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Parla Marco Villa, ct della Nazionale: «La pista italiana tornerà grande»
#1
L'intervista: «La pista italiana tornerà grande» - Parla Marco Villa, ct della Nazionale
Marco Villa è stato uno dei più grandi seigiornisti italiani, chiusa la sua carriera nel 2008 e poi con un addio ufficiale durante la 6 Giorni di Cremona del Febbraio 2009, ora è entrato a far parte dello staff tecnico della Nazionale Italiana e del Centro Pista di Montichiari: tanta esperienza passata ai ragazzi e un po' anche a noi che l'abbiamo incontrato un sabato pomeriggio al Velodromo di Montichiari al termine di un allenamento della Nazionale.

Parliamo un po' della tua storia: quando hai cominciato a correre in bicicletta?
«Io ho iniziato a 10 anni, allora c'era la categoria B2, ma era, così, tanto per provare perchè c'erano alcuni amici del paese che correvano e ho iniziato con loro».

Come si è evoluto il tuo percorso in bicicletta da ragazzino fino alle Sei Giorni? Senza dubbio si tratta di una carriera che scelgono in pochi...
«Diciamo che io sono stato condizionato dal fatto che allora, a Crema, c'era un Velodromo con una certa tradizione e c'era Pierino Baffi che faceva un po' da immagine. Il Velodromo funzionava, c'erano molte corse durante la settimana e quindi io sono cresciuto con l'abitudine delle corse su pista una volta a settimana e la domenica la corsa su strada: questa storia me la porto dentro, e sono uno dei pochi che crede ancora a questa tradizione».

La prima Sei Giorni alla quale hai partecipato?
«A livello internazionale ho cominciato nel 1989 insieme a Giovanni Lombardi: andavamo con la nazionale di Broccardo e qualche volta ci ha accompagnato anche Amadio».

Quindi Giovanni Lombardi è stato il tuo primo compagno a livello internazionale?
«Sì, io e lui abbiamo cominciato a fare questa esperienza ed è andata subito bene perché abbiamo vinto a Parigi, poi a Gand, abbiamo fatto secondi a Zurigo, quinti a Monaco: facemmo un buon inverno».

Il compagno che ricordi con più affetto?
«Dico ancora Lombardi perché ho iniziato con lui già da allievo, poi sicuramente Silvio Martinello. Con lui ho avuto la svolta della carriera: l'Americana diventò specialità ai Campionati del Mondo poi specialità olimpica, Silvio mi ha chiesto di correre con lui, abbiamo vinto i Campionati Italiani e di conseguenza abbiamo partecipato ai Mondiali e abbiamo vinto subito. Con quella vittoria sono finalmente riuscito ad entrare nel circuito delle Sei Giorni perché fino ad allora, nonostante le tante vittorie da dilettante, per me era stato veramente difficile entrare, visto che avevo davanti mostri sacri come il campione olimpico Giovanni Lombardi e la coppia Baffi-Bincoletto».

La vittoria più bella che ricordi?
«Sicuramente i Campionati del Mondo e poi il bronzo alle Olimpiadi fan parte dei ricordi principali. Nelle Sei Giorni invece la vittoria a Brema che è stata la prima in terra tedesca dove allora c'è un'importante cultura del ciclismo su pista. Anzi, diciamo che c'era. L'evento era molto sentito e quindi vincere lì valeva un po' di più. Quell'anno Brema fece il record di spettatori, mi ricordo che il giorno dopo la stampa sottolineava i 126.000 spettatori presenti!».

Secondo te invece cosa ha portato questa forte crisi delle Sei Giorni, soprattutto in Germania dove in pochi anni sono sparite Stoccarda, Dortmund ma soprattutto Monaco? È solo un problema di congiuntura economica?
«L'aspetto economico è stato, non solo in Germania, uno dei fattori principali, però diciamo che le cronache di doping non hanno fatto benissimo a questo sport e soprattutto alle Sei Giorni nelle quali il ciclismo è vissuto come una festa. Inoltre la stampa tedesca ha insistito molto su questo fatto e gli spettatori si sono sentiti un po' traditi. Il ciclismo sta dando comunque una prova di forza perché non si è piegato e va avanti per questa strada che io ritengo sia quella giusta. Certo, quando devi cambiare una mentalità che è diventata tutta distorta, tentare di raddrizzarla ha bisogno di tempo: molti giovani hanno avuto dei pessimi esempi che ci siamo trascinati per tanto tempo. Ora si cerca di creare una mentalità diversa e il ciclismo ne vedrà il frutto tra qualche anno».

Marco, tu sei uno dei tecnici al Velodromo di Montichiari, di cosa ti occupi?
«Io, insieme ad altri tecnici (Roberto Chiappa, Daniele Fiorin e Chiara Rozzini), mi sto occupando della Scuola Pista due volte alla settimana, abbiamo cercato di sensibilizzare soprattutto i direttori sportivi e i ragazzini per portarli in pista: quest'anno abbiamo avuto un buon numero di partecipanti (circa 300 iscritti alla Scuola). Anche qui è sempre questione di mentalità: dal 1985, dopo il crollo del Palazzetto dello Sport, siamo andati avanti di rendita e con una certa tradizione per la pista e, da quel momento in poi, siamo andati sempre peggio e adesso dobbiamo ricostruire. Tanti dicono, di fronte a certi risultati, che "nonostante il Velodromo di Montichiari non si vince", ma un Velodromo non fa i miracoli: è un punto di partenza e un trampolino di lancio per cambiare un modo di pensare».

Secondo te perchè è così difficile convincere un direttore sportivo a mandare, in inverno, un ragazzo ad allenarsi in pista?
«È solo una questione di mentalità. Oggi abbiamo dei bravi direttori sportivi per l'attività su strada che sono stati grandi campioni su strada, ma non ce ne sono per la pista perché in passato non avevamo velodromi coperti, perché si è persa la tradizione, sono sparite anche tante Sei Giorni e di conseguenza non ci sono tecnici che si siano formati su pista. Un direttore sportivo consiglia al ragazzo in base alla propria esperienza: non hanno fatto pista, sono diventati campioni senza pista e quindi pensano che quella sia la strada buona. Tocca quindi a noi cercare di cambiare questo pensiero. Il ciclismo sta cambiando, nei giovani ci sono molti campioni australiani, molti inglesi e tanti altri corridori che arrivano dalla pista, fino all'anno scorso poi abbiamo avuto questi esempi solo dall'estero, ma da quest'anno si cominciano a vedere anche degli esempi italiani e i più freschi sono Andrea Guardini ed Elia Viviani. Speriamo quindi che i primi risultati aiutino a far cambiare le idee dei direttori sportivi o almeno faccia capire che certi lavori sono molto idonei anche all'attività su strada».

Ci sono già dei ragazzini promettenti o più adatti al lavoro in pista?
«Io sono convinto che se i corridori li ha l'Australia che ha meno tradizione di noi, ce li ha l'Inghilterra, ce li hanno l'Olanda e il Belgio, perché non dobbiamo averli noi?».

Parliamo di Giochi Olimpici.
«Ho parlato anche con Bettini, da qualche edizione la prova su strada dei Giochi è diventata per professionisti ed è quasi impensabile che un ragazzo di 21/22 anni possa disputarla. L'occasione per esserci, se sei un ragazzo talentuoso, ce l'hai più sulla pista: e perché rinunciare a un'Olimpiade? Mi è capitato di discutere anche con i ragazzi per fargli capire che le Olimpiadi sono le Olimpiadi, ma ho avuto anche risposte "A me interessa il Giro d'Italia e non l'Olimpiade!": questa è la tipica idea del corridore italiano e che deve cambiare! L'Olimpiade è la massima espressione dello Sport, il Giro d'Italia può anche essere la massima espressione del Ciclismo, però quando sei tanto giovane ci può stare anche un'Olimpiade su pista».

E come si vince un'Olimpiade?
«Per vincere un'Olimpiade su pista devi andare forte anche su strada per la tecnica te la da la pista, ma la gamba per vincere la devi fare su strada: preparare i Giochi Olimpici non preclude l'attività su strada. Prendete Elia Viviani che ha vinto a Donoratico e in India e venerdì sarà a Manchester per la Coppa del Mondo: in 10 giorni di ritiro con la nazionale, prima di Donoratico, ha fatto 7 giorni in pista e 3 su strada e sta vincendo. Gli australiani per esempio vanno fortissimo dopo il Tour Down Under perché per loro è un grosso appuntamento su strada, escono con una grandissima condizione, hanno la pista nel sangue perché la praticano fin da ragazzini, tornano sull'anello tre giorni per affinarsi e poi fanno i record del mondo come Jack Bobridge. Questo è quello che vorremmo fare noi, io e Andrea Collinelli, come Nazionale Endurance: prendere i campioni forti della strada, con certe doti veloci e che sappiano andare in pista. Noi abbiamo degli ottimi elementi, però sono poco abituati e quindi sbagliano i cambi, mancano di confidenza e adattabilità come invece ha un australiano che fa pista da tanti anni. Perchè quando sei in Australia e hai 45 gradi già alle 9 del mattino l'unico posto che hai per girare un pò in bici è in una pista coperta ed è così che finiscono con il trovarsi atleti come Stuart O'Grady, nel 2004 vincente al Tour, 20 giorni dopo campione olimpico, poi ancora competitivo alla Vuelta e quarto al mondiale e capace di vincere pure la Parigi-Roubaix qualche anno dopo. Solo per spiegare che tipo di adattabilità hanno».

Ma questo Programma Olimpico ha danneggiato?
«Si ha danneggiato, mi spiace che abbiano tolto l'Americana e la Corsa a Punti, ho sentito molte nazioni lamentarsi, non solo l'Italia, e quindi si spera che dalla prossima edizione si faccia un passo indietro. Ora però ci sono queste discipline come l'Inseguimento a Squadre e io penso che un ragazzo giovane non debba sprecare l'occasione di poter partecipare ai Giochi perchè da 23 anni ai 37/38 c'è un sacco di tempo per fare le Classiche e il Giro d'Italia».

Laura Grazioli - cicloweb.it
 
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#2
(17-02-2011, 10:34 PM)SarriTheBest Ha scritto: Parliamo di Giochi Olimpici.
«Mi è capitato di discutere anche con i ragazzi per fargli capire che le Olimpiadi sono le Olimpiadi, ma ho avuto anche risposte "A me interessa il Giro d'Italia e non l'Olimpiade!": questa è la tipica idea del corridore italiano e che deve cambiare! Il Giro d'Italia può anche essere la massima espressione del Ciclismo, l'Olimpiade è la massima espressione dello Sport».

quoto in pieno, e sapete bene come la penso a proposito del Giro Asd
 
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#3
io mi auguro un rilancio della pista .....specialmente in toscana voglio salutare il ct della nnazionale marco villa e le sue parole fanno ben sperare ma non dobbiamo abbassare mai la guardia cordiali saluti fuccio
 
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