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Martin Emilio “Cochise” Rodriguez
#1
Martin Emilio “Cochise” Rodriguez
 
Si potrebbe definire questo corridore dai tratti somatici pellerossa, di qui il soprannome di "Cochise", l'antesignano del ciclismo moderno di Colombia. Forse pure il più forte della storia ciclistica di quel paese, se si considera che passò professionista quando la maggior parte dei corridori, della sua epoca e non solo, si ritirano. Tra l'altro, era un colombiano anomalo in tutto, perché più che le salite amava la pianura, terreno sul quale sapeva sviluppare velocità e accelerazioni, che erano in grado di mettere in ginocchio chiunque non avesse, nel passo, il proprio pezzo forte. Martin Emilio Rodriguez, consumò i suoi anni migliori nel dilettantismo di un paese già di per se stesso ai margini del ciclismo e, nelle rare occasioni in cui poté cimentarsi con corridori stranieri provenienti da un pedale più nobile di quello colombiano, le sue vittorie continuarono. S'aggiudicò il Giro di Colombia nel '63, '64, '66, '67. Alla ricerca di confronti più probanti, anche per vincere la sottostimazione che continuava a perseverare nel ciclismo più importante, nel 1970 andò a Città del Messico per tentare di battere il record mondiale sull'ora per dilettanti e vi riuscì, percorrendo 47,553 chilometri. Il primato venne regolarmente omologato, ma poi una documentazione fotografica, dimostrò che i sacchetti erano stati posti a 30 centimetri sulla corda della pista, anziché i 20 previsti dal regolamento. Scoppiarono così delle polemiche che non giovarono alla carriera di Cochise. L'anno seguente, dopo aver vinto i Giochi Panamericani nell'inseguimento, ebbe finalmente l'occasione di venire in Europa, a Varese, per partecipare ai mondiali su pista. Gareggiò nella specialità amica e ottenne una schiacciante vittoria. Con la conquista della maglia iridata, arrivò pure l'interesse dei club professionistici europei, ed italiani in particolare, ma ormai per Rodriguez il tempo era passato: a 30 anni c'era la possibilità di coronare il sogno olimpico. Con un atto che rimarrà una delle tante tristi pagine della storia dello sport, la sua iscrizione a Monaco '72 venne rifiutata. Scorato e perplesso pensò di chiudere col ciclismo, ma nel '73 fu ingaggiato dalla Bianchi, per affiancarlo a Gimondi. Cochise, a dimostrazione che avrebbe potuto recitare pagine superiori se avesse avuto una cittadinanza ciclistica ben diversa dalla Colombia dei suoi tempi, vinse subito il Gran Premio di Camaiore, la tappa di Forte dei Marmi al Giro d'Italia con un assolo da grandissimo finisseur e il Trofeo Baracchi con Gimondi, dimostrandosi verso il bergamasco uno scudiero di lusso come pochi nella lunga storia di gregari, di cui l'uomo di Sedrina ha potuto godere. Nel '74 vinse il Giro delle Marche e nel '75, la Cronostaffetta con Gimondi e Santambrogio e la tappa Baselga-Pordenone al Giro d'Italia. In quest'occasione, a dimostrazione della sua completezza, regolò in volata un drappello di fuggitivi. A fine anno tornò in Colombia e salutò il ciclismo pedalato. L'ellisse di Rodriguez, a ben vedere, si dipana su un velo di tristezza, perché questo talentuoso corridore, avrebbe potuto recitare ben altre pagine se non fosse stato colombiano. E quando avere una pelle diversa, o appartenere ad una terra non eletta, rappresentano motivi di discriminazione, non si può che essere tristi.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Ciao Morris.

Volevo chiederti, quando hai un attimo, d'un altro grande colombiano: Ramon Hoyos.

Leggevo di lui tempo fa....ma com'è che pedalava?
 
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#3
Ciao Morris, 
mi accodo qui, con la domanda di Paglia, ma su tutt'altri argomenti. 
Hai citato con stima Gianni Clerici (in un altro articolo), io qualche tempo fa avevo accennato a una tua narrazione alla Rino Tommasi (che ho sempre stimato molto), che tra l'altro oltre che di boxe sapeva molto di tennis. 
Mi piacerebbe qualche tua considerazione dall'interno sui grandi del giornalismo sportivo italiano, come i citati, ad esempio. Hai conosciuto Gianni Brera (che di ciclismo capiva il giusto ma era comunque sempre un piacere ascoltare)? 
Ci sono giornalisti sportivi della generazione più recente che stimi in particolare?

Poi una piccola curiosità: l'unico Morris che mi viene in mente è il grande fumettista belga ideatore e disegnatore (magnifico) di Lucky Luke, successivamente realizzato in collaborazione con l'altrettanto grande René Goshinny. Sei un appassionato di fumetti? 

Un carissimo saluto!
 
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#4
(24-05-2018, 08:01 AM)Luciano Pagliarini Ha scritto: Ciao Morris.

Volevo chiederti, quando hai un attimo, d'un altro grande colombiano: Ramon Hoyos.

Leggevo di lui tempo fa....ma com'è che pedalava?


Anche se ho ritratto migliaia e migliaia di corridori, di Hoyos, come di diversi altri ciclisti di una certa evidenza, non ho ancora scritto una biografia. Il perché, è presto detto: non sono mai passati al professionismo. Tempo fa, parlando di ciclismo degli anni sessanta, settanta e ottanta, relativo a paesi organizzati soprattutto nella FIAC, Piotr Ugrumov e Sergei Uslamin, vedendomi assai informato, mi invitarono a scrivere un libro sui grandi ciclisti dell’Unione Sovietica e di tanti altri dell’est europeo. Non diedi spago al loro consiglio, non per particolari motivazioni, ma solo perché la vita, spesso, ti cancella certi itinerari, senza darti una ragione diversa da quell’insieme di episodi che ti portano altrove senza chiederti opinioni e volontà. Continuai così a scrivere, con una certa cadenza, di corridori giunti al ciclismo che da più facilmente leggenda: quello professionistico, appunto.
Ramon Hoyos, è stato senza dubbio il quadro più illuminato e schiudente l’intensità d’amore del popolo colombiano verso il ciclismo. Potremmo pure dire: una splendida alba pionieristica, senza averne le caratteristiche d’età di genesi, ma con quella profondità coinvolgente che crea il mito. Ed Hoyos, è davvero un mito dell’intero ciclismo sudamericano. Poi, sui suoi valori tecnici, potremmo discutere a lungo senza giungere ad una soddisfacente conclusione, perché mancano raffronti più concreti rispetto alle poche occasioni internazionali in cui Hoyos si cimentò, ed in questo quadro va  pure evidenziata l’ondivaga collocazione e considerazione del ciclismo colombiano nella storia ciclistica più complessiva. D’altronde, la Colombia, anche nel calcio ha vissuto fasi assai altalenanti con apici pure opposti. Senza entrare per brevità sulle motivazioni a monte, che poco hanno a che fare con lo sport, la Colombia è stata, ad esempio, il vero paradiso per il rilancio e l’elevazione di grandissimi calciatori sudamericani, argentini in particolare, come Alfredo Di Stefano (forse il più grande calciatore di tutti i tempi) e Adolfo Pedernera nei primi anni del dopoguerra. Poi, più tardi, per questo grande paese sudamericano, una forma d’isolamento arrivò anche nel calcio. Nel ciclismo gli anni di Hoyos, sono vicini se non identici al pedale di tantissimi paesi che non avevano professionisti, ed aspettavano le Olimpiadi per vivere il vertice assoluto del confronto internazionale. Gli anni di “Cochise” Rodriguez, invece, furono più contraddittori: se da una parte i richiami al professionismo crescevano anche in Colombia, dall’altra e dall’Europa in particolare, iniziarono a concretizzarsi forme di ostracismo verso il più concreto e forte paese sudamericano nello sport del pedale. Ed in questo quadro, troviamo uno dei motivi che portarono al rifiuto dell’iscrizione di “Cochise” alle Olimpiadi di Monaco (dove avrebbe molto probabilmente vinto una medaglia….).
Ma torniamo ad Hoyos. Sicuramente un grande scalatore, senza averne la taglia ideale (anche per quei tempi), con una forza erculea ed un fisico in grado di assorbire l’impatto con strade aventi fondi anche peggiori di quelli del ciclismo pionieristico europeo, rese più gravi, sovente, dalla rarefazione dell’aria in altura. Un fisico grezzo, senza le correzioni dell’allenamento specifico, con un torace di evidenza ed una capacità polmonare che gli consentiva di pompare litri d’aria nella dimensione dei grandi, nonché capace di sopportare la convivenza col fumo di una media di nove grossi sigari al giorno. Già, perché fra i tanti nomignoli ereditati da Hoyos, c’è pure quello di “Bartali di Antioquia”, un po’ per lo stile di pedalata, ed un po’ proprio per la passione verso il fumo. D’altronde, fra i grandi ciclisti, ci sono stati “fumatori” che non t’aspetti, come Eddy Merckx ad esempio, che le pur pochissime sigarette se le è concesse a lungo. 
Sulla pedalata, invece, l’accostamento con Bartali è forse eccessivo, per una serie di riflessioni che dovremmo sempre fare quando andiamo a discutere sui ciclisti di un tempo. L’ondeggiamento di spalle e testa nella pedalata in salita, è infatti stata una costante dei corridori fino a pochi lustri fa, per una ragione precisa: la mancanza di allenamenti specifici sugli arti superiori da svolgere in palestra durante l’inverno e, pure, anche se in maniera molto meno intensa, durante le fasi agonistiche. Ma l’andatura screziata era pure dovuta alla morfologia stessa delle biciclette. In esse,  infatti, oltre al peso ben maggiore rispetto ai tempi recenti, gravava la poca conoscenza della biomeccanica, sia per quanto riguarda i telai che per la posizione della postura. Inoltre, i rapporti a disposizione erano pochi, decisamente più duri rispetto agli attuali, che diventavano durissimi all’impatto coi fondi stradali di quei tempi. Un insieme di fattori che mettevano davvero il ciclista di fronte ad un inconscio bisogno di difendersi ed arrangiarsi al fine di aggredire la strada, in modo particolare per i corridori sudamericani. Hoyos, fu detto e scritto, pedalava in salita a gambe larghe, un po’ seduto ed un po’ sui pedali, alla Bartali si diceva, ma non era così screziato come qualcuno può intendere. Tra l’altro, a contribuire a fare leggenda sulla pedalata di Ramon, pure la non chiara interpretazione sull’esattezza dell’appellativo che gli fu dato, ovvero “El escarabajo de la montana” (Lo scarabeo di montagna), che qualcuno vorrebbe mal interpretato sulle volontà di chi, in qualche modo, lo coniò: nientemeno che il futuro Nobel per la letteratura, Gabriel Garcia Marquez. Per diversi, infatti, il grande scrittore, allora nei primi anni dell’esperienza giornalistica, voleva intendere saltamontes, ovvero cavalletta, il cui passo è diverso da quello di uno scarabeo, ma, soprattutto, l’intenzione di Garcia Marquez era quella di evidenziare l’efficacia di Hoyos nel superare gli ostacoli dettati dalla montagna. In altre parole, anche questo ha fatto leggenda, perché l’osservatorio di cui Hoyos ha potuto in qualche modo godere, oltre al grande scrittore, si impreziosì di altre figure del mondo dell’arte, come quella, ad esempio, del pittore Fernando Botero. Quel che è certo, a parer mio, è che le pedalate brutte e sgangherate, non fanno tappa su Roman Hoyos. Lo stesso ancor più leggendario Federico Alejandro Martin detto Bahamontes pedalava in modo simile ad Hoyos.
 
Ciao!

P.S. Caro Old, non mi sono dimenticato! 
A presto, ora devo scappare.
 
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#5
(24-05-2018, 10:43 PM)OldGiBi Ha scritto: Ciao Morris, 
mi accodo qui, con la domanda di Paglia, ma su tutt'altri argomenti. 
Hai citato con stima Gianni Clerici (in un altro articolo), io qualche tempo fa avevo accennato a una tua narrazione alla Rino Tommasi (che ho sempre stimato molto), che tra l'altro oltre che di boxe sapeva molto di tennis. 
Mi piacerebbe qualche tua considerazione dall'interno sui grandi del giornalismo sportivo italiano, come i citati, ad esempio. Hai conosciuto Gianni Brera (che di ciclismo capiva il giusto ma era comunque sempre un piacere ascoltare)? 
Ci sono giornalisti sportivi della generazione più recente che stimi in particolare?

Poi una piccola curiosità: l'unico Morris che mi viene in mente è il grande fumettista belga ideatore e disegnatore (magnifico) di Lucky Luke, successivamente realizzato in collaborazione con l'altrettanto grande René Goshinny. Sei un appassionato di fumetti? 

Un carissimo saluto!

Clerici e Tommasi sono davvero due pietre miliari del giornalismo sportivo italiano. Clerici, come pochi in assoluto, ha sempre saputo fare letteratura. Diciamo che il tennis è stato, ed è, per lui,  uno strumento per narrare, approfondire, insegnare. Il tutto dopo aver steso orizzonti di fascino che bloccano nella più piena profondità, l’attenzione dell’ascoltatore o del lettore. Un fenomeno!
Tommasi, ha sempre posto nella precisione e nella sottolineatura, quel distinguo che ti chiarisce definitivamente gli epigoni dell’oggetto e ti esalta l’apprendimento. Statistico per insegnare, col dono di un’esperienza che non si insegna all’università, ovvero il rovescio dello sport da narrare: averlo praticato e, soprattutto, organizzato. Lo si potrebbe definire un “cantore della meccanica razionale applicata allo sport”. E visto che mi hai accostato a lui (te ne sono grato, anche se non lo merito), ti dirò che Rino coniò per Clerici il nomignolo di “Dottor Divago”, esattamente il soprannome che ha accompagnato lungamente la mia vita pubblica, prima nella politica e, poi, nello sport.
 
Gianni Brera non sono riuscito a conoscerlo di persona e mi dispiace tanto, anche se ho vissuto a lungo con la sua presenza a margine di palestre e piste d’atletica, grazie ai riporti di taluni  allenatori ex azzurri di questo sport, che lo avevano conosciuto dal vivo, quando era ancora, pur già famoso, una penna rampante e di riferimento dello sport italiano. L’atletica fu la sua culla, lo sport che ha librato il suo narrare unico, che si dischiudeva spesso in poesia e di atletica imparò presto a capire come pochi. E fu proprio sulle piste, allora di tenninsolite, che Brera affinò ulteriormente il suo naturale strumento di spinta verso i tasti dell’Olivetti, consistente nel porre a cornice del suo pensiero quell’antropologia culturale che, poi, il suo scrivere, trasformava in letteratura e saggi di filosofia pratica. Oggi uno come Brera, in virtù di questo costante approccio antropologico, rischierebbe di passare per razzista, omofobo e chi più ne ha più ne metta, quando, invece, andrebbe studiato al Liceo. È stato un grande, ed io continuerò a sentirmi fiero nel….. preferire, come lui, il calcio d’Argentina e d’Uruguay, piuttosto che il tanto decantato del Brasile….
I tempi di Brera però, erano pieni di grandi firme, di giornalisti narratori e letterati che hanno poco o niente da spartire con la rarefazione odierna. Per un motivo semplice. Allora il giornalista doveva necessariamente raccontare, perché i media erano pochi, estremamente parziali nel raggio di copertura, ed i ritmi della vita non imponevano ancora l’amplesso con la fretta. Il lettore voleva essere coinvolto, perché sovente l’articolo-racconto, era certo informazione, ma pure passatempo. Era un piccolo romanzo, o un film. Il giornalista che sapeva scrivere, poteva così accarezzare margini oggi impensabili, perfino romanzare senza stravolgere l’oggetto. Lo “scriba” del quotidiano o della rivista, rappresentava dunque un prodromo della cultura più generale prima ancora che sportiva, ed era composto da persone con attributi, capaci magari di buttare al macero un’occupazione, o un lauto incarico (con grande stipendio), per fedeltà ad un concetto di libertà prima ancora che di professione. Proprio Brera, da direttore della Gazzetta dello Sport, si dimise perché non accettò che la proprietà del giornale, lo considerasse filocomunista, solo perché aveva fatto benissimo il suo mestiere, inserendo in prima pagina il record mondiale del 5000 metri stabilito dal grandissimo sovietico Vladimir Kuts (tra l’altro un atleta che diverrà epocale). Infine, a completare l’opera di trasformazione (in peggio fino ad una sorta di neoplasia) del giornalista sportivo, la ricerca esasperata dell’effetto, dello scoop, magari spiegato nell’alveo del business. Ed è questo il tino che ha fatto traboccare la cisterna, fino al punto di spingere uno che ha scritto molto come me, ad esprimere fierezza per non aver mai accettato di fare il giornalista come mestiere. 
 
Ora però, vista l’occasione che mi dai, voglio menzionare alcune penne che hanno significato tanto nella mia formazione sportiva e culturale. Si tratta di grandi giornalisti, non così famosi come altri, a testimonianza del valore eccelso della loro generazione e di quanto siano stati fortunati gli over 60 come me. Sono cresciuto nella boxe con gli articoli di Giuseppe Signori, ovvero la penna monumento del pugilato non solo italiano (un po’ meno della vela). Bravo anche il figlio Riccardo, ma il padre scomparso nel 2002, era inarrivabile. Il recente e l’attualità della “noble art” comunque, è ben coperta dalla bravura di Dario Torromeo, Flavio Dell’Amore e Vittorio Parisi (che di professione è un direttore d’orchestra). Nell’atletica, voglio menzionare il monumento Dante Merlo, che ha significato tanto nella mia fanciullezza e il di questi figlio Gianni, classe 1947, prima firma d’atletica alla Gazzetta dello Sport, nonché Presidente dell’Associazione Internazionale della Stampa Sportiva. Nel tennis, ai celeberrimi Tommasi e Clerici vorrei aggiungere Ubaldo Scanagatta che è un bravissimo giornalista, perfettamente sulla breccia. Negli sport invernali, sciistici in particolare, devo molto a Rolly Marchi. Con stupore di qualcuno  e poi l’intera redazione dell’Unità anni ’60 -’70, giornale che era sì l’organo del Partito Comunista Italiano, ma aveva dei giornalisti sportivi di valore assoluto, degni ed in qualche caso pure superiori, alle testate sportive. Al già menzionato Giuseppe Signori, voglio aggiungere Bruno Panzera, Remo Musumeci, e quell’Attilio Camoriano che ha trasmesso sulle mie orbite l’idioma che ha fatto del ciclismo un protagonista della mia vita. Morì presto Attilio, e chi lo sostituì, Gino Sala, pur non valendolo, seppe divenire ugualmente un’icona del giornalismo di questo sport. Nel calcio sono cresciuto a pane e Alfeo Biagi, grande firma di Stadio, testata che è stato un delitto per la cultura sportiva degli italiani farla confluire nel perennemente deludente Corriere dello Sport. Ed io, interista, sono ancora qui a ripensare quanto fosse bravo, illuminato e preciso, il rossoblu Biagi, nei commenti sull’Inter. Arrivando compiutamente all’oggi, oltre a taluni di settore già menzionati, ci sono due nomi che stimo più di tutti: Gianni Mura e Marco Pastonesi. I motivi sono evidenti.
 
Perché Morris?
Non c’entrano i fumetti di cui son sempre stato poco appassionato, ma c’è una storia che si lega alla mia prima ragazza, che era ….statunitense.   
Frances, così si chiamava, mi disse che per lei ero e sarei sempre stato Morris. Quando le chiesi il perché, mi rispose che era il nome che mi rappresentava, perché l’aveva sognato ancor prima che io arrivassi col mio nome molto simile. Un giorno, mi fece promettere che il primo romanzo e la prima raccolta di poesie, le avrei dovute firmare Morris. E Morris l’ho usato sui libri ….anche se non per romanzi. 

Ciao!
 
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#6
Due risposte che sono a loro volta due magnifici articoli! Grazie!  Applausi

Di narrazione c'è bisogno. Non è un caso se i libri soffrono meno dei giornali e mantengono uno spazio che difficilmente sarà eroso dalla televisione o da internet. Isaac Asimov descrisse l'ipotetico audiovisivo perfetto, interattivo al punto da commisurarsi all'utente, fino a far comprendere che questo descriveva un libro! 

E c'è bisogno di memoria. Internet è effimera, articoli e immagini sono in balia di banchi memoria che si modificano, cancellano ciecamente, raramente un link di alcuni anni prima conduce ancora a quel testo e/o a quelle immagini. 

Gli uomini e le donne che hanno dato vita alla prestazione sportiva non possono essere solo figurine, immagini di quell'istante. Raccontando si passa dalla singola immagine alla dimensione di un film, alla dinamicità del racconto, appunto, restituendo spessore. Ed è qualcosa che la gente desidera, fermarsi ad ascoltare, e se non sa di desiderarlo scopre presto questo bisogno di fronte ad una bella narrazione. 
Spazio per i libri e, forse, per un settimanale (o mensile) sportivo che faccia della narrazione e della buona lettura la sua vocazione. 

Grazie ancora.
 
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#7
Caro Old, sono io che ti voglio ringraziare!
Hai visto magnifiche le due risposte, scritte senza rileggere nulla e col computer che faceva le bizze. E poi hai messo su tela un dipinto sulla narrazione. Ovviamente ti condivido fraternamente, ma ho il timore che in noi giochi lo slancio dettato da quella età, che avendo vissuto l’incenso, porta naturalmente verso l’ottimismo. Comunque, c’è sempre quello della volontà….. Occhiolino
 
Un abbraccio!
 
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