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Obdulio Varela: ermeneutica dello sport.
#1
Nella storia del calcio, una data fondamentale fu il sedici luglio  1950, giorno della finale di Coppa Rimet nell’immenso Maracanà, fra il Brasile e l’Uruguay.
Contro tutte le aspettative di un popolo e dell’osservatorio mondiale, vinsero i celesti per due a uno. Per settanta milioni di brasiliani, fu come vivere una tragedia dalle dimensioni immani.
Tanto s’è detto su quella partita: del lutto di un paese intero, di duecentomila persone che sfilarono silenziose e piangenti, di tanti altri, fuori, che si tolsero la vita, o si lasciarono andare alla disperazione. Una tenda di lutto sull’intero Brasile, una ferita che mai s’è rimarginata completamente. Dall’altra parte un gruppo di uruguaiani che vissero la propria gioia in silenzio per rispetto, perché così voleva un uomo, il capitano dei vincitori, tanto gladiatore in campo, quanto buono, comprensivo e ligio di valori fuori. Uno che passò l’intera notte seguente quella partita, nei bar e nelle vie di Rio de Janeiro a piangere e consolare quella gente che aveva reso così. Uno che non smise mai di dire, negli anni che seguirono, quanto fosse stata una vittoria da evitare, perché non era possibile che un popolo si riducesse ad una simile disperazione. Lui, quell’uomo armadio, grande e grosso, privo della benché minima paura, l’anima di quella squadra celeste che s’era laureata campione del mondo, in casa del più grande paese calcistico esistente, era Obdulio Varela, il capitano, come detto. Un nero, o “negro”, come non gli importava lo chiamassero. Uno dai piedi non vellutati, ma pur sempre un gran giocatore, in possesso di qualità di leader come mai nessuno nella storia del calcio. Un capitano allenatore, fratello maggiore, riferimento di un gruppo di talenti, espressione di un paese come l’Uruguay, piccolo di territorio e di popolazione, un solo settantesimo di quel popolo che avevano fatto cadere nel pianto e nello sconforto. Lui, Obdulio, grande e grosso con forza erculea, ed una mente tutt’altro che priva di grandi espressioni intellettive, un leader a tutto angolo, un trascinatore tanto temuto, quanto ammirato. Così stimato da non trovare mai avversari o tifosi, pronti ad infierire con le armi tipiche della vendetta o della cattiveria. E non poteva essere altrimenti, perché il suo passaggio lasciava una scia di fascino, una sottile presenza di un condensato di sentimenti, un’ombra che poteva incutere non già paura fisica, ma il disagio, a volte soffocante, della certezza di non essere a posto con la propria coscienza. Certo, perché Obdulio ti leggeva dentro e sapeva se recitavi, o eri te stesso. Sapeva trovare gli antidoti per distruggerti le velleità, o per spronarti fino ai confini massimi della mente. Nel suo genere è stato unico, ed in quella partita così particolare, fu artefice di un capolavoro tanto sui suoi compagni, quanto sugli avversari. Un leader come nessuno, Pelè, Maradona, Di Stefano, Platini, Falcao ecc. tanto osannati dai distratti o smemorati, giornalisti, compresi. Ma di quella partita, di quella guerra psicofisica, resta una scultura, proprio nelle parole di colui che guidò, come un condottiero, i celesti uruguagi ad un trionfo totalmente inaspettato. È proprio lui, Obdulio Varala, il più grande leader della storia del calcio che racconta. Quello che potremo leggere, rappresenta uno spaccato finito nei libri, fino al museo storico dell’Uruguay, al pari dei suoi cimeli, di quelle scarpette e di quei lacci che, come vedremo, il “Capitano” guardò a lungo alla fine della partita, per capire se era un sogno o una realtà. Il pathos di questo riporto è qualcosa di unico, una pietra miliare dello sport e della psicologia dell’atleta. Leggerla oggi, a quasi settanta anni di distanza dall’evento oggetto del raccontare, dimostra come gli anni non possano cancellare le essenze di quei centri nervosi, che hanno un peso sempre determinante nelle prestazioni sportive. Un quadro luminoso sulla speleologia di un fatto, con le fulgide tinte di un uomo che sapeva come leggere ciò che si muoveva attorno a lui. Per una squadra di calcio, un leader così profondo, rende l’allenatore inutile. Per un operatore di sport, questo ricordo, rappresenta un vocabolario insostituibile.
 
Obdulio racconta il 16 luglio 1950
Io ho sempre preteso il rispetto da parte dei miei avversari, perché sono stato sempre il primo a rispettare loro. E la prima forma di rispetto, la più importante, è non avere paura di loro. Sì, ne sono fermamente convinto: se hai paura del tuo avversario gli manchi di rispetto. Ecco perché io, Obdulio Varela, capitano della nazionale dell’Uruguay che sta disputando la finale dei mondiali contro il Brasile, qui al Maracanà, sto facendo quello che sto facendo. E’ cominciato da poco il secondo tempo, e il Brasile ha appena segnato. Più che in uno stadio mi sembra di stare in una bolgia. E allora con la massima calma vado in fondo alla nostra porta, urlo a Maspoli, il nostro portiere, di alzarsi, prendo il pallone, e con la massima lentezza vado a centro campo. Per la prima volta da quando è cominciata la partita guardo il pubblico. Ai miei compagni avevo detto di non guardare sugli spalti, che la partita si giocava qui, sul prato, ma adesso è giunto il momento. Mentre avanzo lentissimo guardo il pubblico, potrei dire che li sfido, spettatore per spettatore; forse non guardo tutte le 200.000 facce che mi insultano, che mi urlano di muovermi, ma poco ci manca. Io non ho paura di voi. Anche perché adesso ho la certezza assoluta che nonostante il gol preso, nonostante l’entusiasmo, beh, sono sicuro che questa partita la vinceremo noi. Arrivo a metà campo, l’arbitro non sa con che faccia guardarmi, crede che sia pronto a riprendere, ma si sbaglia. “Signor Reader, il gol era in fuorigioco!”
Lo urlo nello spagnolo più incomprensibile, nel caso in cui lui lo mastichi un po’. Non lo mastica. Mi porta a bordo campo per parlare con l’interprete. Non vi dico il pubblico, potrei scrivere un’enciclopedia degli insulti portoghesi, con quello che mi dicono, prendo anche uno sputo da un avversario, ma non me ne frega niente. Mi rivolgo all’interprete: “Digli che il gol è irregolare, che era in fuorigioco di un metro!”
L’interprete invece che all’arbitro risponde a me: “Obdulio, è forse impazzito?!”
“No, sono sano. Digli che il gol era irregolare, che il guardalinee ha anche alzato la bandierina! Avanti, diglielo!”
Reader sta perdendo un po’ della sua flemma inglese, e quando l’interprete gli traduce le mie parole si inalbera del tutto. Comincia ad urlare cose incomprensibili che l’interprete prova a tradurre: “Sta dicendo che…” ma lo interrompo perché ho deciso che la farsa è finita: “Sì, sì, lo so che cosa sta dicendo. Torniamo a giocare, che abbiamo perso anche troppo tempo!” - e torno a centrocampo, lasciando ad arbitro ed interprete la convinzione di avere a che fare con un pazzo. Appoggio delicatamente la palla per terra e mi tiro su: li guardo di nuovo tutti, pubblico e avversari, guardo le loro facce e la loro rabbia. Non vi temo, anche perché noi vinceremo questa partita. Perché siete voi, adesso, ad avere paura della nostra sicurezza, della nostra voglia di vincere, del nostro cervello. Ecco perché ho fatto questa commedia. Siete voi adesso ad avere paura. Io non ho mai avuto paura degli avversari. Rispetto sì, paura mai. Ho 33 anni, gioco da 15, ho giocato su campi infuocati, senza recinzione, senza polizia, ho subito di tutto, ma non ho mai avuto paura. E’ quello che ho urlato a quel “coglione” di dirigente prima della partita. Eravamo ancora nello spogliatoio e sento un dirigente che prende da parte Mìguez, il nostro centravanti, e gli dice di stare tranquillo, che anche se avessimo perso con quattro gol di scarto non sarebbe successo niente. Non ci ho più visto:
“Che "coglioneria” sta dicendo, eh? Lei sarebbe contento se perdessimo con quattro gol di scarto?! Ma non si vergogna?! Statemi bene a sentire” ho detto rivolto ai compagni “io se vado in campo ci vado per vincere, è chiaro? Io quando sono in campo per vincere picchierei anche mia madre, se me lo impedisse! E oggi questa partita la vinciamo, perché loro giocano solo con i piedi, noi invece abbiamo il cervello, il cervello! Se giocassimo in spiaggia, forse, qualche probabilità di vittoria l’avrebbero, ma qui, in campo, no! E adesso andiamo a fargli rimangiare la loro sicurezza!”
E’ stato bellissimo, mentre parlavo, vedere i miei compagni, specie i più giovani, che cambiavano espressione, vedere sui loro volti aumentare la sicurezza, la consapevolezza di potercela fare. E mentre stavamo uscendo, ho messo la ciliegina sulla torta: ”Ah, a proposito, se oggi qualcuno non sputa sangue, l’attacco al muro!”
E mi sono preso anche la soddisfazione di guardare in faccia quel dirigente, con tutto il disprezzo e l’odio che potevo mettere nello sguardo. Li ho sempre odiati i dirigenti, ne avessi trovato uno, in tutta la mia carriera, che non si meritasse uno sputo in faccia. Sono delle sanguisughe, gentaglia che si approfitta di noi, del nostro sudore, delle nostre gambe spezzate, e non danno niente in cambio. Così come i giornalisti, che sono i loro servi. Due anni fa organizzai uno sciopero di calciatori, e apriti cielo! Mi scrissero contro di tutto: per fortuna avevo già una certa fama, e godevo del rispetto e della stima dei compagni, avversari e tifosi, se no non sarei qui, ora, con la fascia di capitano della nazionale. E’ da allora che non compaio più in nessuna foto ufficiale. Avete presente quelle foto prepartita, in cui ci sono cinque giocatori inginocchiati e sei in piedi dietro di loro? Io non ci sono mai e se per caso ci sono, guardo da un’altra parte, mi giro a destra e a sinistra, osservo il cielo… Al ‘loro’ gioco, io non gioco.
Non sono certo io il più bravo in questa squadra, ma di certo sono il più rispettato, forse anche più dell’allenatore. Quando ad inizio partita Zizinho ha saltato Gambetta, facendogli fare la figura del "coglione", mi sono avvicinato a Gambetta, e gli ho sibilato che se avesse subito un’altra umiliazione del genere non avrebbe più dovuto passarmi davanti. Azione successiva: Zizinho arriva in velocità, tenta di superare Gambetta in maniera uguale a prima, ma questi gli fa un’entrata da codice penale, scaraventandolo oltre i cartelloni pubblicitari. L’arbitro ammonisce Gambetta tra le urla assordanti del pubblico, Gambetta si scusa con lui e va ad aiutare Zizinho ad alzarsi. La faccia, contrita e preoccupata, è di chi chiede scusa, ma le parole sono: “Questo è solo l’inizio, bastardo: alla prossima ti ammazzo”
Quando ha visto che avevo assistito a tutta la scena, Gambetta mi ha sorriso, e anch’io ho sorriso a lui. Sarà un caso, ma Zizinho non ha più toccato un pallone.
Ecco, il momento arriva. Vedo Schiaffino che ruba un pallone sulla loro trequarti, supera un uomo, entra in area e segna. Lo sapevo, come so che questo è solo l’inizio. Bravo ragazzo, Juan Alberto, gran calciatore. Sono certo che diventerà un grande campione. E’ un po’ pauroso, ma è un grande. Ha fatto un primo tempo indecoroso, giochicchiando senza senso, senza prendersi una responsabilità. Quando siamo rientrati negli spogliatoi l’ho preso per la maglietta, l’ho sbattuto contro il muro e gli ho urlato che se voleva fare il modello aveva sbagliato mestiere, che per essere un grande calciatore bisogna avere le palle, non essere un coniglio pavido e codardo. Mi ha guardato con gli occhi spaventati e mi ha sussurrato un: “Hai ragione, Obdulio, scusami”
“No, non è con me che ti devi scusare!”
“Hai ragione, Obdulio: scusatemi, ragazzi”. Rientrato in campo, il buon Schiaffino ha commesso tre falli da espulsione, ha provocato una rissa, ha fatto due o tre passaggi da favola, costruito un’azione da gol e realizzato la rete del pareggio. E’ così che mi piace.
E alla nostra rete del pareggio loro hanno reagito come mi aspettavo, nella maniera meno intelligente possibile. “Loro” sono il pubblico e i calciatori brasiliani. E’ come se con il nostro gol li avessimo offesi. Si sono dimenticati che con il pareggio vincerebbero lo stesso la coppa: no, vogliono umiliarci, metterci sotto i loro piedi. Poveretti, poveri calciatori senza cervello. Litigano tra loro ad ogni passaggio sbagliato, urlano, corrono e sprecano energie senza costrutto. Si stanno mettendo in trappola da soli. E infatti riesco a lanciare sulla destra Ghiggia, che supera un uomo ed entra in area; va quasi sul fondo e fa partire un tiro improvviso che si infila tra Barbosa, il portiere brasiliano, e il palo. Due a uno per noi. Mancano dieci minuti, ma ormai la vittoria è nostra. Loro sembrano impazziti, e sono preda di quella pazzia che solo la paura può dare. E quando l’arbitro fischia la fine, gli undici brasiliani in campo e i 200.000 in tribuna si svuotano come sacchi. Dio, che silenzio! Voi avete mai sentito un silenzio di 200.000 persone? E’ una delle cose più impressionanti che abbia mai visto. Nessuno esce dal campo, nessuno se ne va dagli spalti. Restano tutti impietriti, l’unico movimento lo fanno le lacrime che rigano le guance di tanti.
Mi sento battere sulla spalla. E’ Jules Rimet che deve consegnarmi la coppa. E’ quasi imbarazzato, così come sono imbarazzato io.
“Monsieur Varela, ho l’onore di consegnarle la coppa. Complimenti”
Mi dà la coppa, mi stringe la mano e ci sorridiamo. I ragazzi sono intorno a me. Non esultano, non ridono. Sembrano quasi increduli. Li guardo uno ad uno.
“Be’, ragazzi, sembra che siamo campioni del mondo!”
E solo adesso si sciolgono, parte qualche pacca sulle spalle, qualche battuta di gioia a mezza voce. Ma tutto con pudore, senza disturbare. Sono bravi questi ragazzi, hanno imparato il rispetto. Hanno rispettato i brasiliani perché non hanno avuto paura di loro, e li rispettano ora non sbattendo loro in faccia la nostra gioia e la nostra soddisfazione. Ho insegnato qualcosa a questi ragazzi e anche questa è un’altra grande vittoria.
 
Il declino post calcio di Obdulio
Le parole mi escono difficili e trasferirle sulla tastiera è una fatica immane. E’ la commozione mista allo stupore dell’ammirazione, perché raramente, si può leggere dalla mente di un atleta, un riassunto così chiaro e luminoso su un evento sportivo. Obdulio era così, raccontava come nessuno, avrebbe potuto fare lo scrittore, era vero e genuino. Troppo genuino e puro, con un passato troppo ingombrante, per non subirne ripercussioni nel contraddittorio continente sudamericano. L’opportunismo non aveva dimora nella sua mente, ed era troppo vicino alla gente, aldilà delle sue origini di massima povertà. Lo era, perché si trattava del suo radicato credo nel modo di intendere la vita.
Duro e apparentemente tirannico, perché solo così puoi lottare per vivere su terre che non han mai potuto conoscere la pacifica e facile condotta verso il futuro. Terre ospitanti emigrati, forzati, disperati su uno sfondo di saccheggio costante da parte dei potenti, di quelli che si riempiono la bocca con la democrazia e la tolleranza, quando, sotto la scorza, sono fiele e criminali, tanto potenziali, quanto, spesso, reali. Non è un caso che da quei luoghi dal paesaggio da sogno, sia nato Ernesto Che Guevara, un intellettuale vero e sconosciuto fino ai riporti dei soli tratti del suo imbracciare il fucile, per dare a quella gente, la sua gente, la speranza di un sorriso pacifico senza l’oriz-zonte d’un coltello. Non è un caso, se i sempre perfidi e criminali eserciti, abbiano dominato gli stati di quel continente, non già per riportare un ordine di vita, ma per mantenere un dominio per il saccheggio ed i suoi artigli. E non è un caso che da quel continente, siano venute penne vere, non opportuniste, o intellettuali dimenticati e sconosciuti, pronti a stare poveri fra quelle genti dalle dentature irregolari, dai paramorfismi e dimorfismi della miseria, che han donato sorrisi caldi di sincerità agli avventori, quanto freddi nel riflesso delle coscienze di questi. Gesu di Nazareth si sarebbe fermato nelle favelas, perché era quello il mondo della sua rivoluzione, indipendentemente dal mistico della sua religione. Fosse vivo, sarebbe fiero di quella gente e non guarderebbe a quelle sacche di violenza indotta dalla miseria e dalla corruzione, dal dominio dei forti, i tragici forti, come un dispregio alla sua enunciazione di volgere sempre l’altra guancia dopo uno schiaffo. Sapeva benissimo che non si può essere perennemente supini o genuflessi, che la reazione non è sempre un simbolo di male. Lui esprimeva una tendenza, un’etica, raccolta miseramente da chi, diceva e dice, di vederlo come dio. Il Sud America, è lo specchio del mondo dell’uomo, dopo che, questi, ha insozzato e sfregiato ogni filosofia e religione, attraverso il suo voto criminale al danaro e al profitto. Quel continente racchiude, come nessuno, gli epigoni dell’iperbole umana: luminosità e lutti, carità e violenza, bontà e cattiveria, sincerità e opportunismi. È il luogo della terra, dove l’ignavia e l’ipocrisia, esistono nelle percentuali più piccole e dove, al pari dell’Africa, ancora si crede di poter percorrere il proprio segmento di vita nella terra e per la terra.
Come poteva vivere, nel dopo carriera, un campione simbolo di un piccolo stato come l’Uruguay, uno che non aveva mai conosciuto i lustrini falsi dell’Europa e la falsità criminale, neanche tanto sotterranea, degli Stati Uniti? Era fin troppo ovvio, che uno capace di andare fra le genti brasiliane, a piangere con loro, dopo aver dato a quel popolo una sconfitta tragica, ritornasse alle essenze più vere del suo paese, come uno dei tanti.
Come uno dei tanti che doveva vivere il suo essere “negro”, guadagnarsi quel tanto che ti può dare una condizione di convivio naturale, senza ricerche e opportunismi. Era il simbolo e l’orgoglio di quella gente, che si calava nella convinta dimensione di essere uno dei tanti, coi problemi dei tanti. Obdulio Varela è stato coerente fino all’ultimo. Ha pianto di nuovo, per l’humus straziante delle quotidianità uruguagie, ha sofferto l’altalenante corso dello sconosciuto di fronte al prossimo, non ha fatto valere la sua fama. S’è donato incontrando e vivendo le contraddizioni dell’uomo, le screpolature della fatica, il peso degli anni e le curvature di un fisico che s’invecchia in tutti, anche nei potenti. Ha vissuto insegnando la sincerità, nei pregi e nelle debolezze. Già, quelle leggerezze che la povertà, spesso, ti lascia come residuo funzionale alle proprie strettoie, alla voglia inconscia di evasione per vedere orizzonti meno cupi, dopo un’alba sorta per annunciare un giorno eternamente incollato alla speranza di una luminosità, non solo compagna d’un sogno ad occhi aperti.
Obdulio visse così il suo dopo esser stato giocatore capace di incidere sul suo popolo. Consumò le sue giornate come la moltitudine delle persone che incontrava, costrette a graffiare idiomi per guadagnarsi un pasto da dividere con quei bimbi dagli occhi neri e da quello sguardo reso perennemente triste, dalla mancanza del gaio retroterra del gioco e dell’innocente ricerca siamese ad ogni bambino. Sì, perché loro dovevano diventare adulti subito, senza conoscere le feste, i dolci, spesso persino la scuola.
Lui Obdulio Varela, col suo nome che sibilava nelle menti come un mito, guardava e viveva quel percorso dipanandosi su lavori umili, la birra o quell’alcol che non possiede quasi mai il volontario ponderato. Diventò perfino posteggiatore mezzo abusivo, pronto a tutelarti l’auto per un intero giorno, in cambio d’una birra. Lo faceva con un’andatura divenuta ciondolante e una postura progressivamente ricurva, alter ego di quel aitante colosso che dominava i campi. L’andare degli anni lo rese semi barbone, in realtà, era tornato con fisico anziano nelle medesime condizioni di quand’era l’adolescente che doveva difendersi dallo status di “negro”. Si stava completando un’ellisse, che lasciava nostalgia e pena, su quei sempre numerosi turisti o visitatori, che non perdevano occasione per farsi raccontare i tasselli delle sue ventennali imprese sportive. E lui, raccontava coinvolgendo. Era un’artista da strada, uno dei molti che incontri per caso e che vedi più luminosi di quei tanti, che nascondono il loro poco, dietro un odioso fare cattedratico.
Un povero in canna, ma lui, Obdulio, continuava a sognare con l’amarezza dell’impotenza, sulle ali d’un mondo divenuto diverso e peggiore di quello che avrebbe voluto. Si spense pian piano il “Capitano” della “Celeste”. Unico sussulto, nel 1994, quando, chi doveva ricordarsi molto prima di lui, gli pagò un viaggio premio, per assistere ai Mondiali negli Stati Uniti. In questa occasione, la FIFA, lo insignì di un particolare trofeo per i suoi trascorsi di carriera.
 
 
La sua carriera in sintesi
Obdulio Varela, nacque il 20 settembre 1917 a Montevideo. Di famiglia poverissima, cominciò a giocare al calcio sulle strada con un pallone fatto di stracci. Il suo fisico possente e monumentale, lo aiutò non poco negli anni adolescenziali. Visto per caso da un dirigente dei Wanderers (compagine che militava nella Serie “A” uruguaiana), quando già aveva 19 anni, fu inserito direttamente nelle riserve della prima squadra. Solo pochi mesi dopo, agli inizi del 1937, quando non aveva ancora venti anni, fece il suo debutto nel massimo campionato e, da quel giorno, non ha mai più fatto la riserva di nessuno. Al Wanderers rimase fino al 1942 compreso. Nel 1940, fece il suo debutto nella Selecion e due anni dopo era già il “Capitano”. Guidati da Obdulio, gli uruguaiani vinsero, nel 1942, la Coppa America. Nel 1943, Varela passò al Penarol e vi restò fino alla fine della stagione 1955, quando appese le scarpette al chiodo. In quel periodo, vinse sei volte il titolo nazionale (1944-1945-1949-1951-1953 e 1954) e il già citato Mondiale nel 1950. Quattro anni dopo, a trentasette anni, partecipò alla Coppa Rimet, in Svizzera. Era il più vecchio giocatore partecipante a quella rassegna. Giocò molto bene tutto il torneo, ma nella partita dei quarti di finale, si procurò una ferita vastissima al piede destro. Continuò a giocare quel match, col piede fasciato ed una scarpetta ginnica, benissimo tra l’altro, ma fu costretto a rinunciare alla semifinale contro la grande Ungheria. Chiuse con lo sport l’anno dopo. Morì a 79 anni il 2 agosto 1996, a Montevideo.
Nella storia del calcio, resterà un esempio difficilmente imitabile.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Da appassionato del calcio uruguayano è forse il tuo racconto che preferisco, essendo Varela una delle figure più affascinanti della storia del calcio, non solo uruguayano.
 
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