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L'Italia che pedala è rimasta al verde
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L'Italia che pedala è rimasta al verde
Solo 5 squadre di professionisti e 150 corridori: è crisi.

Il ciclismo italiano pedala, ma sempre più con affanno. Domenica c’è il Giro delle Fiandre, la prima delle classiche del nord, e il tricolore si schiera al via con appena tre squadre, su 25, e una quindicina di corridori, su 200 partenti. Ben poca cosa per uno dei Paesi che ha scritto la storia del ciclismo mondiale. Ma le cifre che riflettono il nostro movimento professionistico sono impietose.

Negli ultimi anni si è drasticamente ridotto il numero delle squadre e dei corridori: ap­pena 5 i team e 150 i professionisti, una au­tentica decimazione, se si pensa che solo lo scorso anno le squadre erano addirittura 11 e gli atleti oltre 200. Una selezione impieto­sa che diventa ancora più preoccupante quando si va a vedere la situazione delle due squadre più grandi, quelle rimaste nel “Pro teams”, l’esclusivo club a 19 che forma la “Se­rie A” mondiale: una ha lo sponsor, quindi l’intero portafogli, statunitense; l’altra è fi­nanziata per metà da un’azienda di Taiwan in­tenzionata, pare, a rilevarne i diritti sportivi già dalla prossima stagione.

La situazione non è più allegra sul fronte del­le corse: alcune sono state cancellate, altre sono traballanti. A pagare dazio alla crisi c’è anche la Settimana tricolore (i campionati i­taliani uniti in un’unica rassegna), scomparsa dopo un decennio di onorata carriera. Da quest’anno ogni categoria torna a organiz­zarli per conto suo e nei posti più disparati. A farne le spese sarà la visibilità, soprattutto per le categorie minori, decimate anch’esse, di gare e gruppi sportivi. Fra i dilettanti si ar­riva addirittura al paradosso di non vedersi dare il permesso di gareggiare - in alcune province - perché le strade sono dissestate e si vuole evitare il rischio di denunce in caso di cadute. Ed è a rischio cancellazione anche il Giro d’Italia “baby”, quello degli under 26. La crisi si sente anche sul versante dei risul­tati. Negli ultimi anni i corridori italiani han­no vinto solo la Vuelta (Nibali 2011) e la Am­stel Gold Race (Gasparotto 2012): la vittoria nelle classiche “monumento” manca dal de­cennio precedente. Ed è praticamente spa­rito un settore come la pista, uno dei fiori al­l’occhiello della scuola italiana: anche qui ci si tiene aggrappati ai risultati sporadici di un paio di atleti. Una decadenza resa ancora più disarmante dalla mancata partecipazione della Nazionale azzurra agli ultimi Mondia­li juniores. Ed è semplicistico ricondurre tut­ti i problemi alla crisi economica, la reces­sione ne ha solo evidenziato la gravità.

La globalizzazione sta rivoluzionando il mondo del ciclismo e quello italiano fatica a rendersene conto e a rimanere a ruota di altre nazioni, Paesi ciclisticamente più gio­vani che pedalano senza il peso di oltre un secolo di storia sedimentata sulle gambe e sul cervello. Dalle nostre parti non sono an­cora riusciti a trovare una strada per ade­guare il ciclismo al nuovo millennio senza mutarne l’essenza. E non si tratta di trovare un compromesso ma una strada nuova per coniugare tradizione e modernità. Un’ope­razione sicuramente difficile, ma inevitabi­le, nella quale si sta cimentando - senza grandi risultati - anche l’Uci, il governo mondiale della bici.

Una matassa apparentemente inestricabi­le. Anche se per l’Italia la situazione assume un aspetto paradossale: il nostro Paese è an­cora un punto di riferimento per tante na­zioni, al punto che molte squadre hanno sta­bilito la base operativa proprio nel Belpae­se dove, oltre al clima mite, possono sfrut­tare i tanti specialisti, tecnici, meccanici, massaggiatori e preparatori, che sono an­cora fra i migliori al mondo. In Italia c’è la ba­se logistica di molte squadre-nazione come la Astana (Kazakistan), la Katusha (Russia), la Colombia, la Orica (Australia) e la Nip­po (Giappone). E solo qualche anno fa il progetto inglese di sviluppo del ciclismo, quel modello che tutti vorrebbero imitare, aveva una base in Toscana dove i giovani imparavano il mestiere.

La situazione diventa ancora più parados­sale quando molti nostri dirigenti invitano a seguire l’esempio degli stranieri per cercare di risollevare il pedale azzurro.

La realtà è che per molti “manager” la crisi economica è diventata un alibi per la loro inettitudine.

Eppure il mondo della bici, quello italiano in testa, ha avuto il coraggio di affrontare il problema del doping e di limitarlo - dire che è stato debellato è ancora azzardato - , ma non è riuscito a capitalizzare il grande lavo­ro svolto. Soprattutto a livello di immagine. Il ciclismo non è riuscito a scrollarsi di dos­so l’etichetta di sport dopato. La piaga, oggi, colpisce prevalentemente i cicloamatori, i dopolavoristi dello sport.

Ma l’orizzonte non è oscuro, i motivi per es­sere ottimisti ci sono occorrono, però, ma­nager in grado di decifrarli e svilupparli. Il ciclismo, infatti, rimane una grande forza popolare, seconda solo al calcio, ma non rie­sce a tramutarla in “appeal” per gli sponsor. Sulle strade e davanti alla tv i numeri sono da capogiro rispetto agli altri sport, calcio e Formula 1 esclusi. Vedere per credere. I dati auditel più recenti sono quelli di metà mar­zo: su Rai 3 la Milano Sanremo ha tenuto da­vanti allo schermo ben 1.390.000 spettatori (7,49% di share), ma a godersi la corsa in tv c’erano sicuramente più persone tenendo conto che la diretta era iniziata molto prima su RaiSport2 e molti appassionati non ave­vano cambiato canale. Poco dopo la fine del­la corsa “90° minuto” ha registrato solo un milione di spettatori in più. Ma quello che spicca è il confronto con il tanto celebrato rugby del giorno prima: la differita in chiaro su La7 (la diretta era andata su Sky) ha regi­strato 549mila spettatori (2,71%), nonostan­te la storica vittoria sull’Irlanda nel Sei Na­zioni. E il confronto diventa addirittura im­pietoso se si prendono le cifre del basket: la partita più vista è stata quella fra Varese e Mi­lano in Coppa Italia, a febbraio: 136mila spet­tatori. Mentre il seguito del ciclismo resta al­to anche nelle dirette pomeridiane dei gior­ni lavorativi, come testimonia la 7ª tappa del­la Tirreno Adriatico, vista da 643mila spetta­tori. E senza tener conto delle migliaia di per­sone assiepate lungo le strade per assistere alla gara dal vivo.

Numeri importanti che possono raddop­piare appena si riaffaccerà sulla scena un cor­ridore capace di vincere le grandi corse, un uomo solo al comando nella gara più dura, quella verso la credibilità.

da «Avvenire» del 29 marzo 2013 a firma Giuliano Traini
 
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