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Luisa Fernanda Rios
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LA STORIA. Laura Rios, una manager nel ciclismo
Il ciclismo non è uno sport per donne? Andatelo a dire a Luisa Rios, team manager della professional Colombia es Passion-Café de Colombia: donna intelligente, capace, simpatica e anche di bella presenza che ha l'obiettivo di ribaltare questa convinzione (purtroppo) molto comune nel mondo delle due ruote. L'abbiamo conosciuta al Giro di Turchia e ci ha fin da subito incuriosito...

Chi è questa ragazza bionda a capo di una squadra di ciclismo?
«Una donna di trentasette anni, da sempre atleta di buon livello negli sport d'avventura: corsa, regata, arrampicata...Fino a qualche anno fa non ho mai avuto nulla a che fare col ciclismo, ma sono da sempre nell'ambiente sportivo come organizzatrice d'eventi e amministratrice».

Come sei entrata nel progetto della Colombia es Passion?
«Quattro anni fa ho conosciuto Luis Guillermo Plata, all'epoca ministro del commercio estero della Colombia, che mi ha proposto di rilanciare la squadra, che era sul punto di morire. Voleva qualcuno che portasse idee nuove, una persona di esperienza che non fosse dell'ambiente da una vita. Io amo le sfide, quindi non ho esitato un attimo ad accettare».

In cosa consiste concretamente il tuo lavoro?
«Mi occupo degli sponsor e della contrattazione degli atleti. Non sapendo molto del ciclismo, mi faccio aiutare dallo staff tecnico e anche da esterni che conoscono bene questo sport. All'inizio di quest'esperienza per esempio ho chiesto consiglio a Chris Carmichael, storico allenatore di Armstrong, per capire se i ragazzi colombiani potevano avere qualche speranza nel grande ciclismo. I risultati dei test a cui li abbiamo sottoposti ci hanno rassicurato: sono dei talenti naturali. Cerchiamo quindi di assisterli e di dar loro tutto il possibile per crescere nel migliore dei modi. Nello sport colombiano c'è un grande problema di doping, noi abbiamo adottato una politica molto dura in proposito, la nostra immagine vogliamo sia impeccabile».

Qual è l'obiettivo del team che dirigi?
«La squadra ha un finanziamento nazionale e sponsor colombiani, quindi ha come primo interesse quello di dare una nuova immagine del nostro paese, che non è solo narcotraffico e guerra come in diversi credono, ma ha molto da offrire. Abbiamo l'ambizione nei prossimi anni di portare una squadra interamente colombiana al Tour de France per questo stiamo investendo su corridori giovani, a cui abbiamo affiancato uomini di esperienza come Laverde e Hugo Peña. Passo dopo passo stiamo crescendo secondo quanto programmato».

Nel ruolo che ricopri siamo abituati a vedere ex ciclisti di mezza età, ti rendi conto di essere una mosca bianca?
«Sì, guardandomi attorno vedo un mondo prevalentemente maschile, in cui è stato difficile inserirsi perché sono donna e nuova dell'ambiente. I primi tempi quando la gente mi vedeva alle corse bisbigliava: "Chi è quella?", ma conoscendomi i colleghi ora mi apprezzano».

Cosa può dare in più una team manager donna rispetto a un collega uomo?
«Non credo nella lotta tra i sessi, ma sono convinta che le donne siano catalizzatrici di emozioni. Nel mio piccolo credo di saper dare serenità ed equilibrio al mio gruppo. Con i ragazzi, quasi tutti giovanissimi, ho quasi un rapporto materno; coi dirigenti, diciamoci la verità, essere carina e sorridente aiuta, ma va dimostrato anche di essere capaci».

Dal punto di vista di una manager, il ciclismo è un buon investimento?
«Assolutamente sì. Pensa che in uno studio di qualche anno fa a livello europeo è risultato che il primo ricordo positivo che gli intervistati associavano alla Colombia era il ciclismo. Per il mio paese e per me investimento migliore di un team ciclistico non c'è!».

articolo a firma di Giulia De Maio per tuttobiciweb.it
 
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#3
L'intervista: La Colombia, che passione - Luisa Rios, professione team manager
Una trentina di anni fa il grande ciclismo internazionale ha assistito alla straordinaria entrata in scena dei corridori colombiani: nel 1980 Alfonso Flórez diventa il primo non europeo a vincere il Tour de l'Avenir. I risultati di Flórez e della prima squadra colombiana al Tour (1983) non passano inosservati ma è quanto entra in scena la squadra Cafè de Colombia (1985) che questi scalatori attaccanti per natura entrano nel cuore di tutti gli appassionati, non solo sudamericani: Lucho Herrera e Fabio Parra realizzano delle vere e proprie imprese sulle montagne del Tour, della Vuelta e anche del Giro.

Dopo questo magnifico periodo d'oro la Colombia continua a produrre ottimi corridori vicendo anche un Mondiale a cronometro con Botero (corridore molto diverso da Herrera e Parra) ma tutti corrono per squadre per lo più spagnole o italiane e mai del loro paese d'origine. Da qualche anno a questa parte, però, i Cafeteros stanno cercando di ritornare grandi con il gruppo della Colombia es Pasión e anche questa volta il primo passo è stato conquistare il Tour de l'Avenir, vittoria arrivata l'anno scorso grazie al giovanissimo talento di Nairo Quintana (con il compagno di squadra Pantano terzo); nel 2011 è arrivata anche per la prima volta la registrazione all'UCI come team Professional ed un calendario fitto anche in Europa (con il terzo posto al Giro dell'Appennino): abbiamo cercato di scoprire di più su questa squadra parlando con la team manager, caso unico nel ciclismo professionistico maschile, Luisa Rios.

Innanzi tutto chi è Luisa Rios?
«Ho 37 anni e sono nata e vivo a Medellín. Da sempre lo sport fa parte della mia vita, infatti in passato sono stata un'atleta di atleta livello nei Raid e nelle Adventure Race: corsa, canoa, arrampicata e altre discipline. Anche quando ho smesso con l'attività agonistica sono sempre rimasta nell'ambiente organizzando eventi e gare di avventura».

Niente ciclismo su strada quindi, come hai fatto a diventare manager della Colombia es Pasión?
«Grazie a queste organizzazioni avevo conosciuto, nel 2007, Luis Guillermo Plata che allora era ministro del commercio estero della Colombia: la squadra stava attraversando un periodo di grosse difficoltà ed è stato lui a propormi per questo ruolo perché servivano idee nuove e differenti. Io ho accettato e questo è il mio quarto anno nella squadra. Ovviamente all'inizio non è stato facile perché conoscevo molto poco questa realtà e lo staff tecnico mi ha aiutato in molte questioni mentre io mi occupavo dei contratti e degli sponsor».

Sappiamo che la squadra ha anche finanziamenti governativi, quale è il vostro obiettivo per i prossimi anni?
«La squadra è stata creata per cercare di portare in tutto il mondo un'immagine positiva del nostro paese; anni fa i rappresentati del governo avevano condotto uno studio all'estero per capire quale fosse la prima cosa a cui pensava la gente comune sulla Colombia: una grande maggioranza, purtroppo, ha parlato della droga e della guerra dei narcos ma, incredibilmente, subito dopo veniva il ciclismo e questo grazie alle imprese di campioni come Lucho Herrera e Fabio Parra che hanno davvero lasciato un segno profondo. L'obiettivo primario quindi è migliorare la credibilità del nostro paese, dei nostri marchi e dei nostri prodotti nell'immaginario collettivo: il ciclismo per questo è un veicolo totale, assolutamente perfetto. Sportivamente parlando invece il nostro sogno è di tornare a disputare il Tour de France con una formazione tutta nostra, composta da nove corridori colombiani».

Hai preso una squadra in crisi e l'hai portata alla categoria Professional, quanto lavoro c'è nel mezzo?
«Tantissimo! Fin dall'inizio abbiamo cercato di creare una struttura completamente diversa dalle precedenti e tra le prime cose ho voluto contattare Chris Carmichael, ex professionista e storico allenatore di Lance Armstrong e altri grandi sportivi, per fare dei test sui nostri ragazzi e capire quale fosse il loro potenziale: la prima risposta è che sono dei talenti naturali, hanno tantissime doti fisiche ideali per il ciclismo. Da subito abbiamo cercato di fare le cose per bene, abbiamo fatti molti test, abbiamo scelto di aderire al passaporto biologico e abbiamo anche stretto un accordo con uno dei più rinomati e affidabili lavoratori colombiani per fare dei controlli interni: se vogliamo dire al mondo che la Colombia non è solo narcos sarebbe da stupidi trovarsi poi con un ciclista positivo; abbiamo anche cercato di educare i nostri ragazzi perché è facile fare le cose male, farle bene invece è difficile».

In effetti la sfida era di quelle toste e qualcuno avrebbe potuto anche abbandonare alle prime difficoltà...
«Sì, però per evitare questo abbiamo cercato sempre di fissarci degli obiettivi e passare allo scalino successivo solo dopo averli ottenuti; in più abbiamo cercato di costruire una squadra con tanti giovani da far crescere ma anche con uomini esperti con Peña e Laverde che possano essere un punto di riferimento. Per esempio la registrazione come Professional non l'abbiamo fatta finché non sentivamo che la squadra era pronta ad affrontare questa nuova avventura: mandare subito ragazzi giovani in Europa poteva bruciarli, vincendo il Tour de l'Avenir invece abbiamo capito che il momento giusto per provarci era arrivato. Certo, avevamo sperato in un invito al Giro del Delfinato perché poteva essere un test importante; per la Vuelta invece in questi mesi ho parlato spesso con Javier Guillén, c'era molto interesse da parte di entrambi ma forse rimandare di un anno non è un male, è una corsa in cui serve molta esperienza e a noi manca ancora qualcosa, soprattutto ai ragazzi più giovani».

Questa generazione di giovani ciclisti ha lo stesso potenziale quella di Lucho Herrera e Fabio Parra?
«Assolutamente, forse anche un potenziale maggiore. Alcuni dei nostri giovani a 20 anni hanno già ottenuti risultati eccellenti, in Catalogna abbiamo vinto la classifica dei gran premi montagna, molto importante per la filosofia della nostra squadra, con Quintana ed il suo rivale diretto era Contador. In più oggi abbiamo a disposizione una tecnologia migliore che ci da anche la possibilità di fare allenamenti specifici e colmare tante lacune: in passato i ciclisti colombiani erano solo scalatori, non c'erano passisti o velocisti e non parliamo dell'abilità in discesa! Adesso abbiamo tanti corridori bravi su tutti i terreni, gli scalatori sono sempre la maggioranza, è ovvio, ma in squadra abbiamo gente che va forte in pianura e un bel velocista come Forero. E poi abbiamo un grande patrimonio che è anche il motivo per cui ci divideremo sempre tra Colombia ed Europa: in patria abbiamo sempre la possibilità di vivere e allenarci in altura e questo ci fornisce un grande vantaggio da non sprecare».

Il ciclismo in Colombia è molto sentito e ci sono tante squadre nazionali o anche regionali. Ci sono invidie nei vostri confronti?
«Un po' sì, però noi cerchiamo sempre di pensare al nostro lavoro. Purtroppo il ciclismo colombiano negli ultimi anni ha vissuto una gravissima crisi di doping con tante positività nelle corse nazionali: il problema è che sembra non ci sia molta voglia di cambiare e tante volte mi trovo costretta a chiamare la Federazione o l'UCI per sollecitare dei controlli antidoping perché capita che alle corse non ci siano».

Sebastiano Cipriani - www.cicloweb.it
 
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