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Gary Wiggins
#1
[Immagine: gary-wiggins2.jpg]
Gary Wiggins (classe 1952) padre del celeberrimo Bradley è stato un corridore australiano, genio e sregolatezza, dalle evidenti fibre “bianco-rosse” (quelle che sono determinanti per un inseguitore e seigiornista). Uno che venne non più giovanissimo in Europa, dopo esser stato due volte campione nazionale, per cercare fortuna, principalmente sui velodromi. Era forte, per fare un confronto con un altro caso tanto presente nelle telecronache di qualche anno fa niente a che vedere con la modestia del padre di Tom Boonen. Sempre protagonista nelle Sei Giorni, nella decina di prove vinte da Gary, fra strada e pista, spicca un Titolo Europeo nel Madison (Americana), in coppia con Tony Doyle. Wiggins senior però, non si cimentò mai nell’inseguimento con un minimo di attenzioni. Amava vivere, gli piaceva la birra. Sì ogni tanto si ubriacava, ed era un donnaiolo di spicco, fra i donnaioli mediamente più numerosi del ciclismo, ovvero i seigiornisti. Un “bad boy”, per le visioni tipicamente papaline (puntualmente smentite nel privato) degli italiani, ma generoso e con un senso dell’amicizia notevole, nonostante un carattere introverso, perlomeno nell’intorno percepibile. Gary amava l’Australia, voleva vivere nel suo paese. Del Belgio e di Gand, dove dimorava quando nacque Bradley, amava soprattutto le convenienze per svolgere il suo lavoro, nonché quella birra che gli piaceva tanto, ma non avrebbe mai scelto quei luoghi per passarci il dopo carriera. Idem l’Inghilterra, il primo paese raggiunto nel “vecchio continente”, sul quale incontrò, sposandola due anni dopo (1979), Linda. Fu questo il motivo totalizzante della rottura con la moglie avvenuto quando Bradley aveva due anni, nel 1982. La storia di Gary continuò così in Belgio, mentre il resto della famiglia si spostò a Londra, e non è vero, almeno da quanto ho letto e saputo da chi conviveva con Wiggins senior le medesime esperienze (chi mi conosce, non tarderà a capire a chi mi riferisco…), che lo “strano padre”, non abbia mai subito e sofferto quella situazione. Il resto della sua vita e, per taluni aspetti, della carriera, lo dimostra e lui ne ebbe certezza quando, nel 1985, tornò in Australia per partecipare al “Griffin 1000 West”, dove vinse tre prove: era la sua terra, l’unica che poteva alleviargli quella sofferenza. Quando, il 31 gennaio del 1987, durante la Sei Giorni di Copenaghen, un grave incidente mise il punto sulla sua carriera, il ritorno alle origini si concretizzò. Per oltre in quarto di secolo visse facendo di tutto, dal meccanico di biciclette, al lavapiatti, al parcheggiatore, al manovale, al fattorino. 
Uno “zingaro anglosassone”, come la sua indole amplificata dal dolore voleva, bevendo birra, con conseguenti sbronze in numeri ben minori a quanto scritto o detto da troppi, rifugiandosi nell’amore che poteva trovare e con la medesima generosità verso quegli amici lasciati in Europa che, ogni tanto, lo raggiungevano. Certo, qualche volta alzava le mani, ma chi vive ai margini, sa che è una possibilità che si tinge sovente di inevitabilità. Poi, quello che gli intimi conoscevano, uscì nell’occasione più tragica e senza ritorno: all’alba del 25 gennaio 2008, Gary fu trovato incosciente in un lato di una strada di Aberdeen, nel Nuovo Galles del Sud, lo stato di Sydney. Ricoverato dapprima in un piccolo ospedale, fu poi trasportato in aereo presso il “John Hunter Hospital di Newcastle, dove, un paio d’ore dopo, morì, per gli effetti del trauma cranico subito. La sorella di Gary, la più vicina a lui, o meglio, la meno distante nel quarto di secolo passato dopo aver messo il punto sul ciclismo, rovistando nella dimora del fratello, per rintracciare la sua famiglia in Europa e per il disbrigo della burocrazia che accompagna simili momenti, trovò un vero e proprio emporio di comunicati stampa, articoli di giornali, resoconti, filmati ecc., raccolti e tenuti assieme con una precisione ed un ordine maniacali: erano tutti sul figlio Bradley. Tutta la carriera di quel ragazzino che era diventato negli anni più volte iridato nonché Campione Olimpico, era lì, fisicamente come un’oasi di ordine, ma nella realtà, non era altri che la proiezione di un padre che non aveva forse saputo testimoniarsi, ma che amava il figlio e ne sentiva fortemente la mancanza. Quel Gary, come mi è stato detto, che in Australia si confondeva fra gli umili ed i comuni come un credo, senza mai far trapelare di essere stato un campione e di avere un figlio ormai leggendario, non aveva raccolto le sue pagine sul mezzo, ma il tratto luminoso di quel suo Bradley, allontanatosi poco più che in fasce, per un insieme di forze impossibili da giudicare, se non si hanno 360 gradi di conoscenza. Ed io, che in questa storia ho già superato, non senza far spuntare le lacrime, i margini di quella che in ogni latitudine è spesso una presa per i fondelli chiamata privacy, non li voglio allungare ulteriormente la lettura con altri particolari, veri o presunti tali, che, in un modo o nell’altro ho conosciuto. Già, perché giunto qui, mi sto chiedendo cosa m’ha spinto a farlo, visto che il tutto non aggiunge nulla alla caratura delle nobili fibre che Gary ha trasmesso a Bradley: è superfluo alla disamina dei titoli e delle enormi grandezze, sicuramente sottostimate dall’osservatorio ciclistico su questo figlio d’arte, ed in cambio come un evidente masochista, mi sono cosparso di sofferenza a scrivere questa storia così triste. Ma al cuor non si comanda, ed ancora una volta, sono caduto (spero in piedi), su quell’intimo richiamo che mi coglie quando le quotidiane autoctone ferite, lasciano il passo, ed il tempo e la "voglia" di sigarette, me lo permettono. 

Bradley Wiggins, dunque, è giunto a solcare gli albi d’oro, ed i valori di una prova come l’inseguimento, tanto cara a grandi campioni, Coppi su tutti, evidenziando un abbinamento di perfezione stilistica e di efficacia, come raramente s’è vista nella specialità e nelle stesse cronometro. Gary non avrebbe potuto sognare di meglio. Poi ha vinto addirittura il Tour de France, grazie alla ormai consuetudinaria trasformazione fisica. Ma la sua genesi poggiava sul sangue blu di famiglia e le coordinate dimostrate di un campione, seppur settoriale. Non dal nulla o quasi, come  chi è venuto dopo.  

Maurizio Ricci detto Morris
 
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