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Ray "boom boom" Mancini
#1
Era un riferimento pugilistico della sua infanzia….. L’ho letto tardi, dopo mesi direi, ma questo ritratto lo devo a Luciano Pagliarini, perlomeno come ringraziamento verso un giovane che si distingue come pochi per l’amore verso la storia dello sport e del ciclismo in particolare…..   
 
 
Ray "boom boom" Mancini
 
Ha fatto epoca senza essere un super, è stato capace di guadagnarsi la simpatia per un modo originale di combattere a viso aperto, senza tirarsi mai indietro. Un fighter, privo completamente di difesa e dal pugno pesante, ma non terrificante. Un gladiatore ardimentoso, dotato di una determinazione viscerale, come a voler svolgere una missione.
Il protagonista è Ray “boom boom” Mancini, americano di Youngstown nell’Ohio (dove nacque il quattro marzo 1961), ma di origine siciliana (il nonno era di Bagheria), che conquistò il titolo mondiale dei pesi leggeri nel 1982 e si ritirò nel 1992, dopo 29 vittorie (23 KO) e 5 sconfitte.
 
Su di lui, nel 1985, è stato fatto pure un film, prodotto e curato da Sylvester Stallone, una colorita biografia che ha lanciato lo stesso Ray nel mondo del cinema, l’ambiente dove l’ex pugile ha vissuto a lungo nel dopo carriera.
Dicevo prima, di come questo peso leggero sembrava esaurisse sul ring una missione, ed in verità costei c’era veramente: concretizzare le speranza e la passione del padre Lenny (morto nel 2005), divenuto suo allenatore sin da subito, che non aveva potuto vincere ed affermarsi come avrebbe voluto, a causa della seconda guerra mondiale e di una grave ferita in essa rimediata.
Lenny, iniziò così ad istruire il figlio, a portarlo sul ring, ad allenarlo con asfissiante cupidigia. Nei muscoli e nel fisico del piccolo Ray, vedeva quello che avrebbe voluto e potuto essere lui. Il giovane lo seguiva e lo copiava nello stile e nella determinazione, come una perfetta trasmissione sanguigna, fino a divenire il Lenny giovane, anche in quei difetti tecnici che poi non seppe mai correggere.
Per Ray, a cui ben presto fu affibbiato l’appellativo di “boom boom”, proprio come il padre per l’animosità ed il numero di colpi portati, s’aprì un’ottima carriera dilettantistica che si fermò durante le selezioni olimpiche per Mosca, di fronte ad uno dei talenti più sfortunati (attualmente è nel braccio della morte senza colpa) della storia del pugilato, Anthony Fletcher. Costui impartì al giovane Ray, come fece da professionista nei confronti del supersponsorizzato Livinstong Bramble, un’autentica lezione di pugilato e Lenny capì che il figlio, poteva trovare nel professionismo più spazio alle sue doti di combattente senza tregua. In totale, la carriera dilettantistica di Ray conta su 50 combattimenti con l’unica sconfitta ad opera di Fletcher.
 
Il giovane Mancini esordì nella massima categoria nel 1979, appena diciottenne, nella sua Youngstown. La fama di “boom boom”, combattendo in casa contro avversari non sempre veri o di un certo prestigio come Jose Luis Ramirez, Johnny Summerhays, Jorge Morales e Bobby Sparks, si cementò al punto di ottenere, dopo soli 20 combattimenti, tutti vinti, la chanches mondiale nei pesi leggeri. A concedergliela, mettendolo di fronte ad un mostro sacro della storia della boxe come il nicaraguese Alexis Arguello, fu il WBC (World Boxing Council). L’incontro si tenne il 3 ottobre 1981 a meno di due anni dal debutto di Ray fra i professionisti.
Ricordo bene quel match, perché ero un ammiratore di Arguello, uno dal pugno terrificante e dall’ottima tecnica soprattutto difensiva. I suoi colpi erano rasoiate fulminee, sia di destro che di sinistro. Il nicaraguese si presentò all’incontro con Mancini, forte di ben tre titoli mondiali conquistati in tre categorie di peso. In origine era un piuma, ed a mio giudizio solo Salvador Sanchez, nella storia della boxe, ha saputo essere forte o superiore a lui, nella medesima categoria. Il suo sogno era quello della quarta cintura ed il match con l’italoamericano sarebbe stato, in ogni caso, l’ultimo fra i leggeri, prima del tentativo mondiale fra i “welter junior”.
L’incontro fu sorprendente, perché Ray “boom boom” Mancini partì a razzo, senza nessun tipo di timore verso la fama del grande avversario. Spesso mise alle corde Arguello, fino a farlo vacillare, ma pian piano cominciò a subire la maggior classe e potenza del leggendario nicaraguense. Si capì in quell’occasione che Ray, sublimava nel suo pugilato la determinazione e l’animosità, con una difesa carente che gli faceva subire troppi pesantissimi colpi. In sostanza, un pugile spettacolare che avrebbe potuto arrivare al titolo mondiale, ma che non sarebbe rimasto a lungo ai vertici, in virtù dei troppi pugni che il suo pugilato gli faceva subire.
Arguello, verso la decima ripresa divenne padrone del ring e cominciò a colpire coi suoi colpi secchi un “boom boom” che si dimostrò stoico incassatore. Finì quattro volte al tappeto, ma alla quattordicesima ripresa andò definitivamente KO.
Il sogno di Lenny era dunque rimandato, ma il comunque positivo comportamento di Ray contro quel grande, gli fece guadagnare definitivamente l’olimpo della categoria.
Infatti, solo sette mesi dopo, l’otto maggio 1982, la WBA (World Boxing Association) gli offrì un’altra chanches mondiale. Stavolta l’avversario non possedeva le stimmate dei super come Arguello, ma era pur sempre di nota e campione: Arturo Frias. L’incontro non ebbe storia, Mancini seppellì con una gragnola di colpi l’avversario stendendolo alla dodicesima ripresa, conquistando così la cintura mondiale dei “leggeri”. Il sogno di Lenny, interpretato da Ray, s’era così concretizzato!
Le difese del titolo furono quattro, una in particolare, purtroppo, entrerà nella storia del pugilato e dello sport, quella col coreano Duk Koo Kim.
Due pugili uguali, solo votati all’attacco. Si picchiarono a viso aperto finendo entrambi più volte sull’orlo del KO. Ray “boom boom” Mancini, richiamò tutte le sue forze e alla decima ripresa stese Kim che non si rialzò, fu portato all’ospedale e dopo un giorno di coma profondo, morì. Il mondo della boxe, non nuovo a simili tragedie, si interrogò ancora una volta sulla sua brutalità, mentre Ray preso dallo sconforto decise di chiudere col pugilato. Settimane di angoscia interiore, pure qualche piccolo screzio col padre Lenny, tanta meditazione. Ray capì che era arrivato a quello che voleva, ma il prezzo pagato non valeva il gioco, lo tormentava, lo distruggeva.
 
Ritornò in palestra dopo due mesi a sfogare sul sacco quella rabbia per essersi macchiato a vita di un delitto che sentiva poco colposo. Si sentiva responsabile. Ci volle tutta la pazienza dell’ambiente per far tornare Ray sulle sue decisioni. Doveva capire bene che la morte di Kim era dovuta essenzialmente all’incapacità dell’arbitro, colpevole di avergli fatto scaricare almeno sei colpi in più di quelli che servivano per arrestare il match. E lui “boom boom” non poteva considerarsi il massimo responsabile. Mancini, arrivò così a rivedere la sua decisione e si ripresentò sul ring, ma non era più lui.
 
La boxe è sport duro, ma tremendamente onesto. E’ difficile venire a capo dei match quando si è inferiori, o non si è più dotati della parte migliore delle proprie facoltà. Ray Mancini poteva essere grande (e lo era stato), ma breve, perché il suo pugilato era dispendioso e incompleto, in più nei suoi cromosomi era entrata quella macchia dettata dalla morte di Kim. In quegli anni nella medesima categoria c’era un pugile, Howard Davis, che aveva vinto le Olimpiadi di Montreal; un tecnico sopraffino, uno che conosceva la “noble art” in tutti i particolari. Non arrivò mai a conquistare un mondiale, perché il suo manager lo mandò al massacro di una sfida mondiale dopo soli nove match da professionista. Fu sconfitto pesantemente e quella macchia gli tarpò le ali dell’autoconvinzione. Fu così bello da vedere e pronto ad insegnare a tutti su come si portavano i colpi, ma non fu più competitivo per i vertici. Si parlò a lungo di un incontro fra Mancini e, appunto, Davis, ma non si fece mai. Eppure quello poteva essere l’unico incontro di prestigio possibile per entrambi. Proprio perché entrambi, per un motivo o per l’altro, s’erano ritrovati a facoltà accorciate e limate dalle essenze della boxe. Il campione era Ray, ed a lui andò l’obbligo di affrontare colui che sarebbe giocoforza divenuto l’esecutore del suo destino: Livinstong Bramble. Un pugile tecnico, stravagante e abbastanza potente, in più supersponsorizzato da quell’ambiente che gli aveva fatto dimenticare in fretta l’umiliazione subita due anni prima da Anthony Fletcher.
L’incontro con Mancini non ebbe storia, Bramble dominò “boom boom” fino ad indurre l’arbitro a fermare un combattimento che avrebbe potuto essere deleterio per la stessa salute di Ray. Si era nel 1985 e dopo la sconfitta, l’ardimentoso di Youngstown, decise di abbandonare il pugilato, approfittando del film sulla sua vita che gli aprì le porte alla cinematografia.
Un colpo di coda, per ricercare assieme alle improbabili antiche virtù pugilistiche quella montagna di soldi che nell’inciviltà americana sono una costante, s’ebbe nel 1989, quando Mancini fu opposto ad un altro nobile decaduto ed ex mondiale, il portoricano Hector “Macho” Camacho.
Macho era ben poco tale (è morto a fine 2012, colpito da un proiettile vagante, nel corso di una sparatoria a San Juan di Portorico), anzi, a mio giudizio, uno dei fuggitivi del ring più evidenti che abbia mai visto. L’incontro fu equilibrato e probabilmente vinto da Mancini, ma come spesso è accaduto quando di mezzo c’era Camacho, il verdetto non lo premiò.
Ray “boom boom” Mancini ritornò pateticamente sul ring nel 1992, ma fu subissato di colpi dal non trascendentale Greg Haugen, uscendo sconfitto per KO alla settima ripresa.
Da quel giorno, “boom boom” ha lasciato la sua animosità pugilistica alle sole e parziali esibizioni sul finto ring della cinematografia.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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