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Dal mio quaderno di ricordi.....
#1
Ricordi…..
 
Come tanti, anch'io, nel ciclismo, preferisco la montagna e gli scalatori, ma fin da bambino tenerissimo, ho istintivamente voluto immedesimarmi nei segreti e nelle particolarità di ogni gesto possibile sulla bicicletta, senza esaltare le differenze simpatetiche, ed alla fine, grazie a questa impostazione, ho salvato la passione per questo sport, dalle sue traversie, non piccole, e dai suoi pessimi dirigenti, i peggiori dell’intero sport mondiale. Lo stesso m’è capitato per l’atletica leggera ed altre discipline, perché sono tante quelle che si compongono di diverse variabili. 
Ivan Quaranta mi colpì subito. Erano i primi di giugno del 1992, quando al velodromo di Forlì, Sergio Bianchetto, un simpatico amicone, riuscì a proporre una riunione internazionale preolimpica, con quasi tutti i migliori pistard mondiali, ed un parter di tecnici, dal passato così glorioso, da farmi divertire e piangere d’emozione, nel formulare quelle somme di titoli che si spingevano fino a numeri da brividi. L’amico Mauro Orlati, allenatore di grande valore, nonostante l’impegno verso il fantasioso e formidabile talento di Adler Capelli, appena vide i miei occhi roteare impazziti dalla soddisfazione di trovarmi su quel “mare”, prese subito la palla al balzo per urlarmi: “Hei Maurizio, non spendere tutta la voglia e il tuo sapere, perché in Polisportiva ti vogliono anche domani!”.
Già, avevo lasciato palestre, campi e atleti, per prendermi una giornata che ancora oggi definisco storica.
Conobbi Daniel Morelon, che mi riempì di “mercì”, ebbi la prova che il colossale mattacchione Michael Hubner, avrebbe potuto lussare, con la forza della sua mano destra, anche la spalla di Tyson. L’esaltazione dei momenti, mi donò improvvise ed inaspettate capacità di rendere il mio inglese maccheronico, come gli spinaci di Popeye, fino al punto di avvicinare Gary Neiwand, l’australiano amico-avversario del gigante tedesco e scherzare con lui, infarcendo il tutto con spaccati di riferimento sullo sport aussie.
Diventai un’attrazione (forse la mia più grande impresa di intrattenitore pazzoide…) al punto che Neiwand, prima di salire in pista per i 200 lanciati, mi promise il record di quel vetusto anello e dopo aver percorso la distanza con tanto di primato, mi salutò strizzando l’occhio, alzando contestualmente il pollice destro.
Fenomeni che si stavano sfidando con gli sguardi attenti di altrettanti fenomeni solo moderatamente appannati dai capelli grigi e da una tuta. Raggiunsi il professor Massimo Marino, più anziano di me di un paio d’anni, che ben conoscevo, a cui ricordai quando 23 anni prima, sul medesimo impianto, seppe vincere il suo primo titolo tricolore nella velocità, fra gli esordienti. Al tempo, Marino, era il direttore tecnico dei velocisti juniores, uno che era riuscito a costruire quella scuola dello sprint che poi, il Ceruti (“Non voglio gli uomini michelin!”) disintegrò. Già, in pochi anni, podi e titoli iridati erano piovuti su quell’italica velocità che già allora sentiva come un freno enorme, la mancanza di quell’impianto coperto in possesso di tutti, in Europa. Eppure, nonostante questo neo, dopo il titolo di Gianluca Capitano, il tecnico romano, era riuscito a strappare ad altri sport, fino a farlo emergere con tanto di iride, quel mostruoso talento atletico che rispondeva al nome di Roberto Chiappa (l’ultimo 99esimo percentile, di cui sono a conoscenza, passato al ciclismo). A Massimo, chiesi subito cosa bolliva nel suo “pentolone magico” e lui mi rispose che non era facile sostituire uno come Roberto (nel frattempo divenuto dilettante e subito 4°, a soli 19 anni, alle Olimpiadi di Barcellona…), ma c’erano diversi ragazzi interessanti che avrei potuto osservare di lì a poco.
“Verrò a chiederti un parere su di loro dopo” – aggiunse strizzando un occhio.
In quel vortice di emozioni dato dalla miriade di stelle in gara, quella sua frase mi incuriosì e la presi come un impegno. Neanche il tempo di scambiare qualche battuta con Capelli (prima o poi dovrò pur scrivere su di lui qualcosa…!) e di spostarmi nella postazione ideale per vedere al meglio i ragazzi di Marino, che un giornalista RAI (non più visto e sentito) mi venne a rompere i cosiddetti, per chiedermi di aiutarlo per il servizio sulla riunione. Fui di uno sgarbato da schiaffi: “Vai in onda a mezzanotte e trenta, in differita, e vieni qui a rompermi le palle tre ore prima, per 45 secondi di servizio? Dai, vai a cuccia, che il testo te lo scrivo in due minuti, dopo la finale del mezzofondo!” Quel tipo, era così mollusco o impaurito, che digerì i miei ragli, come fossero foglie d’insalata.
La finale della velocità juniores si corse a tre e in un’unica prova. Ricordo che appena un assistente di giuria mi passò le generalità del terno allo start, vedendo il cognome Quaranta, pensai fra me e me: “Vediamo se Quaranta fa novanta!”. Il ragazzino lombardo però, più che novanta, fece cento. Nella curva antecedente il rettilineo, era terzo e nonostante la velocità elevata, uscì a schizzo da quella posizione, rimontando Gambareri, fino a tagliare il traguardo con una mezza bicicletta sul secondo, ed una sul terzo. Ebbi la netta sensazione che fosse di un’altra categoria. Sensazione che si confermò guardando il suo fisichetto non certo corazzato e il tempo impresso sul tabellone luminoso dei cronometristi, dove imperava un significativo 11”4 sugli ultimi 200 metri. Quando vidi Marino venirmi incontro, lo anticipai: “Vecchia volpe romana, mica mi avevi detto che avevi un altro fenomeno nel cilindro!”
“Beh …non volevo rovinarti la sorpresa…” – rispose sorridendo.
Nel vortice d’ammirazione che sempre mi coinvolge nel vedere qualcosa di non comune, continuai: “Ai Mondiali di Atene, nonostante quel francese omonimo del grande Rousseau, di cui si dice un gran bene, questo Quaranta, può succedere a Chiappa. Sarà durissima, ma se riesce ad imbrigliare la potenza e la velocità prolungata del transalpino che dicono sia un gran chilometrista, impostando una volata corta, il ragazzino di Crema, con quella esplosività da fulmine, non lo batte nessuno. E tu lo saprai pilotare al meglio affinché ciò avvenga!”
“Dici bene, ed è quello che faremo se dovessimo scontrarci col fenomeno francese. Vuoi venire con noi?”
“Magari potessi!” – gli dissi mentre tornavo al mio lavoro ….di divertimento.
Già, fossi stato ad Atene, mi sarei messo a piangere di gioia, perché l’Ivan di Crema, col suo fisico non culturista, dopo aver vinto i Tricolori della specialità dominando, giunse ai Mondiali greci col piglio responsabile, di dover difendere la scuola di Massimo, dall’astro transalpino. I due non si scontrarono in finale, bensì in semifinale. Quaranta, fu perfetto nel disegno tattico, impostando la prima volata sulla brevità dello spunto, ponendosi in testa nella classica andatura da ricerca di surplace, ma abbastanza alto, in modo di chiudere un eventuale anticipo di Rousseau. Ivan ben sapeva che lo scatto, per lui così esplosivo e brevilineo rispetto allo statuario francese, gli avrebbe dato qualche carta pregiata. Si portò sull’uno a zero così, come quei pistard dei tempi lontani che basavano tutto il loro meglio sull’estro e la fantasia, piuttosto che sui muscoli.
Nell’altra prova, Rousseau, cambiò atteggiamento, cercando di svolgere la propria lunga volata per fiaccare il guizzo del cremasco, ma sbagliò i conti, perché per riuscire nell’intento, avrebbe dovuto proporre uno sprint come fosse stata una gara sul chilometro.
Ivan, pur stringendo i denti, gli si pose a ruota e fu ugualmente capace di giocare il suo schizzo negli ultimi cinquanta metri. Lo rimontò raschiando il fondo delle sue fibre velocistiche, ma vi riuscì, prendendo per mano quella maglia iridata che poi, in finale, al cospetto del russo Bokhanisevk, raggiunse compiutamente.
Ciò che ha poi fatto vedere Rousseau (dalle medaglie d’oro e d’argento alle Olimpiadi, ai sei titoli mondiali, fra chilometro e velocità, nonché un’infinità di gran premi…), che, si badi, pur avendo il medesimo millesimo di nascita di Ivan (1974), è, nei fatti, più anziano di quasi un anno (primi di febbraio contro metà dicembre), danno a chi si pone di fronte a Quaranta, un primo ed inconfondibile metro del suo talento velocistico.
 
Dopo la grande stagione ’92, ebbi diverse volte occasione di parlare col cremasco. Quando veniva ai collegiali di Forlì assieme a Roberto Chiappa, trovavo sempre il tempo di prendermi un permesso per raggiungerli e poi, magari, pur di finire i colloqui, mi prestavo con l’Espace della mia Sanson, a portarli in stazione. Due talenti simili, al pari di Capelli e del ravennate Andrea Collinelli, erano manna per la mia passione verso la pista, ed averli vicino alla sede della Politecnico dello Sport, come amavo chiamare la mia polisportiva, rappresentava per me una variabile nuova di conoscenza di quell’insieme di reattività, caratteri e particolari tecnici che si fondono in un atleta. Ed i pistard, alle doti che si richiedono ad un ciclista, aggiungono spesso quell’imprevedibilità pazzerella ed il virtuosismo magari masochista o esageratamente da mattacchioni, che sono come il pane per uno come me che, al tempo, viveva in mezzo agli atleti, ed era sovente chiamato ad aggiungere al ruolo, quello di fratello maggiore, amico o  psicologo.
In quegli anni, praticamente fino all’esordio fra i professionisti, quando incontravo Ivan, gli dicevo sempre di non abbandonare mai completamente la pista, anche se nella velocità era chiuso per la trasformazione tecnica e fisica dei velocisti. Sui velodromi avrebbe trovato lo spazio su altre specialità dove il suo talento indubbio, sarebbe stato in grado di emergere con forza.
“Se passerai alla strada – gli dicevo - fallo ricordandoti di Peter Post, che arrivò a vincere la Roubaix alla media record (ancor oggi ineguagliata) senza mai abbandonare le sei giorni dove era un re e pure le altre specialità. Tu sei più veloce di Peter, non dimenticarlo, ma hai le fibre bianche più fragili e devi saper convivere con loro, senza distruggerle concependoti totale stradista. Devi saper sfruttare le tue doti, il guizzo, la scaltrezza, le tue punte di velocità che sono una rarità. Da professionista troverai i treni alla Cipollini, ma tu hai l’abilità per anticiparlo nell’acuto e, magari, col solo aiuto di un compagno, inventare quelli che erano gli sprint di una volta”.
 
Il ragazzo nei primi anni mi donò soddisfazioni a iosa, perché i suoi sprint erano una lezione di quello che da bambino avevo cementato in me come l’arte del velocista, con un solo compagno al massimo ad aiutarlo. Quaranta stava proponendo, senza saperlo, una rivoluzione sulla via di quella che Marco Pantani stava tracciando sui monti: il pirata ci faceva tornare ai tempi di Gaul e Bahamontes, superando in tanti contesti l’ultimo mohicano Fuente, ed Ivan ci donava le sensazioni che ci avevan donate Maertens e Van Linden a metà degli anni settanta. Certo due mondi diversi e due spessori diversi, ma la menzione di segno ci sta tutta.
 
Nel 1999, nella tappa di Cesenatico al Giro, vidi per l’ultima volta Quaranta. A poco meno di duecento metri dal traguardo, anticipò Re Leone Cipollini, con uno scatto al fulmicotone, come aveva fatto con Rousseau in pista. Fu un capolavoro d’intuito e di qualità velocistiche che mi dimostrò, con le sensazioni ineguagliabili del vivo, il medesimo spunto che l’aveva reso vincente ai danni di Blijlevens e Supermario, in quel di Modica, nella tappa inaugurale di quel Giro. Solo McEwen, fra i corridori delle ultime generazioni e nell’attualità, ha mostrato simili cromosomi. Ivan era un vero “ghepardo”, proprio come il nomignolo che iniziò ad accompagnarlo nell’osservatorio più largo.
 
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#2
Il like non basta... 

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Pezzo straordinario, scritto in modo eccellente, con competenza inarrivabile, in cui il fil rouge traspare via via: amore e passione, per il ciclismo, la pista, gli uomini che ne hanno scritto le storie. Grande Morris!!
 
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#3
Un vecchio dischetto floppy, dimenticato in mezzo ad un libro di Gerhard Herm, “Il mistero dei Celti”, contenente le note che scrissi tanti anni fa, su un figlio illustre delle terre di quel popolo….. 

E chi l’avrebbe mai detto! Ancor funzionante, nonostante il tempo di quella strana collocazione..... 
Un racconto a cui devo un "grosso grazie", per avermi ridonato un sentimento che rappresenta un’altra delle tantissime variabili di un ringraziamento più grande: aver vissuto. 
Ve lo lascio così com’è stato scritto, senza rileggerlo e "spolverarlo" delle ragnatele dei tanti lustri passati.....

Jim Clark: il sibilo d'un leggendario attraverso gli occhi di mio padre

…….….Enzo Ferrari, era un personaggio sanguigno, ed estremamente onesto nella sua visione del mondo e delle corse. Amava i piloti coraggiosi, molto meno i tattici. Forse perché era cresciuto, come pilota, quando sul mondo delle due ruote, impazzava Nuvolari, un personaggio che scatenava la passione delle folle e di cui, lui stesso,  era ammiratore profondissimo. Sarà, ma del grande Tazio, il “Drake” ha sempre cercato un emulo……fino al punto di riuscirci. Certo, perché Gilles Villeneuve, per dimensioni di spettacolarità e vittorie (entrambi con sei successi, incredibile!) è l’unico della storia dell’automobilismo, che può essere accostato al mantovano. Erano gli spettacolari, insomma, quelli che lo stuzzicavano al cuore. Alcuni esempi del credo di Ferrari, ci vengono poi da come, con una certa trasparenza, dimostrava le sue simpatie. Per citare alcuni confronti tratti dalla lunga serie di piloti che sono passati sulla leggendaria storia della “rossa”, l’ingegnere preferiva Von Trips a Phil Hill, Amon ad Ickx, arrivò alla rottura con un grande come Surtees, per valorizzare l’ardimentoso Lorenzo Bandini (la cui morte e le critiche che gli piovvero, furono la causa del rifiuto del Drake, di prendere piloti italiani per tanti anni). Gli piaceva Lauda, perché lo aveva aiutato a ritornare ai vertici, ma non lo amava. Forse fu grato all’austriaco, perché l’improvvisa partenza di questi, gli consentì di portare in Ferrari colui che pareggerà il mito della stessa rossa e, con lei, resterà scolpito perennemente: Gilles Villeneuve, appunto. Ma l’ingegnere un sogno rimasto tale, l’ebbe. Fu taciuto per anni dietro le quinte di una rivalità coi costruttori britannici o di lingua inglese, anche più forte di quella odierna. Un cruccio che si muoveva sottile dietro gli occhiali neri, via via più presenti sul suo volto; un compagno di viaggio costante che richiamava le cornamuse e i gonnellini di uno spicchio d’antropologia, tra i più intensi ed interessanti della Terra. Una nuvola che si stendeva sul profondo rosso delle sue auto, col tuono del rombo dei motori Climax, sul telaio della monoposto progettata dal tanto nemico, quanto insensibile e feroce, Colin Chapman. Quel sogno era un essere umano, ma coi tratti comportamentali dell’alieno, guidava da signore con l’audacia dei pazzi, ed era capace di accarezzare la pista con vetture che oggi non vorrebbe nessuno, semplicemente per non morire. Quell’uomo, quel pilota sì divino al punto di rappresentare la cementazione del ringraziamento per averlo visto, era uno scozzese il cui urlo anagrafico, sibilava come un segno venuto dall’aldilà: Jim Clark……. 

Non si saprà mai con certezza chi sia stato il miglior pilota di tutti i tempi, ci sono troppe pesanti variabili fra i vari periodi per un confronto credibile, ma una cosa è certa: esiste un gruppo di drivers che hanno veramente fatto la storia di questo sport. Jim Clark è forse il punto più luminoso di quel mazzetto di eletti che comprende Nuvolari, Fangio, Moss, Stewart, Lauda, Villeneuve, Senna e Schumacher. 
Vissi l’epopea di Jim ancor bambino, certo ero un prodigio a detta degli altri (che si fermò, fortunatamente, fino a rincretinire come si potrà notare), ed avevo un padre che era stato un grande potenziale centauro, un’istituzione per quei luoghi, amico di un campione del mondo che non disdegnava mai di dirgli che gli era inferiore, perché non aveva la medesima sensibilità al motore sia su due che su quattro ruote. Con un simile genitore, capace di coprirsi di chilometri nelle lunghe e scassate strade del tempo (non c’era ancora l’Autostrada del Sole) pur di vedere auto, moto, o biciclette in corsa, non potevo che pressarlo con un’infinità di domande. Babbo aveva una venerazione per Jim Clark, soffriva per quel passaggio alla Ferrari che mai arrivava (vi fosse stato, oggi, sarei un modenese) e quando il leggendario scozzese morì ad Hockenheim, lo vidi distrutto nel modo più terrificante che conoscevo. Non si sfogò col pianto (come invece farà nel futuro il figlio), bensì col ferro, il suo compagno di viaggio. La sua forza erculea azionò sul martello e l’incudine, il cerchio della ruota d’un carro agricolo uscito rosso dalla fucina fino a farlo sembrare carta stagnola. Nessuno poteva aiutarlo, faceva tutto da solo, maneggiando con la mano sinistra quel cerchio pesante (mi dicevano quasi un quintale), con pinze più grandi tre volte le mie mani. Il resto era compito della mano destra, che teneva un martellone pronto a modellare sordo quel ferro scarlatto sulla parte arrotondata dell’incudine. Venne il contadino che aveva commissionato quel lavoro e, con gli occhi grandi dell’incredulità, esclamò: “Vasco s’et fat, a sit nurme!?” (Vasco, cosa hai fatto, sei normale!?) “A so incazè, l’è mort Jim Clark. L’è un dè nigar, am sfog com ‘a pos e te tant’azerda ad aiutem caglia faz benesum da par mè. Met ta lé in sdè e guérda senza ciacarè!” (Sono incazzato, è morto Jim Clark. E’ un giorno nero e mi sfogo come posso. Non t’azzardare ad aiutarmi, perchè ce la faccio benissimo da solo. Mettiti a sedere e guarda senza chiacchierare!) – rispose mio padre, nero come il carbone che usava come combustibile per la fucina. 
Babbo, in quel lontano 7 aprile 1968, si accingeva a compiere i 58 anni ed io, due giorni dopo di lui, avrei compiuto i 13. Ero un ragazzino ancora coi calzoni corti che stava scoprendo intensamente, nel padre, la figura più grande della sua vita. Rispettai il suo dolore, sedendomi a guardarlo con l’ammirazione che superava i confini possibili per un figlio. Quel tardo pomeriggio si sciolse nell’imbrunire, ed i miei voli di mente, si posarono su un orizzonte che accarezzava la notte arrivante. Volevo capire altri “perché” su Jim Clark: l’uomo, il campione, il mito che aveva spinto la mente di babbo. Nel dolore di quella scomparsa mi resi conto, per la prima volta, quanto il gesto artistico di un grande dello sport, fosse un patrimonio incancellabile per le possibili sensibilità d’ognuno. Ed io, che preferivo emulare altre gestualità sportive, all’apparenza contrarie a quelle di mio padre, mi sentii con nitidezza molto simile a lui. Due giorni dopo, a scuola, si tenne il compito in classe di italiano. Il tema, per la quarta volta nell’anno, verteva sul Manzoni, già allora uno dei miei più grossi stimolatori di zebedei. Scocciato come non mai, non ci pesai due volte e scrissi di Jim Clark, delle reazioni di mio padre e delle bellezze artistiche dello sport. Furono tre ore di puro divertimento, con la consumazione di due fogli protocollo. Il professore si accorse del mio originale modo di parlare di quella “palla” di Don Lisander, ma se ne rimase zitto, forse voleva vedere se il ragazzino sottoscritto, l’unico in classe ad indossare i calzoni corti, aveva il coraggio di portare a compimento un simile affronto. Il giorno dopo, quel vecchio docente, giunto in classe con la sigaretta in bocca, non portò i compiti, ma decise di interrogare. Prima ancora della scelta delle “cavie”, capii che sarei stato una di queste. Ovviamente fu così, ma con la variabile non indifferente di una imprevedibile solitudine sul patibolo. L’argomento non poteva che essere il Manzoni. Me la cavai più che bene, ed il professore, senza ritegno alcuno, davanti alla classe, raccontò il perché di quella interrogazione: “Vedete ragazzi, il piccolo ribelle preferisce le corse in automobile ai Promessi Sposi. Ieri ha scritto di un pilota, della sua tragica morte e del dolore di suo padre. Lo ha fatto così bene che mi ha commosso. Nel compito in classe gli darò quattro, perché non è giusto sia lui a decidere il tema, ma oggi merita otto, quindi nel promiscuo letteratura automobilismo, s’è guadagnato un bel sei. Ovviamente il tutto non finisce qui, perché gli darò una nota che i suoi genitori dovranno firmare. Come vedete sono stato cattivo, ma questo ragazzino ci sa fare davvero e se non andrà al “Classico” lo prenderò a calci nel sedere!” La nota, scritta di pugno da quel fumatore professore e ben circostanziata, fui costretto a portarla a casa, assieme a quel lungo tema su cui era impresso in rosso un bel quattro. Com’era ovvio, nonostante il finale del giudizio del professore fosse un’esagerata lode nei miei confronti, mia madre si sentì spinta a strillare. Babbo, che aveva ascoltato la lettura singhiozzante di mamma, con l’impercettibilità solita, aiutata dall’onnipresente berretto in testa e la visiera abbassata un filo sopra le sopraciglia, si voltò verso di me, mi strizzò l’occhio destro e se ne andò dicendomi di raggiungerlo più tardi in officina. Dieci minuti dopo andai da lui. Il suo volto m’apparve subito radioso. “Giarganen, a te deg in dialet, neca se la tu ma’ l’han vo’, ma ci propi brev e a so’ fier ad tè. T’é da capì la mama, la ià da fè la sù pèrta, ma tè t’ham pìès. T’han ci un rufian e ci come la tù surèla, t’scriv propi bèn. T’è fat un tema sora Jim Clark, cum pé quel clà scret e giornel e pù t’ha me let ad dèntra. Sogna, Giarganén, sogna, neca se t’zugarè e palon o t’curerè in biciclèta, met in te tu cor ‘e sport. Un gnè difarénza cun la  puisì o i rumènz, bsogna capil e tè, t’è sta dòta. E bà ad Clark e vleva che Jim e fases e cuntadèn, ma lò l’ha fat la puisì sora una màchina e u la ià fata come inciùn. Ades va a zughè cun i quarcin che mè a lavor cuntént!”(Giarganen, te lo dico in dialetto, anche se mamma non vuole, ma tu mi piaci. Non sei un ruffiano e sei come tua sorella, scrivi proprio bene. Hai fatto un tema su Jim Clark che assomiglia all’articolo del giornale e mi hai saputo leggere dentro. Sogna, Giarganen, sogna, anche se giocherai a pallone o correrai in bicicletta, metti nel tuo cuore lo sport. Non c’è differenza con la poesia o i romanzi, bisogna capirlo e tu hai questa dote. Il padre di Clark voleva che Jim facesse il contadino, ma lui ha fatto poesia su un’automobile e l’ha fatta come nessuno. Adesso vai a giocare coi coperchini che io lavoro contento!). 
Babbo parlava poco, ma si faceva capire in tanti modi. Le sue parole erano pesanti. Quello fu uno dei discorsi più lunghi che mi rivolse. Avrei tanto voluto che fosse con me quando, proprio il suo amato automobilismo, mi creò, grazie a Gilles Villeneuve, un personale ed immanente monumento.

La propedeuticità del mito di Jim Clark.
…….Una leggenda che si costruì in soli otto anni, nell’automobilismo del tempo, dove le doti del pilota divenivano tentacolari e lo spettro della morte gravava ancor più minaccioso. Le piste, avevano fondi più sconnessi e non c’erano spazi di fuga, ma soventi alberi o recinzioni sui generis; le scocche dei bolidi erano tenere, ed i pneumatici sembravano “ruotini”, rispetto agli odierni. I piloti, nessuno escluso, per guadagnare a sufficienza, erano costretti ad aggiungere alla Formula Uno, altri tipi di gare a ruote scoperte e coperte. Anche allora l’ambiente nascondeva operatori e protagonisti cinici, profittatori, acrobati sul filo del rasoio, ma c’erano spazi per la passione vera del correre e gli spettri del circo di oggi, erano ben lontani dall’esser vissuti compiutamente. Fra i drivers c’era più amicizia, si arrivava lassù per bravura e non per sponsor, c’era stima, ed il protagonismo si consumava artigianalmente, anche lontano dalla gara, con una competizione che si levava già nella messa a punto della monoposto dove loro, i coraggiosi e virtuosi piloti, giocavano un ruolo enorme. L’elettronica e la computerizzazione erano lontane, la telemetria erano le orecchie, gli occhi e le sensazioni di quegli uomini alla guida. L’empirismo dominava e l’automobilismo, pur su un orizzonte pericoloso, era completamente uno sport. Jim Clark fu il sigillo di quell’epoca, un uomo straordinario e semplice, cordiale e sorridente, riconoscente e gentile, simpatico e disponibile, un figlio vero della terra e dei suoi valori. Già, perché prima di diventare il leggendario “scozzese volante”, era destinato a dirigere la fattoria di famiglia nel Berwickshire, sotto Edimburgo, in Scozia. Quella, perlomeno, era la speranza del padre, agricoltore convinto per linea generazionale, che vedeva in Jim, unico maschio dopo quattro femmine, il continuatore della propria attività. Contro la volontà della famiglia, il giovane uomo di casa, incominciò a gareggiare nello sport meno vicino e pericoloso per chi, dalla fattoria, solitamente cresce nel segno del pragmatismo e dell’amore verso le certezze. A venti anni, nel 1956, Clark incontrò il mondo delle corse, dapprima con la sua Sunbeam Mk3 e poi con la DkW Sonderklass, prestatagli da un amico. L’anno seguente Ian Scott-Watson, viste le predisposizioni notevoli del giovane, gli mise a disposizione una Porsche 1.6S, ed arrivarono i primi piazzamenti, nonché un bel terzetto di vittorie. Jim, cominciò così a conquistarsi le ammirazioni, fra queste anche la stima di Jock McBain, direttore della scuderia Border Reivers, il quale gli offrì una Jaguar K. Con questa vettura Clark disputò, nel 1958, 20 gare, vincendone 12. Durante quell’anno, Colin Chapman, terribile e geniale proprietario, ingegnere, costruttore universale della Lotus, rimase molto impressionato dal giovane scozzese. 
Capì che era il più promettente fra gli ancor sconosciuti, era dunque l’ideale per scommetterci sopra, anche perché, la Formula Uno di quei tempi, stava cercando disperatamente dei geni della guida, in grado di aiutare l’evoluzione di una monoposto. In particolare, la Lotus, che non aveva ancora vinto niente d’importante e, stare dietro, per uno come lui, era inconcepibile e odioso. Il cinico costruttore, sotto i già onnipresenti baffetti, trovò le parole giuste per convincere Clark a provare, a Brands Hatch, una sua Formula 2. Il tentativo in realtà fu facile, perché il giovane scozzese era anch’esso alla ricerca di prove del suo valore, osteggiato com’era, ogni giorno, dall’intera famiglia. Il suo test d’esordio su una vettura con le ruote scoperte, fu subito importante: girò con tempi di poco superiori a quelli registrati dal ben più esperto Graham Hill. Ma proprio costui, poco dopo, in un'altra prova, con la medesima Lotus, uscì di pista a causa dell’inspiegabile perdita di una ruota. Non si ferì, ma Clark, che aveva visto l’incidente, ne rimase così turbato da dichiarare che non avrebbe più guidato monoposto di quel tipo. 
Il giovane scozzese però, aveva le corse nel sangue e non poteva tener fede a quel giuramento. Quattordici mesi dopo, tornò sulla propria decisione e disputò (pur senza riuscire a portarla a termine) una gara di vetture Formula Junior, a Brands Hatch, con una Gemini. Era il 26 Dicembre 1959. 

Reg Pernell, tuttofare dell'Aston Martin, aveva notato, come Chapman, il talento di Jim e si decise a fare il gran passo, per convincere il giovane ad esordire in Formula 1. Andò nel Berwickshire, alla fattoria dei Clark, affinché il giovane ventitreenne di Kilmany, potesse guidare per lui una monoposto. Si trattava di una svolta che avrebbe coinvolto l’intera famiglia. Jim, sarebbe dovuto diventare un professionista, quindi verso l’azienda di famiglia, avrebbe dedicato poco tempo. Il padre, capì immediatamente la situazione e, con pragmatismo contadino, non tardò molto chiedere a Pernell se il figlio poteva vincere. La risposta del manager fu secca: “Non solo vincere, ma diventerà campione del mondo!” Clark senior, pur tutto d’un pezzo sulle sue convinzioni, si rese conto che non poteva osteggiare ulteriormente il talento del figlio e gli diede campo libero, a patto che si ricordasse sempre di quella terra che gli aveva dato il pane fino a quel giorno. I primi avvenimenti della stagione 1960 però, modificarono le intenzioni di Reg Parnell: l’allestimento dell’Aston Martin F1 tardava oltre ogni logica previsione, al punto di spingere il manager a lasciare libero Jim di gareggiare con la Lotus in Formula 2 e Junior. Il giovane, a testimonianza del suo eccelso valore, partecipò a 5 gare Junior e ne vinse 4! Alla vigilia del GP d’Olanda di F1 l’Aston Martin non era ancora pronta e Parnell, giocoforza, fu costretto a cedere Clark, alla scuderia dell’incalzante Colin Chapman. Fu l’inizio della leggenda dello “scozzese volante”. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#4
Qualche giorno fa il grande Luca Saugo mi informava…….della lettura “paro paro” del mio ritratto su Domenico Caratozzolo, ciclista siculo degli anni venti, senza menzionare la fonte, da parte di un noto personaggio gravitante attorno alla Gazzetta dello Sport e la RAI. Mi son detto: non è la prima volta che ciò avviene e non sarà nemmeno l’ultima, ed è dunque un bene mettere anche questa sulla strada del callo. Quindi amarezza leggerissima.
Ma non è sempre stato così. Soprattutto quando “certe uscite mediatiche” azzeravano o stravolgevano quanto ho contribuito a fare in carriera e diventavano davvero amare se a monte oltre al mio si sottostimava o si bypassava il lavoro di chi collaborava con me.
Due i casi che voglio riportare, entrambi gravitanti su due “mitiche” montagne: il Bondone e lo Zoncolan.
 
Tutti (o tanti?) sanno dell’epica impresa di Charly Gaul sul Monte Bondone al Giro d’Italia 1956, in quella giornata nevosa che legò indissolubilmente il lussemburghese a quel colle del Trentino.
Bene. Qualche mese prima che Charly se ne andasse verso una dimensione che ci sfugge, ritornò su quella montagna che l’aveva eletto leggenda. L’occasione nacque proprio dalla volontà degli amministratori locali, di abbinare a quei luoghi il suo nome. In sostanza nacque lì la “Granfondo Charly Gaul” e si salutò l’evento come da prammatica con una significativa investitura, ma si giunse a considerarlo e spenderlo come una prima che, in realtà, non era tale.
Nel 1999 infatti, quando già fra il sottoscritto e Gaul, s’era stretta una bella amicizia, approfittai del mio ruolo all’interno del Giro del Trentino Alto Adige-Sudtirol femminile, per concretizzare il sogno di riportare Charly sul Bondone. Convinsi Audenzio Tiengo, il patron della manifestazione, a fare di quella montagna un traguardo di tappa, anche se non direttamente sulla cima per motivi tecnici e mi impegnai a garantire la partecipazione dell’Angelo della Montagna. L’amico Gino Garoia, come sempre, mi aiutò non poco, confermandosi il miglior appoggio logistico possibile per la famiglia Gaul, ed il progetto andò in porto.
La sera precedente la tappa, organizzammo a Trento una conferenza, dove, grazie alla favella dei giorni migliori, trovai modo di divertirmi e di provare non poca emozione, nel vedere Charly sereno e felice di riabbracciare i vecchi gregari di quella zona, Giuseppe Pintarelli e Aldo Moser.
A proposito del maggiore dei Moser, Gaul, non ha mai perso occasione di dirmi che fra i suoi compagni di squadra nessuno era forte come Aldo. Sembrava un disco inceppato su un punto. “Lui era un campione – mi diceva – non ho mai capito come abbia fatto a non raccogliere i successi che meritava. Un mistero davvero!”
Alla serata non mancarono il grande Francesco, ed una serie di “vecchietti” anonimi che si arrogavano l’un l’altro il merito di aver prestato il primo soccorso a Charly, dopo il suo solitarissimo arrivo nella tregenda del Bondone ’56. Anche la Rai, non mancò di portare le sue telecamere ed un giornalista, Lorenzo Roata che, mi parve quella sera, più coinvolto emotivamente del solito.
Il giorno dopo, sul monte della sua leggenda, Charly, poté abbracciare l’arrivo solitario della sua figlia di teismo, Fabiana Luperini. Anche quel 21maggio ’99, non fu clemente, non tanto per gli scrosci di pioggia che si dipanarono intermittenti, ma per la temperatura decisamente invernale.
“E’ sempre il Bondone che conosco, con tanto freddo, manca solo la neve” – mi disse Gaul poco prima dello scatto di una bella foto che ci ritrae assieme a Francesco Moser, Giuseppe Pintarelli e Audenzio Tiengo. E come non dargli ragione, anche se era la prima volta che mettevo piede su quei luoghi. Feci presto a scoprirlo: nell’esaltazione della soddisfazione di vedere Charly lassù, dimenticai l’abbigliamento pesante, torturandomi con camicia e maglioncino leggero. A poco servirono i parziali incontri coi giacconi sportivi prestati da qualche impietosito e, la sera, feci l’amore con la toilette. Ma fu ugualmente una giornata indimenticabile. 


L'arrivo sul Monte Zoncolan nel Giro d'Italia 2003, non è stato il primo..... 

Quando al Giro d’Italia 2003 fu proposto il Monte Zoncolan, giornali, Tv e osservatorio, salutarono l’avvenimento come una “prima assoluta”, ma in realtà si trattava di una “seconda”… Certo, perché il povero pedale femminile, aveva preceduto tutti, con sei anni di anticipo. 
Nel 1997, il sottoscritto era team manager della “Sanson Mimosa” ed aveva un incarico dirigenziale di uguale intensità all’interno della Sanson U.C. Vittorio Veneto: la società che oltre ad avere una forte formazione di elite, organizzava anche il Giro d’Italia femminile. Allora, il regolamento, consentiva lo sdoppiamento delle squadre: l’UCI non aveva ancora allargato il professionismo alla massima categoria femminile e noi, come altri del resto, ci adeguammo a quella che solo all’apparenza poteva apparire come una “furbata”. In realtà, si consentiva ad un numero maggiore di atlete, di svolgere attività nazionale ed internazionale di alto livello, ed i risultati per il ciclismo italiano in gonnella di quegli anni, si facevano sentire, non solo attraverso le piccole gambe alate di Fabiana Luperini. 
Proprio allo scopo di seguire da vicino e di lavorare con una tangibilità maggiore all’organizzazione del Giro, mi trasferii a Vittorio Veneto, dove assieme a Leontino Buzziol, il direttore d’organizzazione della corsa e a due splendide ragazze, Daniela (responsabile della segreteria) e Lucia (addetta alla logistica), in poco più di sette mesi, forgiammo una creatura, che resterà perennemente nei ricordi più belli delle nostre vite. Tralascio il racconto di tutto ciò che gravitò attorno a quel Giro, che fu davvero tanto, al punto di constatare quanto fummo poi copiati negli anni a venire, non solo in Italia; cito solo che nessuna manifestazione femminile è mai più riuscita a svolgere senza trasferimenti di peso un arco territoriale così ampio (partimmo da Pescasseroli, al centro del Parco Nazionale dell’Abruzzo, ed arrivammo in Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, attraverso tappe con arrivi anche su importanti città come Macerata, Forlì, Verona Udine) e fummo i primi a presentare sul suolo italiano una corsa capace di spingere le donne sulle salite del mito del ciclismo, pure superiori ai 2000 metri. 
All’indomani della presentazione delle formazioni che mi era costata un impegno tra i più gravosi della carriera, Leontino mi chiese un parere circa le salite alpine contenute nei territori dei comuni e delle province che si erano dichiarate disponibili ad ospitare il Giro. I nostri compiti erano distinti nell’organizzazione, ma la nostra capacità di lavorare assieme, sovente ci portava a sovrapporci per necessità, in fondo con le due ragazze eravamo in quattro, ma in mano avevamo una manifestazione enorme da porre in essere e due squadre da gestire, di cui una era di gran lunga la prima del mondo. Bene, proprio in quel periodo, costruimmo i presupposti per portare il Giro sul Rolle e sul Valles, fino a scoprire che era possibile l’arrivo sul Monte Zoncolon. Andammo a visitare quella salita assieme a quegli amici friulani che si mostrarono davvero bravi, e ne ricavammo una grande impressione, anche se giungemmo all’immediata conclusione, di non portare l’ancora eterogeneo ciclismo femminile fin sulla cima di un’ascesa che, nel finale, possedeva pendenze terribili. Arrivammo così a formulare una tappa che prevedeva la partenza da Forgaria nel Friuli, ed un trasferimento turistico fino al chilometro zero, previsto a Trasaghis, in prossimità del Cippo Ottavio Bottecchia. Qui, la maglia rosa, assieme al Sindaco del luogo, per ricordare il Settantesimo della morte del grande corridore, avrebbero posto sul monumento un mazzo di fiori. Da Trasaghis, la tappa sarebbe poi proseguita verso il Monte Zoncolan, che la carovana avrebbe affrontato da est, quindi da Sutrio, lo stesso itinerario che poi è stato scelto dal Giro d’Italia maschile nel 2003. L’arrivo era posto in prossimità del Rifugio Enzo Moro, proprio ai piedi del terribile strappo che porta alla cima del monte. 
Rivedendo, ormai 17 anni fa, in TV, quei familiari paesaggi, mentre mi scioglievo fra le lacrime dettate dalla visione di Marco, in quella  che è stata la sua impresa più significativa circa le sue rarissime stimmate di campione immortale, trovai modo di constatare, con grande amarezza, come di quello che fummo capaci di proporre sei anni prima, non vi fosse traccia nella telecronaca.

Uno spezzone su quella tappa che scrissi nel 2002 per un libro..... 

.......All’indomani del tappone dolomitico la carovana si spostò in Carnia, per 1’unico vero arrivo in salita di tutto il Giro. Da Forgaria nel Friuli le "girine" sarebbero salite, dopo 79 chilometri, ai 1330 metri dell’arrivo di Monte Zoncolan. Questa ascesa, coi suoi novemila metri di lunghezza mai percorsi da una grande manifestazione a tappe, riservava curiosità superiori ai valori testimoniati dall’altimetria. Anche stavolta, la sveglia di alcune atlete, in particolare quelle dell’Edilsavino di Imelda Chiappa, presentò il trauma dell’improvvisa levataccia per un altro controllo a sorpresa del sangue, da parte degli operatori dell’antidoping. La tappa, la decima di un Giro già deciso dalle imprese di Fabiana, vide subito il tentativo di Luisiana Pegoraro di anticipare l’ascesa finale, al fine di accumulare un vantaggio in grado di consentirle di reggere con successo la temutissima salita fino alla fettuccia. Il piano della vicentina stava davvero mettendosi al meglio, anche perchè sapeva di poter contare sull’appoggio di tutte e due le squadre “Sanson”. All’inizio di Monte Zoncolan, mentre la fuggitiva aveva in cascina quasi due minuti di vantaggio, la Heeb vedendo la Chiappa in difficoltà forzò l’andatura. Nell’intenzione dell’iridata vi erano due obiettivi: vincere la frazione e guadagnare posti in classifica, magari una posizione sul podio. Le sue accelerazione vennero respinte con facilità dalla Luperini, la quale fece di tutto per difendere l’amica in fuga, ma la scatenata svizzera si riportò sulla Pegoraro. Di lì a poco al comando rimasero in due: la maglia iridata e la rosa. La Heeb cercò di convincere Fabiana a lasciarle vincere la tappa, ma la leader della classifica aveva un vecchio conto in sospeso con lei e non accettò. D’altronde le sarebbe stato davvero difficile accettare: , in cima c’erano tutti i suoi tifosi e poi era stata proprio l’elvetica a sciogliere il tentativo dell’amica Luisiana. Così, a due chilometri dal termine, proprio poche centinaia di metri prima che la salita spianasse in una specie di falsopiano, Fabiana se ne andò. Anche Monte Zoncolan, dall’alto di un paesaggio bellissimo e immerso nel verde, conobbe la danza della “donna sola al comando”. Arrivò “Fabi”, arrivò, alzò le solite braccia fra un tripudio d’applausi, ma la scappava quella pipì che, all’antidoping, nei giorni precedenti, l’aveva fatta dannare, così, senza soluzione di continuità, proseguì lungo la durissima salita che portava all’edificio del controllo medico. Su quella rampa, diede al pubblico uno spettacolo ulteriore e la quasi totalità dei presenti, rivolse lo sguardo su quel puntino rosa che scalava quel muro con facilità disarmante. Stavano arrivando le altre migliori, ma lo spettacolo era tutto lassù, su quel camoscio vestito di rosa.... 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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