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Lucien Aimar
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Lucien Aimar
Nato a Hyères (Francia), il 28 aprile 1941. Passista scalatore. Professionista dal 1965 al 1973, con 35 vittorie.
 
Questo corridore un po’ rotondetto, ma solido, nato il 28 aprile 1941 in una graziosa località della Costa Azzurra, dove è collocato un velodromo tra i più belli del mondo, potrà sempre dire di aver vinto un Tour, ed altre belle corse, anche se molti non lo ricordano. Potrà inoltre sostenere che nel suo palmares, gli è stato tolto un Tour de l’Avenir, per aver preso a pugni un fiammingo, Joseph Spruyt, abbastanza capace di far perdere la pazienza anche a chi ha studiato per diventare santo. E in quella edizione de l’Avenir, Lucien aveva battuto Felice Gimondi, che poi si ritrovò regalata quella corsa, a causa della penalizzazione inflitta al francese per le percosse al belga. In altre parole, il transalpino di Hyères, era un corridore che diventò professionista con un pedigree notevole e che ebbe la fortuna di entrare nella squadra e nelle grazie di Jacques Anquetil, un fatto che poi si rivelò determinante nella sua vittoria al Tour de France ’66.
Già, perché quel volpone di Raphael Geminiani, il cui occhio “lungo” si sublimava col dialetto romagnolo imparato dai genitori originari di Lugo, se ne infischiò del cazzotto mollato da Aimar a Spruyt e lo prese con sé alla Ford France, l’equipe che dirigeva, avente per capitano proprio il “sire” normanno. Geminiani lanciò subito Lucien al Tour ’65, dove non era presente Jacques e lo pronosticò vincente, ma il giovane pagò l’errore di un’errata alimentazione nella tappa dell’Aubisque e, al pari di Adorni, si sciolse in una crisi che lo portò al ritiro.
L’anno seguente, quando i giornalisti francesi stavano per ridicolizzare Geminiani, sempre pronto a ridare vincente Aimar, costui, nella diciassettesima tappa, la Briancon-Torino, approfittò di un acuto di Anquetil prima del ritiro e svolse l’azione decisiva contro Poulidor. La frazione arrise a Bitossi, ma Lucien si prese quella maglia gialla che poi seppe portare a Parigi, senza vincere nemmeno una tappa. Ma non importava, il Tour era finalmente suo e Geminiani poté divertirsi a prendere in giro i giornalisti suoi connazionali.
Da quel Tour però, Aimar non si ritrovò più, perlomeno non fu più in grado di lottare per la vittoria. Seppe ugualmente togliersi delle altre soddisfazioni, come la conquista della Genova Nizza ’66, la Quattro Giorni di Dunkerque e la Cronoscalata al Mont Faron nel ’67, il  campionato francese su strada nel ’68, il tappone per distacco del Midi Libre ed il prestigioso Trophée Polymultiplée nel ’70. Chiuse la carriera nel 1973, ma i suoi ultimi anni furono incolori. In seguito tornò nell’ambiente ciclistico, organizzando per diversi anni il Giro del Mediterraneo.
 
Un breve ricordo personale.
Pedalava dritto, col sedere in fondo al sellino, come fosse un signorotto con pancetta. Il suo modo di stare sulla bicicletta faceva pensare ad un telaio più piccolo dell’idoneo: in realtà la sua schiena era una delle meno flessibili viste dal sottoscritto. Nonostante ciò, si difendeva abbastanza bene a cronometro, anche se, ovviamente, non era bello da vedere. La sua fortuna consisteva in muscoli dorsali davvero di nota. Ciò che si evidenziava in TV, dal vivo era ancora più impressionante. Come tanti altri corridori del mio primo osservatorio di interessi e passioni, lo osservai da vicino e lungamente in occasione della sua partecipazione al G.P. di Castrocaro, nel 1967, dove finì sesto, seppellito di minuti dal vincitore Gimondi. Ma aldilà delle tante tornate sul circuito di gara, l’osservazione migliore mi riuscì il giorno prima della manifestazione, quando Lucien, già famoso per aver vinto il Tour dell’anno precedente, si stava allenando per il Gran Premio. Ero seduto sulla Lambretta di mio fratello che si era fermato in un bar, quando sulla strada adiacente sfrecciò Aimar che seguiva la moto di colui  che era, probabilmente, il suo improvvisato allenatore. Lo riconobbi più che per la maglia arancio con fascia bianca orizzontale della “Bic”, per quel suo modo di pedalare dritto sulla bicicletta che avevo visto in TV nel Tour dell’anno precedente. Urlai a mio fratello, il pilota (io avevo solo 12 anni) di correre, perché potevamo seguire Aimar e fu così che ci accodammo al treno del francese per diversi chilometri. Vederlo da dietro era uno spettacolo, nel suo genere ovviamente, perché sembrava uno stayer con tanto di casco, vista la grandezza della sua testa e sia per quella posizione così verticale sul mezzo. I suoi muscoli però, facevano impressione, soprattutto quei polpacci tanto simili a quelli di un calciatore. Quando arrivammo a Castrocaro fummo fermati da un vigile e per me sfumò la possibilità di farmi firmare un autografo.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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