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Vladimir Yashchenko: indimenticabile Pegaso.
#1
La storia che segue, scritta oltre tre lustri fa, non è una monografia su un leggendario dello sport, pur contenendo tutto quello che solitamente si considera adatto ad un lavoro di tal tipo, ma un ricordo personale intriso di quei richiami dipinti sullo sfondo dell’epopea giovanile di entrambi, del campione e di chi scrive.....
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VLADIMIR (Volodia) YASHCHENKO: “Pegaso” indimenticabile e sorridente.
 
A volte i ricordi ti arrivano fulgidi ed inaspettati. Nascono da circostanze fortuite e forse per questo ti sembrano ancor più suggestivi. Ieri sera ero in aeroporto con un mio allenatore ucraino dal buon passato agonistico, un uomo di trentanove anni che parla benissimo l’italiano, ma, contrariamente ai suoi connazionali, ama la sua terra oggi poverissima e solo potente d’armi, quando un tempo fungeva da granaio dell’Unione Sovietica. Si chiama Vladimir (Volodia per tutti). Si parlava del più e del meno, del ritiro con le atlete nella bella e calda Crimea e del viaggio lungo e snervante per raggiungere l’aeroporto di Kiev. Ad un tratto, davanti a noi, un giovane dall’apparente età di 18 anni, ha saltato con irrisoria facilità una balaustra altra almeno un metro e venti e lo ha fatto con uno stile molto simile a quel ventrale che tanto è stato nella storia del salto in alto. Avendo Vladimir davanti a me, l’associazione dei due momenti m’ha fatto scattare il ricordo incancellabile di uno dei più grandi atleti che i miei occhi abbian potuto vedere: Vladimir (Volodia) Yashchenko. Un nome che dirà poco o nulla ai più, ma vi assicuro che le persone che l’hanno visto non lo scorderanno mai e lo prenderanno sempre come esempio di inarrivabile. Come un Pegaso piovuto sull’era moderna, con sembianze umane, pronto a dire che anche l’uomo può volare. Scrivo col groppo in gola, è l’emotività sentita che si deve a chi ha saputo donarti con sublime grandezza delle forti emozioni, a chi s’è posto sull’orizzonte della tua intensa gioventù, come figura leggendaria, perché era unico in ogni particolare della sua arte. Volodia Yatschenko era tutto questo. Era, perché non c’è più. Breve in vita come in carriera, a maledire quel destino che fa spesso l’amore con la crudeltà. Genio precoce e triste, disincantato dai soldi, dal successo, che strizzava l’occhio alle ragazze impazzite nel vederlo e amava quella gente che dallo stadio si sentiva essa stessa idolatrata ed inebriata nel saltare con lui verso il cielo.
Volodia, oggi che ci guardi dal disteso dell’immenso e che percepisci quello che non potremmo, prendi queste umili parole che ti devo, come il ringraziamento per essere passato di qua, fra noi umani. Fai del ricordo della tua vita nel dopo carriera, il tratto storico che tanto ha colpito chi, come te, è nato in un impero strano dove l’eguaglianza nella povertà non era sempre vera e dove non potevi dire, obbligato com’eri a vivere nella noia quotidiana. In quei giorni, dove alcol e sesso erano una fuga alle sfortune di una carriera mozzata da quel destino che t’aveva eletto esempio e stereotipo. Nel tuo ricordo c’è il segmento di un’epopea, di un tratto storico che va letto anche attraverso quello che politica non pare.
Volodia, tu eri figlio dell’URSS, eri esempio senza sapere di quello Stato che ti usava come rampollo di successo e per lui, ancora ignaro, saltavi e trascinavi. Ti prelevaron fanciullo da Zaporozhye, dove eri nato il 12 gennaio 1959, avevan visto che eri alato, che eri già Pegaso. Tu crescevi distaccato da quella che già ti volevan far passare come professione, un distacco dettato dal talento e dalla voglia di vivere e comunicare. Non potevi uscire dalla “Gabbia”, ma quelle ali che tenevi nascoste nel tuo umano corpo ti salvarono una prima volta. Per te non fecero sfoggio di conoscenza chimica, anche perché se ti alzavi dopo gli altri, correvi meno degli altri, mangiavi più degli altri, ti impegnavi in tutto meno degli altri, quando saltavi, li seppellivi. Eri alato Volodia, alato per diritto naturale se non divino. Crescevi bel ragazzo con la faccia da eterno bambino e “lor” ti accontentarono, lasciando i tuoi capelli biondoscuri al destino della crescita. Quando ti fecero uscire dalla “Gabbia”, per portarti alfiere a quel mondo che odiavano, tu ci apparisti uno di noi. Eri bambino-ragazzone, quando la storia del salto in alto s’inchinò e scrisse, sul suo dorato libro, il tuo arrivo. Eri tanto minorenne quando già guardavi gli altri dall’alto in basso nella tua “Gabbia-Stato” e nell’intero mondo, probabilmente. Arrivasti e ci annichilisti: eri sorridente, pieno di vita e parlavi alla gente col linguaggio dei tuoi salti e di quelle gesta che ti facevano oratore muto. Gli occhi del pubblico erano solo per te, mentre le ragazze sentivano crescere palpitazioni al cuore guardando il tuo fisico statuario, ed i tuoi occhi intensi. Folgoravi tutti, Volodia, eri l’alieno che ognuno di noi voleva incontrare. La gente ti sentiva e piangeva sapendo che eri solo un passaggio, perché quelli della “Gabbia-Stato” erano lì, ad osservarti, e mai t’avrebbero lasciato andare verso quell’affetto collettivo che generavi come un dio. Per loro eri un vanto, ma tu non potevi sapere. I tuoi baci alla folla, con la gestualità inconscia di uno che ha creato, alle lacrime aggiungevano il ringraziamento per i liberi e creavano imbarazzo nei tuoi aguzzini.
Arrivarono i Campionati Europei Juniores di Donezk, avevi solo 18 anni Volodia, ricordi? Tu non ti limitasti a vincere, recitasti! Eri troppo grande, troppo artista per non fare di quell’asticella una commedia, una scultura, una poesia, un quadro. Sbagliavi volutamente alcuni salti per donarti ancora, per parlare con noi che ti guardavamo senza parole e senza fiato, assuefatti da quelle braccia che d’improvviso trasformavi in ali. Il tuo salto era l’espressione di un’esplosione, come quando un uccello postosi sul terreno a cercar cibo, impaurito per l’arrivo d’un pericolo, spicca il volo con immanente convinzione. Tu però lo facevi con gioia, era il tuo contatto col mondo, la tua arte comunicativa, il tuo ringraziamento all’esistenza.
Vincesti quella gara a due metri e venti, ma continuasti a saltare fino ai due metri e trenta, ad intervalli di due centimetri la volta e, per “allungarti”, a fare qualche errore, ma li facevi per darti a noi. A 2,30 dicesti a tutti che eri soprannaturale saltando subito, con una fessura tale, fra asticella e corpo da vedersi il mare. Ti fermasti a quella misura, non proseguisti, gareggiavi da quasi quattro ore. Con quel titolo ti presentasti al mondo, ma troppi non ti conoscevano ancora.
La “Gabbia-Stato”, Volodia, ti portò in Virginia qualche settimana dopo per un incontro fra rappresentative juniores Usa e Urss. Ti dissero di stupire più di quello che avevi fino a quel momento fatto e tu, ignaro del significato che loro volevan dare, rispondesti pensando solo alla tua volontà di volare. Fosti leggendario e, alla solita gara, aggiungesti un segno di divinità mai vista nella storia dello sport degli sport: l’atletica leggera. Arrivasti diciottenne a cancellare il record del mondo assoluto, appartenente all’ancor giovane fenomeno Dwight Stones. Saltasti 2.33! Anche i pagani conformisti ti avevano conosciuto, costretti a scrivere di quel gesto incredibile, arrivato addirittura alla prima prova. Volodia, di colpo avevi conquistato il mondo! Dall’occidente partirono giornalisti su giornalisti che avevan letto sulle agenzie e visto su tutti i telegiornali la tua grandezza. Partirono per venire a trovarti, per scovarti, per toccarti e scoprirti. Anche per le loro spesso fredde penne eri un alieno e la “Gabbia-Stato” gongolava. Qualcuno ti vedeva acrobata da circo, per altri eri astronauta senza navicella, altri ancora ti consideravano il fenomeno dei loro orridi tentativi di scoop. Tu li guardavi e sorridevi, parlavi semplice ed ignaro, tutto ti era naturale. Non vivevi la vita dei compagni, perché i tuoi allenamenti erano una carezza rispetto ai loro, e passavi ore a guardare il vuoto corso delle meccaniche azioni che ti attorniavano, ad osservare quell’orizzonte sul quale si celavano le tue origini, lontane ed impercettibili agli umani.
La tua fama, aveva superato i confini di quelli che parevano i limiti dell’atletica leggera. In Italia attendevamo la riprova ai Campionati Europei Indoor che si svolgevano al Palazzetto dello Sport di Milano. I giornali ti davano presente e qualcuno, all’uopo, ti venne pure ad intervistare. Erano tempi belli per la tua specialità in Italia. Noi avevamo una grande, una donna da due metri ed un centimetro che le valevano il record mondiale: Sara Simeoni. Tu eri annunciato proprio il giorno dopo la vittoria prevedibile, poi confermata sulla pedana, della filiforme veronese. Non ebbi nessuna incertezza e decisi di venire a Milano, sapendo di dover litigare con una donna con la quale vivevo da un anno. Era la ragazza sbagliata Volodia, una di quelle che aveva capito quanto lo splendido incrocio sessuale con lei, avesse modificato le linee comportamentali del mio essere ribelle, per condurmi al suo conformismo denso degli stupidi cordini della moda e delle sfilate. Mi ero ridotto a figurino imbecille, comprato dai suoi gioielli indiscreti. Vagavo fra il lavoro, l’università e il suo letto, alla ricerca d’una vitalità perduta, soffocata sull’altare della mia forzata volontà di fermarmi ad una vita normale, dopo anni di tanti letti occasionali, vissuti per dimenticare un amore corrisposto, resosi impossibile per la lontananza d’un oceano. Per riprendere il cammino del mio io, avevo bisogno di uno stimolo, o di quella che io già chiamavo arte sportiva. Fosti tu, Volodia, a darmi la spinta. Per vedere i tuoi salti verso il cielo, litigai con quella ragazza per la prima volta in maniera salutare, creandole l’imbarazzo del diniego e venni a Milano. Fosti immenso, al punto che il Palazzetto gremito, era tutto per te. Migliaia e migliaia di persone coi cuori palpitanti che t’applaudivano, lacrimavano, strillavano e tu che ci giocavi, spronando tutto il tuo magnetismo dietro sorrisi, saluti, baci e continue riproduzioni di salti che avevano qualcosa di unico. Per dimostrare che ci volevi dare uno spettacolo indimenticabile, facesti una serie di errori da perderci il conto. Sbagliasti persino a 2,10 e quante misure alla terza prova! Lo facevi per presentarti in continuazione. Allungasti a dismisura la gara. Per la prima volta, che io ricordi, la TV italiana cambiò al volo il proprio palinsesto per seguire una manifestazione d’atletica, o meglio, per seguire te. Ad ogni errore, recitavi la disperazione sotto forma di un sorriso che appariva amaro e conquistavi. Ti ripresentavi e, magari, sbagliavi di nuovo per andare alla terza e lasciare tutti col fiato sospeso. Accanto a me c’era una ragazza bellissima, una che avevi conquistato nella totalità: piangeva, strillava come ai tempi dei Beatles, ed ogni volta che saltavi si teneva la mano destra sul cuore. Ma era l’intero scenario del Palazzotto a fare impressione e ad esprimere vibrazioni che definirle magiche, non sarebbe di certo un eufemismo. Eri tutti noi, Volodia. La gente capiva che eri uno impossibile da paragonare. Dopo oltre quattro ore di gara, coi tuoi grandi avversari alle corde e tu con una montagna d’errori più di loro, fosti chiamato a dare il colpo decisivo. Ma tu gareggiavi per te stesso e per la gente, gli altri della pedana non esistevano. Sapevi quello che volevi già a 19 anni. I tuoi avversari non potevano di certo rubarti nulla, eri inimitabile e tu li salutavi cordialmente, ma in cuor tuo ti chiedevi cosa ci facevano lì. A 2,33, quota del tuo primato all’aperto, già solo, sbagliasti due volte, ma alla terza, quella vera, fosti perfetto ed eguagliasti il mondiale. Poteva uno dal cuore grande come te, lasciare quella folla così? No, e dovevi dargli qualcosa di leggendario! Facesti mettere l’asticella a 2,35, guardasti proprio nella direzione dove eravamo noi e quella ragazza totalmente inebriata ti urlò: “Ti amo!”. Tu la guardasti, mi ricordo bene e salutasti stringendo il pugno. Poi ti voltasti verso la pedana per concentrarti. Lei scoppiò in lacrime sorde e mi si appoggiò alla spalla dicendomi: “Che dici, li salta?” Io le risposi convinto: “Tranquilla, quello non è un terrestre e sa cosa vuole!”. La ragazza mi prese la mano e me la strinse forte. Cercava un contatto umano, per sentirsi più protetta nella tensione dell’attesa. Non eravamo i soli, Volodia, tanti altri si tenevano per mano, uomini con donne, uomini con uomini e donne con donne. Ci avevi conquistati tutti, in un’oceanica emozione. Una vibrazione collettiva che si concentrò sui tuoi muscoli: il più bel salto della storia stava per compiersi. La solita rincorsa breve e l’esplosione del tuo volo, col petto, il volto e le gambe che guardavano l’asticella dall’alto. Il tempo di una frustata e l’impresa si collocò nella leggenda. Avevi saltato 2,35 al primo colpo con un salto, rincorsa compresa, non più lungo di quattro secondi! Un capolavoro che terrò sempre con me, Volodia. Il Palazzetto tuonò, ti seppellì di applausi e urla, fu una “stanting ovation” che perdurò per tutto il tempo della tua presenza nell’impianto e giunse ad un ulteriore culmine quando fosti premiato.
Ci avevi donato una giornata indimenticabile e, lasciamelo dire, storica.
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La “Gabbia-Stato”, ti tenne nascosto il più possibile perché non voleva che nessuno ti copiasse, come se la chimica potesse modellarti un clone. Ma loro sapevano, Volodia, cosa ci stava dentro quelle flebo che davano ai tuoi compagni. A te ancora no, perché eri troppo soprannaturale. Saltasti a Tblisi, in Georgia, migliorando di un centimetro il tuo primato del mondo all’aperto. Ancora una volta dall’Unione Sovietica veniva il richiamo della tua gestualità spirituale, condensata su una rincorsa e su un salto ove guardavi il mondo dall’alto. Non volgevi la schiena, come il “Fosbury floop” obbliga. Tu saltavi col tuo originale ventrale guardando in faccia l’asticella, quella tua nemica che ti amava eleggendoti a suo compagno dalle stimmate divine.
Arrivarono i Campionati Europei assoluti e tutti corremmo per te, perché nessuno dei grandi atleti della disciplina regina, valeva il tuo talento, la tua regalità. A Praga, ti limitasti a dimostrare che anche i più anziani non potevano fare altro che mettersi ai tuoi piedi. Anche lì il solito monologo con quel pubblico che ti adorava al punto di guardare il tuo riscaldamento come una finale olimpica. Quella vittoria ti consacrò pure nell’olimpo di quegli uomini freddi e senza idee che non guardano ai primati, ma alle sole vittorie. Ricordo la faccia d’un giudice che ti guardò con l’espressione di una persona assente, stupita ed ammirata nel vedere la tua figura sì vicina, dare sfoggio della sua immensità. I suoi occhi, dissero al mondo che tu non eri di questa terra. E chi l’avrebbe mai detto, Volodia, che negli occhi di quel giudice fosse finita l’istantanea della tua divinità. Non saltasti più per noi, per quel mondo che t’aveva eletto Pegaso moderno, amandoti come figlio virtuoso e meritevole. Il tuo sorriso, i tuoi occhi d’intenso blu, il tuo volto di eterno bambino ci avevano lasciato nell’imbarazzo di un’attesa che, ben presto, si sciolse nello sconforto: tu vivevi, ma non c’eri, qualcuno t’aveva tolto la divinità con un coltello, forse. Si parlava di te con una brutta ferita ad un ginocchio, altri annunciavano un tuo prossimo rientro, altri ancora parlavano di un incidente forse per ricordare Valery Brumel, il tuo grande predecessore siberiano. Arrivavano solo voci, la “Gabbia-Stato” tesseva la sua tela, iniziando ad iniettarti quella lor facile chimica, ma l’incidente, l’attentato, l’imboscata per rendere onore a chi aveva subito il tuo rifiuto, o qualcos’altro di grave, celato come un affare di capitale ragione, c’era stato. Qualcuno disse che gareggiavi all’interno della “Gabbia Stato”, ma che non eri più tu e dicevano che portavi ad un ginocchio una fascia rossa. Leggenda anche questa per fare onore al tuo mito, già arrivato nel breve volgere di un biennio. Gli echi dell’atleta c’erano ancora, quando un’agenzia, forse pilotata, ti dava al rientro. Una bufala orchestrata ad arte, visto che si parlò dopo e subito della tua ferita al ginocchio. Il tuo, Volodia, era il paese della “Gabbia-Stato”, dove s’inventavano dei raffreddori per celare morti e dove si dava morte naturale a gente viva, ma imprigionata come i morti. Qualcosa di grave, molto grave ti capitò, tu solo sai, ed i tuoi segreti nessuno potrà leggere e conoscere. Qualcosa che cercaron di rabberciare con la chimica, distruggendoti, e dire che eri immacolato. Nel 1983 dissero che non potendoti più riprendere dall’infortunio al ginocchio, abbandonavi l’atletica leggera. Uno scarno comunicato che urlava come anche nello sport la perestrojka fosse necessità, ma Gorbaciov, un immenso, non c’era ancora.
Qualche anno dopo un rumeno portiere di calcio, Helmut Duckadam, uno che aveva vinto una Coppa Campioni, praticamente da solo, parando ben quattro rigori, annunciò che non riusciva a riprendersi da un infortunio e lasciava lo sport. S’era sull’onda della caduta del muro e sul suo caso la verità non venne mai a galla, imbrigliata com’era da tetre spiegazioni, arrivanti addirittura al figlio del dittatore Ceausescu. Voci e narrazioni che nemmeno Duckadam, qualche anno dopo a regime caduto, con le sue parole riuscì a cancellare. Cosa capitò nel 1979 a te, Volodia? Perché su di te, anche quando la “Gabbia-Stato” s’era sciolta, gli interrogati ed intervistati, han sempre voluto cambiare discorso? E di te, dal 1979 che ne è stato? In tutti questi anni, quante volte ho chiesto a tuoi anche illustri connazionali, tue notizie! E quante volte mi son chiesto se persino loro conoscessero, a grandi linee, qualcosa sui perché. Niente, il mistero t’avvolgeva come quando vedendoti saltare ci si chiedeva se fossimo in un mondo reale. Tu stavi morendo, Volodia. Ti toglievi la vita con le tue mani, bevendo come una spugna e guadagnandoti l’amore nelle bettole, o per strada fra le barbone. Il tuo fisico, un tempo statuario, aveva lasciato posto ad un colosso dalla pelle cadente che non rideva più e faceva a botte sotto l’effetto dell’alcol. Un giorno, finalmente, mi riuscì di capire qualcosa, grazie ad un atleta tuo connazionale molto in vista, la cui moglie ti conosceva. Mi disse che effettivamente volevi morire, lasciandoti andare all’ignoto senza darti il colpo di grazia e mi raccontò quanta tristezza lasciava il tuo passaggio, eri un barbone, Volodia!
Che ne era stato di quel ragazzo intelligente e virtuoso? Per trasformarti così, quale atto scatenante? Quale segreto nella tua sparizione e quale motivo provocava il tuo claudicante camminare? Era quella ferita? E chi la provocò? Domande, Volodia, tante domande a cui forse mai otterrò risposta. Poi un giorno, il 30 novembre 1999, mentre ero in Spagna a gongolarmi la soddisfazione di aver portato un’atleta ad uno storico successo, mi telefonò un amico da una redazione: “Morris, ti devo dare una brutta notizia che è stata battuta adesso da un’agenzia. E’ morto Vladimir Yashchenko, di cirrosi epatica. Lo ricordi vero? Ascolta ci scriveresti due righe?” Il groppo in gola non m’impedì di rispondergli malamente come meritava: “Vai a dire al tuo direttore che le due righe se le metta nel fondoschiena. E’ morto il più grande saltatore in alto della storia, un artista, uno che nessun giocatore del calcio d’oggi è in grado di leccargli le scarpe ed io dovrei liquidarlo in una battuta? Fammi il piacere, manda a cagare il direttore!” Si Volodia, quel giorno passai dalle stelle allo sconforto. Sapevo che prima o poi te ne saresti andato a miglior vita, forse. M’incavolai per l’ignoranza di quel birillo-direttore. Ti ripensai fortemente. Rividi i fotogrammi di quel grande 12 marzo 1978, quando a Milano ci lasciasti un indelebile messaggio di vita e di arte. Capii in quel momento che non eri morto, eri sempre tu, Vladimir Yashchenko, il Pegaso piovuto da noi, per dirci che eri figlio del cielo. Vedo il tuo sorriso che mi saluta ed asciugo le lacrime di gioia a quella ragazza accanto a me. Sei sempre il diciannovenne d’un tempo e con te mi specchio nella mia gioventù, rivivendo l’ebbrezza di quando i lunghi capelli mi frustavano la faccia per applaudirti. Eri, sei, rimarrai un mito. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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