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Mondializzazione del ciclismo? Qualcuno non conosce la storia e ci vuole fessi.
#1
…..Anche allo scopo di rendere ancor più peculiare il meraviglioso lavoro proposto da Pagliarini sul percorso ciclistico antecedente la seconda guerra mondiale..... 
 
Mondializzazione del ciclismo? Qualcuno non conosce la storia e ci vuole fessi.
Dalla introduzione del mio libro “Le corse dimenticate”, edito nel 2012, un tema sul quale l’osservatorio ciclistico, anziché capire evoluzioni ed insegnamenti della storia di questo sport, contribuisce nell’oggi a rendere sempre più povera questa disciplina in completa balia del contorto (eufemismo) governo di Aigle. Il motto è “mondializzazione” ma è un falso storico. Nelle righe che seguiranno, al fine di una lettura più attuale, al nome di Pat Mc Quaid, va aggiunto anche quello di Brian Cookson, non certo migliore del penoso predecessore ai vertici UCI. 

Come in ogni campo dell’azione umana, oggi giungono alle nostre orecchie, parole come “mondializzazione” e “globalizzazione”, in nome delle quali, a volte se non spesso, si vogliono giustificare opinabili scelte, o, peggio ancora, quel solito trend che porta, al netto dei fronzoli d’ipocrisia, uno dei più vecchi segni-distinguo dell’essere umano: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tranquilli, questo non è un testo politico, ma lo sport, ed in questo caso il ciclismo, non vivono sulla Luna e, come tutti gli orizzonti delle nostre azioni, non si possono isolare completamente. Nel pedale la “mondializzazione” è un verbo più che un termine, usato costantemente dal governo UCI di Aigle, ove il ciclismo appare sovente lo strumento-fantoccio di chi la sovrintende per propri scopi, che, si spera, cancellino l’apparenza poco nobile. È la giustificazione per raccogliere copiosi quattrini dalle provenienze geografiche più varie, ma sempre cospicui nei numeri, ove poter dire che lo sport del pedale cresce, si evolve, diventa moderno. Ma è un fenomeno che corre il rischio tangibile di spegnersi, in quanto privo di una base sinceramente voluta e, soprattutto, congiungente filoni realmente antropologici, là dove viene proposto. Resta il fatto che i numeri agonistici nel mondo sono più risicati, anche se maggiormente distribuiti. Morale: meno eurocentrismo, ma più povertà complessiva sui movimenti reali, soprattutto in termini di qualità. Gli amatori, cari signori, con l’agonismo che conta, sono pari a zero.
La mondializzazione poi, non è stata aperta da Hein Verbruggen (comunque dirigente coi suoi valori) e proseguita, nonché cementata, dal pessimo Pat Mc Quaid, con colpi di imperiosità ed interessi dubbi, sui quali, prima o poi, qualcuno dovrà mettere le mani, ma è sempre esistita nella ricerca dell’UCI. Sono cambiati solo i metodi e le pubblicità conseguenti, spesso confondenti per business, o interessi politici di qualcuno, a danno del ciclismo. È codesta la vera novità. Confrontare un Rodoni, un Puig, ad un Mc Quaid, è un insulto, perlomeno per chi ancora vuole vedere uno sport credibile, pur tenendo conto del cambio dei tempi, delle economie conseguenti e delle crisi più generali. Alla luce di tutto questo, perché parlare di mondializzazione odierna, quando a fondare, nel 1894, il primo embrione di un’organizzazione internazione ciclistica c’era il Canada (e non c’era l’Italia…), o l’UCI, nell’aprile del 1900, c’era la Federazione ciclistica degli Stati Uniti, al pari delle consorelle di Francia, Belgio, Italia e Svizzera? Che senso ha mettere l’Australia nel ciclismo delle frontiere allargate, quando nel 1895, già si correva la Melbourne–Warrnambool con 50 partenti, su avventurosi 250 chilometri? 
E Nino Borsari, Olimpionico italiano nel 1932, modenese, rimasto a Melbourne dopo aver corso su quelle strade e su quelle piste, impiantandovi un supermercato della bicicletta e non solo, di dimensioni anche superiori a quelli d’Europa, cos’era? Uno che amava fare le cattedrali nel deserto? Che senso ha dimenticare che un Tour del Marocco o d’Algeria, destinava per lustri, ai vincitori, una notorietà tecnicamente superiore a quella solo d’effetto mediatico dell’odierno Qatar?
E il Giro d’Argentina di 18 giorni, col meglio del ciclismo mondiale di fine novembre, inizio dicembre, cos’era? O le gare nell’odierna terra del Burkina Faso, dove un certo Coppi, trovò le zanzare di quella malaria che lo portò alla morte, cos’erano? E quelle in Nuova Caledonia, dove Tommy Simpson subì un’avvisaglia naturale di quel naturale che lo portò a morire sul Ventoux (altro che doping!), facendo crepare di paura il numero uno del mondo Jacques Anquetil e il “Treno di Forlì” Ercole Baldini, cos’erano? E le migliaia di professionisti del keirin, che il Giappone esibiva negli anni ’80, cos’erano? Oppure ancora, cosa c’erano sulle strade degli States, prima di chi vinse, nel modo che ogni persona dotata di un grammo d’intelligenza sapeva, sette Maglie Gialle? Dove si consumarono le oltre centocinquanta vittorie di Roberto Giaggioli? Che gare erano queste? Incontri a rubamazzo, o corse in bicicletta con un centinaio di partenti cadauna? Certo, alcuni partenti erano davvero professionisti, mentre gli altri semplici carneadi eletti a rango di spessore, per la libera espressione e autonomia che una federazione nazionale, sempre, deve avere sul proprio territorio. Eppure c’erano team, precedenti o contemporanei alla Motorola, come la Gianni Motta-Linea, la stessa Mengoni, la Xerox-Philadelphia Lasers, la 7-Eleven, l’Eurocar-Vetta-Galli, la Saturn, la Coors Light, la Guiltless Gourmet, la Chevrolet, la Mercury e tanti altri, certo di carattere quasi sempre nazionale, ma c’era un movimento notevole per quantità e soldi (questi sodalizi pagavano, eccome se pagavano, anche se duravano mediamente poco). Tutta roba precedente, ripeto, l’acuto dell’invenzione, Armstrong ovviamente compreso, per la quale l’UCI si sente progenitrice. Semmai erano frutti dell’effetto Lemond, ed in parte Hampsten, e dove l’Amgen, l’azienda produttrice dell’Epo, operava eccome, ma solo in vendita e non in sponsorizzazione.
E quel Canada che oggi presenta, extra Europa, le gare tecnicamente migliori e col pubblico più folto ed attento, è forse una scoperta di Mc Quaid? Ci si dimentica del mondiale ’74 e di quel lavoro precedente che i successi dell’abruzzese Vincenzo Meco nella Classica del Quebec, nonché i buoni comportamenti del lombardo Giuseppe Marinoni, intensificarono. Guarda caso due che sono rimasti là, ed han fatto fortuna. Uno, Marinoni, addirittura come illuminato costruttore di biciclette. Da chi è nato Steve Bauer, il canadese per ora più forte del romanzo ciclistico (Hesjedal compreso), se non da loro? E Gordon Singleton è figlio di Mc Quaid? 
Potrei scrivere ore e ore su tanti altri passaggi storici attraversanti tutti i continenti, quando ancora Verbruggen e McQuaid erano piccini, o nei sogni dei nonni, più che genitori. Forse lo farò con un testo specifico se avrò vita a campare. Quel che mi preme qui sottolineare, è che ogni paese, come è giusto sia, ha una sua via antropologica per giungere al ciclismo e viverlo compiutamente. Questo sport, potrebbe anche rimanere per sempre nel limbo del paese “x” o “y”, perbacco! Non si esporta ed importa, o s’impone nulla, coi colpi di danaro, o spennando il danaroso autoctono di turno, o lo Stato di turno. S’è forse portato ad un certo rango il calcio negli States, dopo il ’94? S’è forse giganteggiato il rugby in Italia, dopo l’ingresso nel 6 Nazioni? L’avere oggi ciclisti norvegesi di grande spessore, è forse dovuto al mondiale di Oslo nel ’93? E Knut Knudsen cos’era, un belga? E tutto l’ex impero sovietico, oggi frantumato in tante nazioni, ha scoperto il ciclismo per la supposta mondializzazione, o perché, dopotutto, un tempo su quelle zone operava la FIAC che coinvolgeva 127 paesi? Chi ha portato i germogli di pedale in Astanà? Mc Quaid, o gli echi mondiali ed olimpici, di un Pikkuus, un Kopilov, un Logvin o un Soukhoroutchenkov?
Al ciclismo, il Qatar concederà soldi per un po’, costruirà colline distruggendo la natura del luogo per farvi il mondiale per lo stomaco affamato di Aigle, perlomeno lo farà fino a quando qualche sceicco vorrà togliersi sfizio, ma non aggiungerà nulla al ciclismo. Perché là, la spinta del pubblico, della passione e della semplice curiosità, non c’è. E, tanto meno, è logico pensare ad una fata che trasforma con la bacchetta magica le lucertole ed i ragni, oggi unici reali spettatori delle pedalate monocordi di quelle gare, così fortemente intinte del falso messaggio dell’UCI.
Paradossalmente questi concetti, che in realtà sono solo semplici fotografie, sono allargabili alla stessa geografia di un singolo paese. È inevitabile quanto anche nelle nazioni storiche del ciclismo, questo sport abbia intessuto realtà diverse da zona a zona, fino a lasciare macchie bianche, che si sono prodotte dopo lampi iniziali, spesso per una serie di motivi dovuti, tanto a pecche delle federazioni nazionali, quanto a segni di malgoverno politico, oppure frutto di quella autoctona volontà antropologica, di cui facevo riferimento sopra, che va accettata e rispettata. L’Italia è stereotipo in questo. La sua storia ciclistica, marca quella più complessiva del paese, con un meridione lasciato sportivamente all’abbandono, in sincronia con ciò che si manifestava e cementava politicamente. Un mezzogiorno non nato insensibile alla bicicletta, anzi, ma divenuto marginale al movimento ciclistico assai più rispetto ad altri sport. Abbastanza per far riflettere e far capire che il governo ciclistico italiano, ci ha messo assai del suo, nell’orizzonte più generale non solo delle discipline sportive, ma dell’intero tessuto sociale ed economico del sud nel nostro Paese.
Questo lavoro si muoverà interamente sull’Italia, ed è, conseguentemente ed involontariamente feroce, perché il lettore potrà capire senza miei commenti, quanto fossero assai più vicine le realtà ciclistiche del nord e del sud nei primi anni del ciclismo e quanto, in un’era come quella odierna, dove si parla a sproposito, facendosi fettine della storia, di mondializzazione, gli italiani debbano invece fare i conti con l’italianizzazione che c’è stata e che non c’è più. Parimenti, si scoprirà quanto abbiano pesato i giornali sulla cementazione del ciclismo, divenendo, in tante occasioni, i principali fautori dell’organizzazione delle gare e della propaganda che si legava ad esse. 
Nel crollo di talune corse, ci sta il disimpegno progressivo di tante-troppe testate. Codeste, hanno aiutato l’ascesa dello sport della bicicletta, poi, quando la disciplina del pedale era da anni la più popolare, han dovuto fare i conti con la sua fama. Un coinvolgimento che è pure vissuto su contraddizioni e che non ha toccato solo le testate sportive, ma tutte, persino quelle che erano organi di partiti politici. L’impegno, sempre maggiore, degli industriali e dei potenti dell’economia verso il calcio, ha segnato un primo passo di minori attenzioni verso il pedale, fino a giungere, negli anni sessanta, a stabilire dapprima un pareggio e poi il sorpasso del calcio sul ciclismo. Ed i giornali, che in questo paese sono stati parte decisiva nella poca cultura sportiva degli italiani, sono poi divenuti, per interessi che non è difficile intuire e riconoscere, affossatori del pedale, trattandolo sempre meno, fino a prendere come pomo di giustificazione, l’equazione di ciclismo uguale a doping, creata ad hoc per concentrare su una disciplina, il coinvolgimento di tutte su quel problema. Un grosso motivo in più per spingere, in Italia, questo sport nella crisi enorme che sta vivendo, che si può toccare nella sparizione di tante corse professionistiche, ed in un calo del numero dei corridori “veri”, con percentuali da esodo. In questo contesto, è da vedersi come ininfluente, ripeto e sottolineo, l’esplosione delle consistenze degli amatori, che non sono corridori “agonisticamente” tangibili e che, a loro volta, portano via risorse ed attenzioni a quei giovani, sempre meno, che vorrebbero correre. Il tutto nella più piena incapacità della FCI di dare un senso alla propria esistenza, a parte la partecipazione dei dirigenti alle conviviali….soprattutto delle società amatoriali.
Le corse per professionisti, protagoniste catalizzatrici dell’essenza degli atleti, sono dunque sempre più rare al nord e quasi del tutto sparite al sud, ed a poco valgono le internazionalizzazioni, vere o presunte, vantate dalla idrovora UCI, verso la quale, la Federazione Italiana è genuflessa, aldilà di ogni limite, definito con un tangibile eufemismo, “istituzionale”. Un libro, sulle manifestazioni ciclistiche che, di fatto, non ci sono più nel nostro Paese e che volesse essere totalmente sincronico alle letture odierne, dovrebbe trattarne a decine. Qui ho fatto la scelta delle più lontane, sepolte col cemento e dimenticate, limitando il segmento temporale a tutto il periodo dove il ciclismo era il primo sport nazionale, ovvero fino a circa metà degli anni sessanta. Ne seguirà un lavoro con tanti resoconti o materiali inediti, che piaceranno poco agli amanti del pedale dell’attualità, con tutto quel che c’è e che non ho trattato nemmeno a mo’ di eco sopra, ovvero al ciclismo delle “periodizzazioni” e delle specializzazioni esasperate, dei dottori come unici preparatori, della genuflessione e relativo masochismo degli atleti, dei dirigenti più scarsi fra quelli sportivi ecc. Piacerà, forse, a coloro che vogliono capire, o che amano, magari solo per curiosità, la storia che ci sta alle spalle. E che fra ordini d’arrivo intinti di corridori che per taluni non diranno nulla o sono fossili, vi siano degli zoom su di loro, rappresenta per me la coerenza con ciò che mi muove da sempre: sono gli atleti la quintessenza dello sport. Ed è bene lo capiscano, i dirigenti, ed i loro spesso siamesi lacchè, che sono, purtroppo, troppi giornalisti. Magari, qualche lettore avrà modo di provare delusione non trovando degli zoom su taluni corridori, ma il motivo sta solo nell’aver scritto “sui qui dimenticati” su altre opere, e non ho ritenuto riportarli anche in questo libro. Ma sono casi molti limitati.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
(18-10-2018, 04:22 PM)Morris Ha scritto: [...]Nel pedale la “mondializzazione” è un verbo più che un termine, usato costantemente dal governo UCI di Aigle, ove il ciclismo appare sovente lo strumento-fantoccio di chi la sovrintende per propri scopi, che, si spera, cancellino l’apparenza poco nobile. È la giustificazione per raccogliere copiosi quattrini dalle provenienze geografiche più varie, ma sempre cospicui nei numeri, ove poter dire che lo sport del pedale cresce, si evolve, diventa moderno. Ma è un fenomeno che corre il rischio tangibile di spegnersi, in quanto privo di una base sinceramente voluta e, soprattutto, congiungente filoni realmente antropologici, là dove viene proposto. Resta il fatto che i numeri agonistici nel mondo sono più risicati, anche se maggiormente distribuiti. Morale: meno eurocentrismo, ma più povertà complessiva sui movimenti reali, soprattutto in termini di qualità. Gli amatori, cari signori, con l’agonismo che conta, sono pari a zero.
[...]
Al ciclismo, il Qatar concederà soldi per un po’, costruirà colline distruggendo la natura del luogo per farvi il mondiale per lo stomaco affamato di Aigle, perlomeno lo farà fino a quando qualche sceicco vorrà togliersi sfizio, ma non aggiungerà nulla al ciclismo. Perché là, la spinta del pubblico, della passione e della semplice curiosità, non c’è. E, tanto meno, è logico pensare ad una fata che trasforma con la bacchetta magica le lucertole ed i ragni, oggi unici reali spettatori delle pedalate monocordi di quelle gare, così fortemente intinte del falso messaggio dell’UCI.

Secondo me questo è il punto centrale e questo tuo stralcio di messaggio andrebbe appeso a caratteri cubitali nell'ufficio di chi dirige l'UCI e di chi lo dirigerà.
Il ciclismo è uno sport che vive di tradizione, senza quella perde quel quid che lo differenzia dagli altri sport e fa solo risaltare i tanti difetti di cui purtroppo è pieno. Ma tralasciando questo aspetto che alcuni potrebbero definire inutilmente sentimentale, scaricare soldi a pioggia su dei movimenti inesistenti è dannoso anche dal punto di vista economico.
Creare dei giganti economici dai piedi d'argilla (cioè senza passione alla base) non ha nessun senso ed è anzi controproducente. Sia perchè prima o poi tutti i rubinetti (o meglio i pozzi di petrolio) si chiudono sia perchè, per fare queste operazioni, abbandoni il ciclismo storico, quello che ti ha portato avanti fino adesso.

Io sono a favore della globalizzazione ma fatta con un certo raziocinio. Con grande lungimiranza avevi evidenziato nel 2012 il "paradosso Qatar" e infatti si è realizzato tutto quello che avevi predetto. E' servito solo a fare propaganda per ottenere un Campionato del Mondo e per arricchire alcuni organizzatori e alcuni politici sportivi.
E chi scrive era un fan (uno dei pochi) di una corsa come il Giro del Qatar, la trovavo godibile come spettacolo televisivo, ma a conti fatti è stata un'esperienza risibile, che per il bene del ciclismo poteva benissimo essere evitata.

Per quanto riguarda la situazione italiana io sto invece in una posizione un po' più intermedia. Sicuramente negli  anni le colpe di UCI e FCI ci sono sommate e sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare a come è stato gestito quest'anno il campionato tricolore a cronometro, una situazione assurda, nemmeno da terzo mondo (e questa mia frase è offensiva per il terzo mondo, dove i campionati di ciclismo si disputano con regolarità).
Però trovo ci siano anche delle situazioni contingenti, l'Italia ha vissuto (e purtroppo sta continuando a vivere) un un'epoca non facilissima e i mancati investimenti nel ciclismo non sono dovuti solamente al fatto che ad oggi il ciclismo è poco attrattivo per gli sponsor, ma anche perchè banalmente di soldi ne girano pochi. Dispiace a tutti che nel nostro Paese si siano perse tantissime corse storiche però con la situazione attuale (sempre meno ciclisti italiani sia a livello giovanile sia a livello professionistico, ZERO squadre italiane nel World Tour) secondo me era quasi impossibile avere tutta quel fiorire di corse che c'erano negli anni '90/inizio 2000...
 
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#3
Sono un nuovo iscritto al forum.
Morris e Luciano Pagliarini propongono come al solito documenti importanti che aiutano la riflessione su cosa è diventato il mondo del ciclismo.
In questo recente lavoro Morris parla di come è avvenuto l'avvicendamento fra ciclismo e calcio nelle principali testate giornalistiche.
Come lui dice la supremazia del calcio è stata perlomeno 'agevolata' da interessi economici che hanno portato gli imprenditori ad investire di più nel mondo del calcio, forse più redditizio. Possiamo quindi parlare di interessi che hanno ' coinvogliato' la passione popolare in quella direzione?
A volte, prendendo ad esempio ( cattivo esempio) il mondo del calcio, rifletto su come i giornali abbiano lavorato affinché la storia fosse riscritta, o meglio dimenticata. Cioè, si tende a considerare il calcio solo degli ultimi anni, obliando ciò che era prima degli anni 90.
Credo che con la mondializzazione l'UCI voglia percorrere la medesima assurda strada, cancellare la storia del ciclismo, fare sembrare che tutto ciò che era prima di un certo momento era un'altra cosa. I giovani non conoscono il percorso storico del ciclismo e non se ne curano, mentre per me il maggior fascino di questo sport è proprio nella memoria, nella storicizzazione delle gesta e dei protagonisti.
Vorrei poi fare una domanda a voi esperti e appassionati.
Leggendo l'articolo di Morris con la storia delle corse extra Europa mi sono ricordato che a Santiago de Cuba, sulla montagna della Gran Piedra vi è una foto ed un piccolo monumento dedicato a Fausto Coppi.
Non avevo mai approdito la cosa, però sono curioso di sapere se c'è qualche testimonianza di kermesse che l'Airone corse a Cuba e in quale anno.
Grazie a tutti, volevo, se possibile, chiedere a Morris dove posso trovare i suoi libri da acquistare. In alcuni siti sono dati per esauriti.
 
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#4
(04-12-2018, 07:06 PM)Giorgio Ricci Ha scritto: Leggendo l'articolo di Morris con la storia delle corse extra Europa mi sono ricordato che a Santiago de Cuba, sulla montagna della Gran Piedra vi è una foto ed un piccolo monumento dedicato  a Fausto Coppi.
Non avevo mai approdito la cosa, però sono curioso di sapere se c'è qualche testimonianza di kermesse che l'Airone corse a Cuba e in quale anno.
Grazie a tutti, volevo, se possibile, chiedere a Morris dove posso trovare i suoi libri da acquistare. In alcuni  siti sono dati per esauriti.

Ciao Giorgio, una kermesse in Cuba, con Coppi presente non la ricordo. Tra l’altro i riporti  su circuiti, gare tipo pista, kermesse, criterium e gare dietro derny, nelle “enciclopedie” (Memoire du Cyclisme, Museociclismo, il Sito del ciclismo), che raccolgono i contributi di tanti appassionati e ricercatori (anch’io, nel mio piccolo), su questo settore sono ancora molto mancanti. Ad esempio, quanto scrissi nel libro su Baldini a proposito delle gare in Nuova Caledonia nei primi anni sessanta, rappresentava una “prima”, che poi non è stata approfondita. E di questo tipo di riporti, ne mancano tanti in Europa, figuriamoci in giro per il mondo. Comunque, tornando all’oggetto, se Coppi partecipò ad una corsa in Cuba, questa si tenne nel 1955, o prima, specie nel 1952, ovvero l’anno in cui nel continente americano si tenne il primo Giro d’Argentina. Penso invece che l’opera dell’artista cubano Roberto Trenard Castellanos, risalente al 1998, sia un segno dell’immortalità del mito di Coppi e che poi sia stata collocata sulla salita della Gran Piedra, era naturale, vista la popolarità di quell’erta per il ciclismo dell’isola. 

In quanto ai miei libri, purtroppo, sono tutti esauriti da tempo. Restano solo le copie dell’archivio. Graffiti “1”, a mio giudizio il volume migliore, ma ben poco ciclistico (ritratto del solo Roger Riviere), lo potrai leggere…. :) su queste pagine.
 
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#5
Grazie. É un piacere ricevere informazioni così precise. Spero di leggerti spesso su queste pagine.
 
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#6
Riporto su questo thread, affinché qualcuno che viene a leggere e mi conosce da tempo, capisca quanto il fesso (a cui fa riferimento il titolo), sia in primis proprio il sottoscritto, visto che ha scritto per anni e svolto iniziative pubbliche sullo sport ed il ciclismo in particolare, senza riuscire a far capire a qualche pseudo luminare i contenuti qui sopra. Stamattina, una brava persona, con un pizzico di cattiveria, mi ha inviato una mail dove mi conferma quanto nel luogo dove l’idiota Morris ha postato per quasi tre lustri, non si conosca una cippa di quella FIAC che organizzava 127 paesi. Quindi, globalizzazione e mondializzazione, non sono creature di quei dirigenti recenti ed attuali che hanno seviziato il ciclismo…..Tronco perché mi viene il voltastomaco.
 
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#7
Morris non avevo letto il tuo pezzo (ovviamente condivido tutto quello che hai scritto)
In altri lidi , son mesi che cerco di dire la stessa cosa
in colombia , negli anni 80 c'era lo stesso seguito di adesso
le stesse gare , lo stesso entusiasmo
c'era piu' interesse negli usa adesso o 30 anni fa ?
io dico negli anni 80
la coors classic valeva molto di piu' del giro di california attuale
paesi dell'est ?
nella ddr lo sportivo dell'anno era quasi sempre un ciclista
dove prima avevano un bacino illimitato adesso han 70 juniores
idem polonia , russia ecc
 
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#8
Mamma mia che robe tocca leggere.

"L'ENORME SVILUPPO CHE HA AVUTO IL CICLISMO FUORI DAI SUOI CONFINI TRADIZIONALI"

Ma dove, di grazia? Asd

In Svezia a cavallo tra gli anni '70 e '80 avevano 3 uomini da podio nei grandi giri e una gara di assoluto livello come il PostGirot Open. Oggi? Niente.

Il Brasile oggi ha corridori del livello di Ribeiro, Cassio Freitas e Pagliarini?

L'Europa dell'est sta vivendo il suo periodo peggiore. Guardare che corridori avevano nei 90s e che corridori hanno oggi.

Tonkov, Abdu, Ugrumov, Tchmil, Berzin contro? Zakarin e Lutsenko? Asd

Gli USA toccano il loro apice di interesse nel ciclismo negli 80s, verissimo.
 
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#9
concordo ovviamente con te
 
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#10
Ma al di là dei contenuti inesistenti dell'altra fazione, ciò che dà fastidio sono i modi con cui si rivolgono a gente che porta dati e argomenti come Fabio e il buon Slegar (se legge sappia che lo invito qua).

Quando non sono d'accordo con Fabio, e succede spesso su certi argomenti, mica vado a dargli del terrapiattista.

Certi personaggi oltre che ignoranti sono pure boriosi.

Ciò detto, possiamo chiudere qua la faida. Non mi va di sparare sulla croce rossa.
 
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#11
Continuando nella discussione centrale del topic, che è interessantissima, negli anni '50, al Tour, abbiamo vincitori di tappa africani e britannici, il primo portoghese in top-10 e il primo austriaco sul podio.

E il Tour, ad ogni modo, era "globale" già da decenni.
 
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#12
Esattamente

la vuelta a colombia e' del 1951
il clasico rcn del 1961
la vuelta a la juventud , che è la vuelta u23 , dal 1968

per aver i colombiani al tour 1984
lo fecero open
herrera e co non erano professionisti
 
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#13
Il concetto di "globalizzazione" lo si è sdoganato dai tempi di Armstrong. Come avete detto voi è un concetto antistorico, ma fa comodo parlarne perchè ora gli Anglosassoni si sentono fautori di questo ciclismo degli anni 10 del nuovo millennio e vogliono prendere le distanze dal vecchio ciclismo europacentrico.
 
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#14
Peraltro già Coppi e Koblet andarono a fare delle gare in Colombia.
 
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#15
giro di turingia 1976 - 2013
coca cola trophy 1979 - 2000
hofbrau 1988 - 2000
assia 1982 - 2007
bassa sassonia 1977 - 2007
palatinato 1966 - 2007
mainfranken tour 1909 - 2010
regio tour 1985 - 2012
giro della ddr 1949 - 1990
sassonia 1985 - 2009
berlino 1953 - 2016
baviera 1989 - 2015

son tutte corse a tappe di piu' di 4 gg che si svolgevano in germania
professionistiche , tranne il giro della ddr , negli anni 90
han tutte chiuso
non son state sostituite da nessuna corsa a tappe nuova
il ciclismo tedesco stava meglio negli anni 80-90 o ora ?
 
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#16
Non credo che sia errato dire che uno dei periodi di maggior splendore del ciclismo tedesco sia....la seconda metà degli anni '20 e l'inizio degli anni '30.

Gaetano Belloni andò a correre in Germania in quegli anni.

Il Giro di Colonia lo vinsero Suter, Belloni e Binda.

E la generazione di corridori teutonici di quegli anni se non la migliore nella storia del ciclismo tedesco poco ci manca.

Un po' di nomi: Kurt Stopel, Ludwig Geyer, Erich Metze, Hermann Buse, Emil Kijewski, Oskar Thierbach, Otto Weckerling, Erich Bautz, Karl Altenburger, Adolf Schön, Oskar Tietz, Herbert Sieronski, Herbert Nebe, Bruno Wolke, Felix Manthey, Rudolf Wolke, Georg Ubenhauer, Heinz Wengler, Erich Ussat, Gerhard Esser.

Questa era gente che si giocava grandi classiche e mondiali. E Stopel arrivò sul podio al Tour. Oggi quanti corridori in grado di fare podio al Tour ha la Germania? E quanti sono in grado di giocarsi le grandi classiche? Giusto Politt, Schachmann e Degenkolb.

Qua sopra c'è una Liegi, svariati podi mondiali, un podio alla Roubaix, uno alla Parigi-Tours, uno alla Parigi Bruxelles e svariati a Zurigo. E, poi, top-10 al Tour, al Giro, alla Sanremo, alla Liegi e via dicendo.
 
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