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Lev Yashin "il Leggendario Ragno Nero"
#1
[Immagine: Yashin.jpg]
Quando si parla di Lev Jashin, ogni coinvolto, magari con qualche anno oltre la linea mediana della vita, o in possesso di una predisposizione particolare verso la conoscenza, viene percorso da quel brivido che si prova quando s’è di fronte ad un monumento, o una grande scultura. È difficile spiegarne il motivo scatenante, ma è certa l’esistenza di una fune conduttrice che rende diffusa per non dire oggettiva, la genesi di tale sensazione. Non appartengo alla generazione che ha vissuto pienamente l’epopea di questo grande portiere. Ho conosciuto con la consapevolezza solo gli ultimi scorci della sua carriera e del mito che l’accompagnava, ma a distanza di quasi mezzo secolo, mi sento ancora coinvolto dalla sua storia, da una leggenda che mi è giunta a segmenti, alcuni anche molto recenti, ovvero da quando la meraviglia del libero mondo del web, quella grande rivoluzione che tanto infastidisce certi poco positivi signori della Terra, mi ha dato modo di arricchire, con più immagini, le gesta di questa monumentale figura del calcio e dello sport.
Scoprii Jashin, ovviamente bambino, attraverso le parole entusiastiche di Egidio, per tutti Pino, un signore che nella primavera-estate del 1964, fu una fonte della mia volontà di sapere e conoscere, aldilà di quello che mi davano la scuola e quei giornali che, almeno una volta la settimana, ed a dispetto dell’età, leggevo. Mio fratello che era il destinatario principale della mia sete di notizie circa lo sport, era ancora nei militari e Pino, divenuto in quel periodo uno di casa, ne divenne per settimane il sostituto. Il tutto, a causa di un infortunio occorsogli sui campi, che lo obbligò a passare un lungo periodo di convalescenza, dove, non potendo sostenere gli sforzi che richiedeva il lavoro nell’azienda agricola della sua  famiglia, si rese ugualmente utile, vendendo frutta sulla via Emilia, proprio quella “grande strada”, come la definivo da piccino, sulla quale sono cresciuto ed ho sempre vissuto. Con tanto di ombrellone da spiaggia, ed un supporto sul quale poteva stendere i “plateau” di quelle primizie, Pino usò un angolo del piazzale antistante l’officina ed il distributore di carburante di mio padre, artigiano tuttofare, e fu appunto, oltre che commerciante occasionale, una fonte di acculturazione per il bambino sottoscritto. Il traffico di quei tempi non era certo quello di oggi, si poteva parlare senza dover urlare e la clientela occasionale, non è che fosse così fitta. Rimaneva quindi tanto tempo d’attesa. Pino, allora poco più che trentenne, impiegava quei segmenti per leggere il giornale, o a colloquiare con me. Avevo nove anni, ma ero impegnativo. Fra i tanti argomenti del suo raccontare e del mio domandare, Lev Jashin era divenuto il protagonista per un motivo semplicissimo: era l’idolo del mio narratore.
A quei tempi, nelle famiglie operaie, dei mezzadri, dei contadini e di molti piccoli artigiani, là dove il voto al PCI, rappresentava una speranza che si condensava nella fede, l’Unione Sovietica, comunemente chiamata Russia, era vissuta come un faro, un esempio che si trasferiva ad ogni campo dell’azione umana, sport ovviamente compreso. Qui si riscontrava sovente una forma di tifo vissuta come un carico di quasi dovere, ed i destinatari italiani, quando capitava il confronto, erano spesso soccombenti di fronte ai colleghi sovietici. Ebbi modo di capirlo undicenne, quando Aristide Guarneri, sontuoso stopper della grande Inter, la mia squadra del cuore già allora, segnò una rete, proprio a Jashin, in un’amichevole Italia-Urss del 1966. Guardai quella partita per caso, seguendo mio fratello al Circolo Arci della mia frazione, in una sala piena di fumo, che ricordo ancora benissimo. Esultai alla rete di Aristide, ma ciò evidentemente non piaceva ad un vecchio signore che sedeva dietro di me, il quale, infastidito per la mia gioia che faceva da alter ego alla sua delusione, mi diede un colpo di berretto, una “sbertuzzata” come diciamo in Romagna, accompagnando il gesto con un indimenticabile “Sta zét!” (“Sta zitto!”)…che diceva tutto. Mio fratello non c’era, essendo impegnato in una riunione, ed io mi guardai bene dal dirgli cosa mi era successo. Pino però, comunista come comunisti erano tutti i miei a casa, non era uno così. Tifava per il Bologna e, proprio in quella tarda primavera ’64, ebbe modo di vivere la grande soddisfazione di vedere i rossoblu vincere lo scudetto nello spareggio con la mia Inter, ed era uno che capiva di calcio. Soprattutto, sapeva cogliere gli aspetti più belli del repertorio dei singoli e del gioco di quelle squadre, allora gradevoli, checché se ne dica, perlomeno quanto le frenetiche di oggi. Uno, insomma, che era credibile, anche perché mostrava una obiettività di nota, ed a me, figlio di una madre che non perdeva mai occasioni di dirmi di ascoltare ed ammirare quelli che leggevano ed avevano scuola, Pino, appariva ancor più luminoso. Già, perché pur non avendo potuto frequentare la scuola come avrebbe voluto, per motivi tanto comuni a quei tempi, specie per chi viveva d’agricoltura, lui era uno che si distingueva, ed almeno ai miei occhi s’è sempre distinto, anche nei decenni successivi. 
E così, attraverso le sue parole, diedi gambe e significati ad alcune foto di Jashin, con sola didascalia, che avevo potuto vedere rovistando qua e là, fra i giornali di famiglia e potei impreziosire quella unica occasione di visione in TV, risalente a qualche mese prima, nel novembre del ‘63, quando l’Urss aveva affrontato l’Italia a Roma, in una partita dei  Campionati Europei. Conobbi le principali imprese del “Ragno Nero”, le sue grandi parate in occasione di una partita fra Inghilterra e Resto del Mondo, a Wembley, sempre nel ’63, dove tutto lo stadio, rivolse a Jashin più che applausi, una vera ovazione. Imparai da quel mio narratore, a farmi un’idea di cosa significasse afferrare, con una sola mano, uno di quei marroni e pesantissimi palloni della mia fanciullezza, come sapeva fare, unico a quei tempi, Lev. Conobbi l’esistenza del Pallone d’Oro, quale premio per il miglior giocatore d’Europa, che era stato assegnato a dicembre del ’63, proprio a Jashin. Pino raccontava e le sue parole brillavano, mentre nel bambino sottoscritto cresceva la voglia di conoscere quel fenomeno attraverso la TV. Allora però, le possibilità di vedere calcio in video, erano oltre un centesimo (percentuale non buttata a caso) rispetto a quelle odierne e quei pochi riscontri futuri, fino alla fine della carriera del “Ragno Nero”, avvenuta il 27 maggio 1971, non furono sufficienti a costruire al meglio quello che volevo, per inquadrare compiutamente il valore di Lev nel calcio. La sua fase calante di carriera, coincise con l’ascesa di un altro grande “numero uno”, l’uruguaiano Ladislao Marurkiewicz, che divenne, viste le maggiori possibilità di vederlo anche attraverso le grandi partite dei club, il mio preferito. Il mito di Lev Jashin però, lo vivevo ugualmente, ma con una punta troppo ampia di sconosciuto per non lasciarmi un alone d’amarezza. La svolta, nel nuovo millennio, quando attraverso internet, ho potuto vedere tanti filmati in più sulle imprese del Ragno Nero, che è diventato, nel mio percorso di ricerca, totalmente una leggenda. Oggi, non ho dubbi: il più grande portiere della storia del calcio, è stato proprio lui: Lev Ivanovic Jashin.
[Immagine: lev-yashin-age-lev-yashin-was-born-in-mo...y-to-1.jpg] 
Gli inizi del leggendario Ragno Nero.
Jashin nacque a Mosca, il 22 ottobre 1929. La sua famiglia era uno stereotipo dell’organizzazione e della trasformazione sociale imposta dall’Urss nel primo ventennio post rivoluzione: operai entrambi i genitori, ed ambedue impegnati in quella industria pesante, che tanto mancava alla nascita del nuovo Stato e che i persistenti venti di guerra seguenti il primo conflitto mondiale, avevano imposto come una necessità ulteriore. Lev Ivanovic, cresciuto nella modesta casa assegnata alla famiglia a Bogorodskoie, nel distretto di Mosca, ed adiacente ai grandi cantieri metallurgici, fu costretto fin da ragazzo a lavorare, anche pesantemente. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, mentre gli adulti andavano al fronte, il non ancora dodicenne Lev, fu inviato in fabbrica con la mansione di apprendista aggiustatore. La sua dedizione al lavoro divenne ben presto evidente, così come la sua originalità nel mostrare talune abilità, Straordinaria, infatti era la sua capacità di afferrare al volo qualsiasi oggetto lanciatogli per gioco dai suoi compagni di lavoro. L’avvicinamento allo sport, nelle ore libere, si stabilì subito su quei presupposti di grande qualità, ed i suoi incredibili riflessi, nonché il fisico filiforme, lo spinsero verso il ruolo di portiere, sia nel calcio, che praticava in estate e sia, in inverno, nell’hockey su ghiaccio. Praticò pure per un certo periodo l’atletica leggera come mezzofondista e la pallacanestro come pivot, ma queste due discipline rappresentarono un piccolo segmen-to nella sua crescita proiettata, anche per sue specifiche passioni, verso le altre due. Una prima svolta sul percorso agonistico del futuro “Ragno Nero”, s’ebbe nel ‘43, quando la sua famiglia si trasferì a Tuscino e Lev, appena quattordicenne, trovò posto in una nuova fabbrica della medesima tipologia della prima. In quel complesso però, era tornato a lavorare, dopo la parentesi al fronte, un calciatore molto noto nella Russia di quei tempi, Vladimir Cecerov. Costui, organizzò all’interno dell’impianto, una squadra di calcio e Jashin fu scelto come portiere. Il ruolo comunque, continuò a dividerlo con la squadra di hochey su ghiaccio che, nella medesima fabbrica, era preesistente a quella di calcio.
Alternando le due discipline, Lev  consumò gli anni precedenti la ferma militare e quando tornò, dopo di questa, nel 1949, l’esigenza di scegliere uno sport si fece ancora più pressante, ma non si sciolse. Il ritorno “civile” di Lev, infatti, coincise con la sua entrata nelle squadre del Ministero per gli Affari Interni, la Dinamo di Mosca, ed a complicargli il problema della scelta, ci pensò un famoso ex giocatore di hockey su ghiaccio, Arcari Cernisciov. Costui, rimasto ammirato dalle prodezze calcistiche di Jashin, lo volle a tutti i costi come portiere della squadra di hockey e se lo portò a Gagra, località sul Mar Nero, dove la Dinamo stava allenandosi. Iniziarono così discussioni a non finire fra gli allenatori, circa il futuro di Lev, il quale si trovò a convivere con una situazione che aveva dell’incredibile e che è unica nella storia del calcio, nonché rarissima in quella dello sport: era portiere titolare sui fondi ghiacciati e, contemporaneamente il secondo, dietro una gloria inamovibile come Aleksej Khomic, nel calcio.
In cuor suo, come ebbe a dire, stava scegliendo il pallone, ma quella situazione arrivò a proseguire fino al ‘53, anno cardine della sua sto-ria sportiva. Come guardiano della Dinamo di hockey, si mostrò insuperabile, divenendo decisivo nella conquista del Campionato sovietico. Il raggiungimento del titolo, provocò in Lev una forma d’appagamento e riconoscenza verso chi aveva creduto in lui in quello sport: li aveva ripagati con prestazioni eccellenti e decisive, ed ora poteva destinarsi al calcio. Poco dopo questa decisione, si trovò nelle condizioni di mettersi in gioco nel ruolo di portiere titolare della Di-namo calcistica, poiché Khomic s’era infortunato, ed a lui spettava il compito di sostituirlo. Jashin, si mostrò così grande da cancellare ogni possibile ritorno fra i pali del collega, costruendosi Ragno Nero e rimanendo fra i pali della squadra per 19 anni!
 
 
I quattro lustri che l’hanno eletto mito del calcio.
Divenuto punto fermo della porta della Dinamo di Mosca, col sodalizio della capitale, vinse cinque volte il Campionato nazionale sovietico: nel 1954, 1955, 1957, 1959, 1963. Ai titoli, aggiunse anche tre Coppe dell'Urss, vinte nel 1953, 1967 e 1970. La sue straordinarie qualità, lo spinsero a furor di popolo in Nazionale già nel 1954 e restò numero uno dell’Urss, fino al 1969, partecipando ad una Olimpiade, a due Europei, ed a quattro Mondiali. Nell'arco della sua carriera, Jashin collezionò 326 presenze ufficiali con la Dinamo Mosca, 78 con la Nazionale sovietica e 5 con la Rappresentativa del Resto del Mondo (1963, due volte nel 1964, 1965 e 1968), lasciando inviolata la propria porta in 207 occasioni. Incredibile e nemmeno avvicinato un dato della sua inconfondibile bravura: nelle 409 partite ufficiali giocate, seppe neutralizzare 86 calci di rigore! Con la Nazionale, vinse le Olimpiadi di Melbourne, dove tutto il mondo lo conobbe e dove di fatto nacque il mito del Ragno Nero, per la sua abitudine di vestire maglioni e pantaloncini di quel colore.
Altro grande successo con l’Urss, per tanti il più importante, la vittoria ai Campionati Europei del 1960, manifestazione nella quale il suo blasone si cementò ulteriormente, poiché fu protagonista di prestazioni eccezionali e con solo due reti subite. Quando l’Urss, che aveva superato nei quarti l’Ungheria ed in semifinale la Cecoslovacchia, affrontò in finale al Parco dei Principi di Parigi la Jugoslavia, sconfiggendola per 2 a 1, il pubblico parigino riservò a Lev Yascin, una vera e propria ovazione. Sempre agli Europei, si distinse meravigliosamente anche nell’edizione successiva, quando, con le sue parate, portò l’Urss alla finalissima contro la Spagna. Vinsero le “furie rosse” per 2 a 1, approfittando al meglio della cornice di casa dello Stadio Santiago Bernabeu di Madrid.
Meno fortunato, ma ugualmente significativo, il cammino del Ragno Nero ai Campionati Mondiali. Nel 1958, in Svezia, l’Urss uscì ai quarti, per mano della formazione di casa, ma le note per Yascin furono ugualmente dense di aloni luminosi. Nel 1962 la Coppa Rimet (il nome dei Mondiali fino al 1970 compreso), svoltasi in Cile, fu particolarmente amara per Lev, anche se prodiga di quei significati che resero impareggiabile questa autentico fenomeno dello sport tutto. In una partita della prima fase a gironi, che opponeva, ad Arica, l’Urss alla Colombia, si registrò quella che per molti resterà come la prestazione più debole della carriera di Jashin. In realtà questo giudizio può rappresentare il tentativo di rendere più umano il percorso immacolato ed alieno di Lev: a batterlo, quel giorno, più che i colombiani, fu un vento incredibile, sorto improvviso sul finale d’una partita che al 67esimo, sembrava finita, coi sovietici in vantaggio per 4 a 1. Poi quelle folate, trasformarono i tiri della disperazione e da lontano dei colombiani, in lanci del giavellotto, attraverso traiettorie totalmente false, dove il vento mantenne il pallone in aria per poi farlo piovere improvviso e veloce sugli angoli più imprevedibili della porta e, per tre volte in 19 minuti, il Ragno Nero, colui che non sbagliava mai, fu battuto….dal vento. Finì 4 a 4, ma l’Urss giunse ugualmente prima nel girone, ed affrontò i padroni di casa del Cile nei quarti. Qui, si assistette ad un’altra farsa casalinga, la medesima che aveva consentito alla rappresentativa del paese delle Ande, di far fuori l’Italia, a colpi proibiti e con l’attiva partecipazione dell’arbitro. Stavolta, proprio Jashin, fu oggetto di pedate, pugni e quanto altro potesse servire ad intimidirlo, o a renderlo vulnerabile. Subì davvero di tutto, con la “solita” (per quel torneo), partecipazione del direttore di gara. Si trovò pure costretto a farsi bendare un occhio dopo essere stato colpito da un pugno chiaramente intenzionale durante un’uscita, ma stoicamente rimase in campo fino alla fine. La partita, o meglio quel match di pestoni contro il Ragno Nero si chiuse per 2 a 1 per il Cile. Al termine della Rimet, Lev, deluso come non mai, annunciò di chiudere la carriera, ma fortunatamente per tutti, si trattò solo di uno sfogo e la sua leggenda ancor più luminosa, continuò. Nel 1963, infatti, Jashin sciorinò una serie di prestazioni che lasciarono a bocca aperta anche chi lo vedeva come un Dio. Per il tifo degli italiani fu un’autentica maledizione, risultando colui che più di ogni altro, impedì agli azzurri di raggiungere la fase finale dei Campionati Europei. Nell’andata di Mosca, parò l’inverosimile e, soprattutto, elevò un muro a difesa della sua porta nel finale, quando gli italiani, sotto per 2 a 0, incentivarono gli sforzi per raddrizzare il risultato. Stesso andamento anche nel ritorno di Roma, chiuso sull’1 a 1, col Ragno Nero che giunse persino ad ipnotizzare Sandro Mazzola, parandogli un calcio di rigore con disarmante facilità.
Ma anche il tempio del calcio di Wembley, a Londra, si inchinò alla sua monumentale bravura. Al fine di celebrare al meglio il Centenario della Football Association, si organizzò su quel mitico impianto, una partita fra l’Inghilterra e il Resto del Mondo, ed in quella passerella che racchiudeva il meglio dei calcio mondiale, Lev Jashin, come stabilito, avrebbe difeso la porta della Rappresentativa Internazionale nel primo tempo. A quell’epoca, simili partite erano vere, non delle mere esibizioni. L’unica differenza stava nella possibilità di sostituire i protagonisti, contrariamente alle restrizioni di quei tempi. Il Ragno Nero entusiasmò chiunque, ed i centomila spettatori di Wembley, non solo lo videro uscire imbattuto, ma si trovarono di fronte ad una prestazione che aveva del circense, fra l’acrobata di un trapezio, l’abilità ed il sincronico tempismo di un giocoliere e la potenza di un felino. Ancora oggi vedere le facce e le mani nei capelli dei calciatori inglesi, increduli per quelle mostruose parate, nonché sentire i toni di voce nei commentatori e le urla di stupore e di ammirazione degli spettatori, fa un effetto incredibile.
Ogni cultore del calcio, non può evitare di procurarsi quel filmato, al fine di capire e vedere, come un uomo di nome Lev e di cognome Jashin, fosse veramente capace di volare da palo a palo. Ma il 1963 del Ragno nero, che suggellò la sua straordinarietà anche in campo nazionale, dove giocò 27 partite subendo solo 6 reti, è passato alla storia del calcio anche per un altro fatto che lo rende unico: a fine anno, fu insignito del Pallone d’Oro, il premio spettante a chi veniva giudicato il miglior giocatore europeo. Era il primo portiere a riuscirvi, ed oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, ancora l’unico. 
Chiuse la sua esperienza da titolare ad un Mondiale, nel 1966, in Inghilterra (partecipò a 41 anni, come 12esimo, anche a quelli messicani nel 1970), spingendo la compagine sovietica alla conquista del quarto posto, tuttora il miglior piazzamento assoluto di una nazionale di un paese facente parte dell’Urss. Nell’occasione, fu eletto miglior portiere della rassegna iridata. 
[Immagine: yashin-lev-kh2B--896x504@Gazzetta-Web.jpg] 
Gli ultimi anni, l’addio al calcio giocato e il dopo.
Dopo i Mondiali inglesi, Jashin iniziò il suo ultimo lustro di carriera. Le partite giocate divennero meno intense numericamente, ma sufficienti per tenerlo ancora, per qualche stagione, titolare della Nazionale e baluardo inamovibile della Dinamo Mosca. Aumentarono solo gli acciacchi e gli infortuni, ma per il pubblico sovietico ed europeo, la sua popolarità e la sua presenza, veniva vista ugualmente come un monumento da considerarsi parte integrante del calcio.
Il 22 ottobre 1969, in occasione del suo quarantesimo compleanno, Lev, non potendo giocare per un infortunio, andò allo Stadio Lenin di Mosca, per assistere alla partita che opponeva l’Urss alla Irlanda del Nord. Assieme alla moglie Valentina - giornalista radio-Tv di Mosca, sposata nel 1954 – e alle figlie Irina e Ileana, andò a sedersi in tribuna d'onore, ma la folla lo invocò ugualmente a gran voce. Quando la nazionale sovietica fece il suo ingresso in campo, l'allenatore Kacjalin lo volle sul prato e Sesternev, il capitano, consegnò a Lev un enorme mazzo di fiori. Lo stadio scoppiò in un applauso che non fini-va mai e Jashin, tornando in tribuna, pianse. Tre giorni dopo, lo stesso Kacjalin, lo proclamò “Portiere ad honorem della nazionale”.
Due anni prima, il Ragno Nero, era stato insignito della massima onorificenza dell’Urss: l’Ordine di Lenin.
L’addio al calcio giocato di Lev Yascin avvenne il 27 maggio 1971, a Mosca, in uno stadio Lenin tutto esaurito: 103.000 spettatori, ma con richieste di biglietti sette volte superiori. Un evento che fermò il calcio mondiale e che vide una Selezione di Mosca opposta al Resto del Mondo. Accorsero per salutare sul campo il Ragno Nero, fra gli altri, Pelè, Eusebio (grande amico di Lev), Franz Beckenbauer, Bob-by Charlton e Giacinto Facchetti. La partita finì 2 a 2 e quando Jashin lasciò il campo, anche i duri della marea umana presente, avevano le lacrime agli occhi.
Il Ragno Nero, alla soglia dei 42 anni, era così chiamato a dispen-sare quelle doti umane che avevano così tanto contribuito ad elevarlo leggenda. E come una prosecuzione dell’incanto che suscitava in chi interloquiva con lui, continuò a vivere a Mosca, in un appartamento di tre stanze più servizi, dove non vi era il benché minimo segno di lusso, ma solo la sua dignità di uomo. Allenò squadre minori e giovanili, per un certo lasso persino in Finlandia. Nel 1985, in seguito di una grave forma di tromboflebite, forse dovuta al fumo che è sempre stato il vizio che si portò siamese fino all’ultimo dei suoi giorni, subì l'amputazione di una gamba. Con la solita dignità, nonostante la menomazione, accettò di accompagnare la Selezione sovietica di calcio alle Olimpiadi di Seul. Portò fortuna, perché 32 anni dopo Melbourne (dove difendeva la porta), l’Urss, rivinse la Medaglia d’Oro. Ma la vita del Ragno Nero era agli sgoccioli. Due mesi dopo l’Olimpiade, gli venne diagnosticato un tumore allo stomaco, sul quale a nulla servì un intervento chirurgico. Con la solita consapevolezza e quel sorriso che non l’ha mai abbandonato, raggiunse il 20 marzo 1990, per dare il definitivo addio a quella terra che l’ha eletto indimenticabile.
 
Le sue caratteristiche umane e tecniche.
Perché Jashin, pur così distante, è ancor oggi considerato come il più grande portiere della storia del calcio? Quale era il suo stile?
Con lui si riscontrano in maniera lineare certe convinzioni che fan parte delle varie facce dell’osservatorio dello sport: a formare la sua leggenda sono state in ugual misura sia le sue qualità di uomo che quelle dell'atleta. Era alto 1,89 e pesava 80 chili, aveva mani fortissime che allenava specificamente stringendo gomma, ferro, ogni cosa potesse essere utile per tenere quegli arti al massimo dello stimolo. Parava senza teatralità: nel suo stile c'erano soprattutto senso della misura e l’essenzialità che è determinante per le risultanze. Per farlo si imponeva la spontaneità, curandola come fosse solo naturalità. Disse: "II successo è frutto di fatica e di costanza. Per migliaia e migliaia di volte, in allenamento, ho eseguito gli stessi movimenti, proprio perché volevo che ogni parata mi venisse naturale”. I suoi riflessi erano fulminei, ed il suo corpo filiforme sapeva divenire felino e compatto, proprio perché a monte gli stimoli erano già partiti precisi e consapevoli. Vedendolo giocare, molti pensavano ad un atleta denso di fortuna, perché sembrava che parasse decine e decine di tiri unicamente per combinazione. Ma dietro c’era uno studio che illuminava un repertorio incredibile, su cui insistevano convinzioni rarissime nella storia dello sport. Fra le tante dichiarazioni che ci permettono di conoscere altri aspetti della sua grandezza, ebbe modo di dire: "Per me, la dote principale di un portiere è di intuire le mosse dell'attaccante, distruggerlo psicologicamente”.
Dunque non era un caso se, durante un incontro, molti avevano l'impressione che gli avversari sbagliassero tirando sempre dalla parte dove lui si trovava. Nella realtà, era lui che li spingeva a tirare dove voleva. Disse un grande calciatore come Sandro Mazzola, a proposito del rigore che Lev gli parò a Roma nel 1963: "Guardai Jashin e mi parve una figura ingigantita dal nero della maglia, una sorta di mostro che invece di mani e piedi protendeva tentacoli. Un senso di soggezione, come un lampo di passaggio, poi il fischio dell'arbitro e il tiro, mentre scorgevo Jashin gettarsi a chiudere la porta sulla destra, proprio dove avevo indirizzato la palla....Là dove lui aveva voluto che io tirassi il rigore. Aveva rimpicciolito la porta, mi aveva stregato". Altrettanto importante e decisivo per l’equilibrio e la grandezza del campione, il suo modo di comportarsi sui campi e nella vita privata. Un uomo semplice e saggio. Benché dovesse tutto allo sport, Jashin ha sempre creduto di più ai valori della famiglia. Disse: "Non bisogna mai perdere il senso delle proporzioni. Il calcio, mi ha reso famoso, è vero. Ma il momento più bello della mia vita è stato quello della nascita della prima figlia, Irina. E il mio compito più importante è consistito nell'allevare Irina e la mia seconda bambina, Ileana, per farne dei veri esseri umani". Una considerazione che non ha pari nei pur tanti campioni sorti all’ombra del Cremlino, dove la fama sportiva, pur dando pochi quattrini rispetto all’Occidente, si caricava di vanti e sollecitazioni psicologiche e sociologiche, dai vertici, se vogliamo, ancor più definiti e confondenti.
[Immagine: lev-yashin-age-in-lev-yashin-survived-by...keeper.jpg] 
Altre sue frasi celebri.
A proposito dei suoi inizi così originali, divisi fra calcio e hockey su ghiaccio.
"Ero magro, avevo sempre fame, ma in porta riuscivo in qualche maniera a farmi rispettare. Però, non sapevo ancora che cosa scegliere: se il calcio o l'hockey. Questa incertezza durò per qualche anno. Ero infatti combattuto fra i due sport, non sapevo che fare. Capivo, però, che il calcio stava per avere il sopravvento".
Su cosa abbia ricevuto dallo sport e dal calcio in particolare.
"II calcio mi ha dato maggiore comprensione dell'umanità. Da giovane, come tutti, anch'io ero impaziente. Il calcio mi ha insegnato che nella vita bisogna essere altruisti".
"Lo sport esige sacrificio rigoroso, rispetto delle norme per una vita sana. Un atleta non ha più neppure il diritto di prendersi un raffreddore. La sua salute appartiene alla squadra".
E ancora: "II calcio è uno sport molto faticoso e impegnativo ed è giusto che quanti vi si dedicano siano ben pagati. Ma un atleta non deve diventare un mercenario".
Sul suo ruolo.
“Qual è il portiere che non si dispera per un gol subito? Dev'essere tormentato. E se rimane calmo è la fine. Non ha importanza cosa ha fatto in passato, uno così non ha futuro” – alla faccia di coloro che sostengono quanto un portiere debba dimenticare i gol subiti…. 
Sulla concentrazione prima della partita.
“Fumarsi una sigaretta per rilassare i nervi e buttare giù un bicchierino di superalcolici, per ben tonificare i muscoli…”.
 
Han detto di Jashin
Il già citato Mazzola (nella foto della pagina seguente anticipato dal Ragno Nero): "Per me, Jashin è stato l'unico portiere in grado di far sbagliare i tiri degli avversari. Con la sua enorme statura e le sue lunghissime braccia, sembrava coprire tutta la porta, una massa nera sempre incombente. Quando arrivavo sotto la sua porta, egli restava lì immobile e mi costringeva affannosamente a chiedermi: ma se quello non si muove, adesso io da che parte tiro? Metteva soggezione. Un gol sicuro, contro Jashin, poteva nascere soltanto da un tiro sbagliato."
Un grande giornalista sovietico di quei tempi, voce calcistica dell’Agenzia Novisti di Mosca: “È  un nome che, a mio avviso, caratterizza tutta un'epoca del calcio. Non è un caso che Jashin figuri quasi costantemente nelle classifiche dei migliori giocatori di calcio delle varie generazioni, tanto nell'Unione Sovietica quanto negli altri Paesi. Perché? Perché egli ha portato, secondo me, una rivoluzione nel suo ruolo, vale a dire nel gioco del portiere. Jashin, in pratica, era per la sua squadra un vero e proprio undicesimo giocatore in campo e  nello sviluppo delle azioni era parte integrante della difesa, partecipando attivamente al gioco sia nelle fasi critiche nella propria area di rigore, sia quando i suoi pali non erano minacciati dal pericolo. Tutto ciò gli permetteva di essere sempre al posto giusto, mentre gli spettatori avevano spesso l'illusione che fosse il pallone ad andare sempre incontro a Jashin”.
L’indimenticabile Fulvio Bernardini: “Come Zamora, possedeva  una affascinante personalità. Assomigliava un po' all'asso spagnolo, anche nel modo impassibile di comportarsi tra i pali. Erano due portieri gemelli. Secondo me, Jascin ha avuto in più il vantaggio, di una migliore preparazione, perché in Russia già si svolgevano allenamenti specifici per i portieri”.
L’attuale e popolarissimo Italo Cucci: “Fisicamente fortissimo, aveva nelle parate a terra il suo punto meno nobile, per modo di dire, s’intende. Giunto al calcio attraverso altri sport, era praticamente imbattibile, sia nelle parate alte e sia nelle uscite. Dotato di una presa ferrea, tra le cose migliori del suo repertorio, vi erano il colpo d'occhio e la rapidità con cui calcolava la velocità del pallone e la sua traiettoria. Nell'area piccola, era praticamente il padrone e la dimostrazione più probante, la offriva comandando a bacchetta la difesa che, nella nazionale sovietica, era formata da fuoriclasse del valore di Danilov, Scesternev, Khurtsilava e Afonin. Per questo lo si potrebbe definire il primo "libero dietro tutti", che abbia avuto il calcio mondiale”.
 
Attestati postumi.
Nel 1994 è stato istituito un premio che porta il suo nome, riservato al miglior portiere di ogni edizione dei Campionati Mondiali. Nel 2000 la Fifa ha inserito Yashin nella squadra degli undici calciatori più forti del secolo, nominandolo Portiere del Secolo

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Grandissimo pezzo Morris, dalle immagini della tua infanzia e della tua terra alla strepitosa carriera di un uomo notevole, che le tue parole mi hanno fatto percepire, un uomo della sua epoca, capace di sacrifici, con un grande senso del dovere e senza il culto di se stesso, che con il linguaggio dello sport riesce a parlarci da così lontano. Un linguaggio che attraversa popoli, continenti e persino il tempo, che unisce, che ci parla di una unica umanità, qualcosa che non basta ma che deve continuare ad essere narrato. 
Eugenio Monti, Salvador Sanchez, Lev Yashin... Tantissime le immagini e i personaggi evocati, Danny Lopez, Wilfredo Gomez, Azumah Nelson, Mazzola, Guarneri (sontuoso è l'aggettivo giusto!)... Grazie.
 
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#3
Caro Old, hai bussato al cuore di quelle motivazioni e quei significati che hanno avvolto la mia carriera di dirigente e divulgatore. Il filo conduttore di un linguaggio tanto immanente, quanto, senza presunzione alcuna, vero. Oggi mi si ricorda nell’intorno di vita quotidiana, per aver detto, spiegato e scritto, un quarto di secolo fa, quelle che nell’odierno appaiono in talune discipline, come realtà tecniche ed agonistiche imprescindibili. Ma non è qui che mi sento gratificato, in fondo quello può essere il distinguo-oggetto di quel mestiere dove è doveroso essere all’altezza, anche se non sempre la si vede come tale (sul forum di Cicloweb, ad esempio), bensì per aver avuto il coraggio di presentare ovunque gli sportivi come artisti, come esseri umani e non come fenomeni da baraccone, o crogioli di cancerogeno business. Sportivi che mi hanno insegnato e che hanno arricchito, con le loro opere, le mie fonti gnoseologiche. Che mi hanno spinto, ognuno per ognuno, a svolgere tesi, spingendomi sempre a dare il meglio del mio poco. Ne è uscito il progetto “Graffiti, storie di grandi sportivi vissute da un uomo che ama lo sport”, in cui prefazione e introduzione, sono cornici per essere, capire e sognare autentici aloni, tanto artistici, quanto antropologici. Testi che riporto in apposito thread in quest’ala del forum, affinché possano dare un senso ancor più significativo, ai ritratti già pubblicati ed a quelli che verranno.
 
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