecano, se servono al ricordo, e un atleta coi fiocchi in grado di essere qualcuno in uno sport diverso, prima di scavare un solco indelebile nella disciplina della notorietà.
[Immagine: 18_SH_EugenioMonti-mediahex.jpg]
Eugenio Monti nacque a Dobbiaco il 23 gennaio 1928 e gli sci, gli vennero facili ai piedi come a tanti altri della zona. Erano i tempi di Zeno Colò ed il giovane Monti, come il grande uomo dell’Abetone, amava la discesa perché già evidenziava un coraggio fuori dal comune e una incredibile sensibilità ai piedi e alla velocità. Un incidente lo frenò nella sua corsa alla conquista dei vertici mondiali, ma riuscì a vincere due titoli italiani, a giungere secondo nel mitica pista del Kandahar, a trionfare in una prova della “Settimana di Cortina” e a cogliere vari altri piazzamenti di prestigio. Ma nel 1951, sul Sestriere, cadde rovinosamente, procurandosi lesioni così gravi da mozzargli la carriera nello sci. Eugenio però, aveva la velocità nel sangue e scelse un altro sport invernale, ancora più rischioso e ardimentoso dello sci, il bob. Iniziò la nuova avventura nel 1953 e l’anno successivo vinse il suo primo titolo tricolore nel bob a quattro. Fu il primo timbro di un crescendo che ebbe dell’incredibile, tanto per le copiose vittorie, quanto per quelle sfortune e quelle beffe, senza le quali sarebbe stato più marziano di quel che, comunque, ha dimostrato di essere.
Le luci più importanti del suo palmares sono:
Campione mondiale di bob a due nel 1957, 1958, 1959, 1960. 1961, 1963 e 1966. 
Campione mondiale di bob a quattro nel 1960 e 1961 
Campione olimpico di bob a due nel 1968 
Campione olimpico di bob a quattro nel 1968. 
[Immagine: 7566126_7565424-1.JPG]
Sorprenderà il suo arrivo quarantenne ai titoli olimpici, ma ci sono motivi, alcuni dei quali semplicemente straordinari.
Alle Olimpiadi di Cortina (1956), senza quel pizzico di fortuna sempre indispensabile nello sport come nella vita, venne beffato dall’italiano Dalla Costa nel bob a due e dallo svizzero Kapus nel “quattro”. Quindi, due argenti per pochi millesimi. Nel 1960, quando l’imbattibilità di Monti la vedevano i ciechi, le prove olimpiche di bob vennero annullate perché gli organizzatori americani di Squaw Valley, riuscirono in uno di più grossi tonfi nella storia dello sport: non fecero in tempo a preparare una pista per il bob. E la dimostrazione che il “rosso volante” avesse potuto vincere entrambi i titoli a cinque cerchi, venne dopo pochi giorni da quell’annullamento. Infatti, ai mondiali di Lake Placid, sempre negli USA, Monti stracciò tutti in entrambe le prove. Ai Giochi di Innsbruck nel 1964, Eugenio dimostrò al mondo intero quanto fosse non solo un grandissimo bobbista, ma un vero sportivo, aggiudicandosi la palma di vincitore morale per una fatto di fair play, che ha pochi paragoni nel grande romanzo dello sport. Nelle due prime discese del bob a due, Monti, compì qualche errore di troppo e gli altri ne approfittarono per guadagnare terreno su di lui. In testa c’era l’inglese Nash, ma alla fine della seconda discesa, al bob britannico si ruppe un pezzo, di cui, il team, non aveva ricambio. Disperati, gli inglesi riscontrarono di non avere nessuna possibilità di reperirlo, quando, Eugenio Monti, volontariamente, andò a fornire loro il suo, e i britannici poterono vincere l’oro. Eugenio finì terzo, sia nel “due” che nel “quattro”. Per il grande gesto compiuto, gli fu consegnato a Parigi il Trofeo Pierre De Coubertin. Quella di Innsbruck, a 36 anni, poteva essere l’ultima occasione per il grande bobbista di Dobbiaco di vincere quell’oro olimpico che aveva strameritato, per la prestigiosa carriera e per quei metalli olimpici di minor pregio conquistati. Quando molti temevano un suo abbandono, Monti annunciò che avrebbe continuato fino ai Giochi di Grenoble, anche se, a quarant’anni, la conquista dell’oro, non sarebbe stata certo facile. Disse anche che nel caso di un’impresa, non sarebbe più salito su un bob. Per quattro anni la sua mente fu solo sulla pista dell’Alpe d’Huez. Stavolta i grandi giorni arrivarono e per il quarantenne “rosso volante”, giunsero entrambi gli ori. Come aveva promesso quello fu il suo dorato canto del cigno. Sono passati decenni da quei grandissimi giorni, ma ancora oggi, quando ti avvicini ad una pista di bob, ti sembra di sentire il sibilo dell’arrivo sfrecciante, ed in perfetta linea, di quel siluro delle nevi, guidato dal leggendario Eugenio Monti. Un immortale!
 
Il primo dicembre 2003, il “Rosso Volante”, il più grande bobista della storia, si tolse la vita con un colpo di pistola. Ne fui molto colpito. Caro Eugenio, quando di te scrissi richiamando il tuo mito e come si costruì, sapevo quanto la tua vita nascondesse tragedie e quotidiane sofferenze. Le vivevi nel silenzio, su quegli sfondi innevati che sono stati tuoi compagni inseparabili nel tuo tratto di questa dimensione; mai ti lasciavi andare alle leggi, non scritte, della commiserazione e dell’abbandono sui quei principi che nacquero in te, nel momento stesso venisti a noi, per eleggerti immenso. Lo voleva la tua terra, fatta di gente pragmatica, disponibile alla fatica, laboriosa nell’adorare la montagna e quei bianchi segni che rilanciano i cuori verso il sogno, ma che tanto spesso non si riesce a narrare perché le parole sono troppo distanti e piccole di fronte alle maestosità. Eugenio, tu lo avevi capito da tempo, dipingevi e lavoravi, inventavi, tracciavi, eri sublime nel gesto artistico-sportivo e nella capacità di onorare e rendere fertili i luoghi tua dimora. Portavi luce, incantavi e chi ti incontrava senza sapere che eri stato un grande dello sport, trovava in te i sentieri per non dimenticarti come uomo.
Eppure nel tuo famigliare intorno, cresceva quell’inferno che spesso sorge indipendente dalle nostre volontà e che troppi psicologi voglion legare a noi, dimenticando la società: quell’oggi che ha perduto l’incenso della vita per abbandonarsi al fatuo e all’incontentabile. A quelle variabili che ci fanno insofferenti, che ci avvicinano istintivamente al bisogno d’evasione, che ci trafiggono senza farsi vedere, spinte dal mediatico e dai processi simpatetici che si impadroniscono dell’immaginario collettivo.
Sapevo quanto soffrivi, quanto dolore si andava dipanando sui tuoi giorni, sui tuoi affetti, su quel caro che sta in noi tutti, anche in chi perde gran parte della giornata ad inseguire il proprio ruolo di burattino, o perfido ed ignorante bamboccio di chi usa la parola libertà per sciacquarsi la bocca cosparsa di sterco. Hai vissuto i tuoi drammi, lontani dagli echi della tua leggenda, come un uomo che aggredisce i perché, ma che giunge alla constatazione di essere impotente di fronte alle droghe collettive e ai segni del disumano volgersi ad assiomi di cultura becera.
Sapevo, Eugenio, ma il rispetto che t’ho sempre portato come luce della mia fanciullezza e mito perenne della mia vita, m’avrebbe impedito di metterti al gioco dei pettegolezzi del giornalismo imbecille, o di quelle persone che han trasformato la mente, per evidenziare una bocca uguale ad una cloaca. Me lo impedisce tutt’oggi, perché non voglio in ogni caso spiegare quello che il semplice ricordo della tua opera di generoso ed onesto artista inimitabile, spiega a sufficienza. Tu, che non perdesti un attimo a donare uno strumento del bob di chi ti portava via quel lungamente inseguito oro olimpico, non vai tradotto: eri, e sei rimasto. Quello che hai fatto in questa dimensione, lo scriveranno quei giornali che t’han dimenticato per anni, come fanno sempre per le leggi delle vendite, nell’insito ed aberrante idiotismo che le regola per sincronia col sogno imbecille di un uomo che vede solo denaro e che è un criminale, tanto più ricco diventa! Voglio solo personificare questo mio arrivederci, Eugenio, ringraziandoti per l’estremo esempio che hai lasciato e che porto con me da anni, da quando mio padre, ridotto in un letto a ventisette chili, lui che era forte come un toro, mi disse che era stato uno stupido, nel non prendere quella pistola, quando ancora le forze per farlo lo assistevano. A quegli studi spesso contestati, ma a cui ho sempre riconosciuto istmi di intensa verità, vissuti in gioventù sulle opere di Durkeim e Shopenhauer.
Spero solo abbiano la decenza di non definirti un debole, perché non c’è ragione o cruccio, più difficile ed angosciante di porsi una pistola alla tempia. Nemmeno la pazzia lo spiega, o lo può spiegare. Quando poi c’è l’accompagnamento di uno scritto, l’osservatorio deve portare solo il rispetto dell’intelligenza, senza bestemmiare Dio o generarsi nel materialismo cretino dei superficiali, con le solite frasi che non scrivo per doveri di vomito.
Anche quegli organi che hai donato danno un segno di te, di quello che eri e che rimarrai scolpito fino a quando l’uomo avrà cervello sufficiente per ricordare.
Spero solo di incontrarti un giorno, per sapere quello che qui, su questa Terra sempre meno degli uomini, non ho fatto in tempo a chiederti. So che mi dirai come facevi a tenere il tuo bob cosi alto sulla “Curva Cristallo” della pista di Cortina, ed uno dei più limpidi gesti dell’arte sportiva che ho potuto vedere, si eleverà su un luccichio più umano.
Intanto, sui bob di tutto il mondo, resterà il sibilo del tuo mito immortale, caro, carissimo “Rosso Volante”.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Lo sport del mitico Eugenio Monti

Uno sport che si confonde con l’incoscienza, ma non è il solo. Protagonisti: uomini coraggiosi, ma sempre uomini che, nell’atto agonistico, si imbevono di un’alterazione palpabile, suprema.
E’ la paura…della paura che tormenta il cervello negli attimi prima del via. Serpeggia fino alle ginocchia. Opprime il petto e toglie il respiro. Offusca i sensi. Il bob é sul ghiaccio, i quattro pattini posano sulla corsia levigata che terminerà 30 metri più avanti, dopo di che saranno solo il pilota e il bob, a decidere la direzione. Un segnale dell'altoparlante avverte: la pista é libera. Le mani stringono la staffa all'estremità del bob, pronte a spingere. Un aiutante pulisce in fretta, con una spazzola, i chiodi d'acciaio sotto gli “spikes” del guidatore e del frenatore, le scarpe speciali che devono offrire la presa necessaria durante l'accelerazione iniziale nel canalone di ghiaccio.
Dal pulsare delle tempie si indovina il battito cardiaco, rapidissimo: tra i 100 e i 120 battiti al minuto, quasi il doppio del normale. II bob viene dondolato avanti e indietro di pochi centimetri, in modo che si formi una pellicola d'acqua sotto i pattini d'acciaio che misurano otto millimetri di spessore. “Pronti?” - chiede il pilota. Da dietro arriva la risposta: “Okay!”.
Poi si conta lentamente: “Uno, due, tre, viaaa!”. Quattro braccia spingono in avanti il bob, che pesa due quintali. Dopo quindici metri, la strana slitta tocca la prima barriera elettronica. Il contatto cronometrico scatta, l'orologio corre. Dopo venti metri, il pilota salta al suo posto. Le mani afferrano i passanti metallici che per mezzo di un comando a cavo, manovrano i pattini anteriori. Il bob avanza traballando, sempre sotto la spinta del frenatore che salta a bordo, soltanto quando il “siluro” acquista una velocità superiore alla sua. Dopo trenta metri anche lui (spesso un ex velocista o decatleta) é sul bob, si siede sistemando le gambe a cavalcioni del pilota e cerca le maniglie di sostegno saldate sul fondo della “strana slitta”. Davanti a loro, adesso, ci sono 1500 metri, 15 curve, un minuto intero. Comincia il salto nel vuoto. Ora non c'e più modo di fermarsi, nessun aiuto, nessun pedale del freno. Perfino la paura arriverebbe troppo tardi.
“Partire da su, arrivare giù. Il bob é uno sport da idioti” - disse Peter Hell, buon bobbista tedesco, poi divenuto giudice. “Sono dei pazzi” - esclamò Walter Rohrl, spericolato rallista e vincitore a Montecarlo, quando vide per la prima volta i bob sulle curve verticali ghiacciate di St. Moritz, mentre per il mitico Eugenio Monti, sono solo “uomini che rischiano e sanno di rischiare”.
Già, “partire da su, arrivare giù”.
II nostro bob intanto, arriva strepitando alla prima curva a sinistra dopo il via. L'altoparlante annuncia il tempo dei primi cinquanta metri, dato orientativo per il tempo complessivo. Il pilota e il suo secondo non sentono. I pattini d'acciaio rimbombano sulle scanalature di ghiaccio, il fondo metallico del “siluro” ingigantisce ogni rumore. Quando arriverà la prossima curva? Alberi e spettatori schizzano via. Le pareti di ghiaccio alte 50 cm a destra e a sinistra del canalone, sono come le mura di una prigione. Poi si spalanca il tunnel bianco. Il bob si impenna in verticale. La pressione colpisce i corpi come una martellata, li comprime sui sedili, spreme l'aria dai polmoni. Secondo gli scienziati, a questo punto la velocità è quattro volte quella terrestre, 4g nel linguaggio della fisica. Respirare, respirare forte per evitare l'asfissia.
Il bob vola verso la parete successiva. Il battito cardiaco sotto la sottile tuta aerodinamica supera le 200 pulsazioni al minuto.
Sono valori che i piloti di Formula 1 raggiungono in pista. Come loro anche alcuni bobbisti prendono i “beta-bloccanti”, pillole calmanti per la circolazione sanguigna, comprese nella lista del doping. “Un buon guidatore deve essere freddo come il ghiaccio” - disse Wolfgang Zimmerer che, con quattro medaglie olimpiche e quattro titoli mondiali, é stato il miglior bobbista tedesco. Ed essere freddi significa padronanza dei nervi, calcolo cosciente del rischio. Prima del via i piloti si appartano in qualche angolo tranquillo. Si astraggono completamente e, ad occhi chiusi, ripercorrono mentalmente il percorso fino al traguardo. Più di un driver, orologio alla mano, ha cronometrato al decimo di secondo questa discesa immaginaria, perché dopo, in pista, non c'e più tempo per pensare.
Il bob é sempre più veloce, l'altoparlante annuncia i tempi intermedi. Ai bordi del “canalone ghiacciato” ci si chiede: dove avrà perso quel centesimo di secondo? Ha toccato una parete? E’ entrato in curva troppo alto o troppo basso? Sempre Zimmerer disse: “Una corsa perfetta non esiste. A sinistra, a destra, un paio di metri avanti, é come trovarsi dentro una lavatrice in funzione e guardare fuori dall'oblò. La velocità annebbia ogni percezione”. Nel 1981 a Lake Placid, gli austriaci Manfred Stengel e Otto Breg, scivolarono sulla testa per alcune frazioni di secondo in una curva. II bob si era capovolto. Al traguardo avevano dimenticato tutto.
La maggior parte degli incidenti finisce senza grossi danni, anche se agli spettatori possono sembrare catastrofici. Tuttavia, sulla pista di St. Moritz, durante i campionati europei 1984, un errore di manovra nella curva del traguardo, stava per costare la vita al tedesco Gaisreiter. Tre settimane prima, lo stesso, si era capovolto nello stesso punto. “Lo shock non passa tanto in fretta” - affermò dopo.
Nella storia del bob ci sono una quindicina di morti. La pista di St. Moritz ha mietuto due vittime e numerosi feriti gravi. Nel 1968, il copilota dell'austriaco Werner Dellekarth, si ridusse in brandelli il viso, nel 1976 fu amputata la gamba sinistra allo svizzero Peter Berner, nel 1977 l’austriaco Fritz Sperling, in una caduta, si ferì gravemente la testa.
“Le cadute fanno parte del gioco” - affermò Walter Graf, a quei tempi direttore della pista di St. Moritz. Poi, forse per difendere passione e mestiere, aggiunse: “Questo inverno su 2218 partenze, le cadute sono state solo 31”. A Lake Placid, sulla pista probabilmente più veloce, le cadute sono, invece, all'ordine del giorno. Nel “canalone ghiacciato” lungo 1557 metri, sono morti tre bobbisti, uno dei quali, nel 1966, fu l’allora campione mondiale, l’italiano Sergio Zardini. Verso quella pista, fra gli amanti dei “siluri” del ghiaccio, si vive una forma di sacro rispetto, un eufemismo per non dire, direttamente, di paura.
Sulla pista olimpica di Lake Placid, ai margini della famigerata sequenza di curve, alte 3 metri e con una pendenza di 80 gradi, soprannominata non a caso “l’ingresso dell’inferno”, per tanti anni, ogni gara di bob, trovò il suo “Caronte” particolare, nelle vesti della fotografa dilettante Kay Jones. Con la macchina fotografica in mano, costei, antiquaria di professione, aspettava di poter scattare la foto del misfatto. “Lo sento subito – diceva - se questi ragazzi fanno un errore e allora scatto la foto”. Il mattino dopo vendeva ai bobbisti ad un prezzo di favore, le foto dell'incidente. Proprio la veterana delle cadute fotografò i due austriaci Stengel e Breg mentre volavano a testa in giù e anche l'ultima corsa dell'italiano Zardini.
[Immagine: Bundesarchiv_Bild_183-1990-1220-018%2C_A...l_Jang.jpg]
La corsa intanto continua. Il frenatore, che non può frenare, nasconde la testa dietro la schiena del pilota. Il vento non deve trovare la minima resistenza: si sono vinte o perse della gare per questo sottilissimo motivo creatore di differenze in millesimi, a volte centesimi di secondo. I due corpi si piegano in sincronia nelle curve, formando il giusto angolo con la pista. Dei buoni frenatori possono correggere gli errori di manovra del pilota spostando velocemente il proprio peso. In questo, era particolarmente bravo Peter Utzschneider, che per molti anni fu il frenatore, proprio del più volte citato Zimmerer.
Nelle piste di ghiaccio artificiali, lisce come specchi, costate cifre da palazzetti di pregio, a Konigssee o a Winterberg, a Innsbruck o a Oberhof, il tempo perduto per un errore di manovra non si recupera più. I veterani di questi “canali di ghiaccio”, inseriti a forza di colate di cemento nel paesaggio e che perfino con una temperatura esterna di 15 gradi, con i loro refrigeranti, garantiscono la gelida avventura, li chiamano “Autostrade”. Invece, le piste naturali, come St. Moritz o Cortina d'Ampezzo, assomigliano a strade selciate, ma offrono ai buoni piloti la possibilità di fare delle correzioni, perché si deve manovrare di più.
Il bob, la “strana slitta” o il “siluro” del ghiaccio costa caro. Per una stagione si può spendere per manutenzione e attività, una cifra anche superiore a quella d’acquisto. Il leader dei costruttori è l’italiano Sergio Siorpaes, antico grandissimo frenatore del mitico “Rosso Volante” Eugenio Monti. Un bob a due costa sui 7-8000 euro ed un bob a quattro circa il 35% in più. 
Sono passati un minuto e dieci secondi dal via. Settanta secondi di acrobazia su quattro sottilissimi pattini. Manca soltanto la curva d'arrivo e poi la dirittura del traguardo, dove gli occhi elettronici del cronometro si chiudono per un attimo. “Stop!” urla il pilota. Dietro di lui, per la prima volta, vengono azionate entrambe le leve dei freni verso l'alto. Sotto la parte posteriore del bob che avanza rollando, un rastrello d'acciaio si conficca nel ghiaccio frantumandolo. Una pacca sulla spalla al pilota. I capelli sotto il casco sono bagnati come dopo una doccia, il respiro affannoso disegna nuvolette nella fredda aria invernale. Ma la paura è passata.
 
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