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Storie e ricordi di corse e personaggi
#1
Felix Levitan, un incenso del ciclismo. 

(Articolo scritto il 18 febbraio 2007, giorno della scomparsa dell’ex patron del Tour de France)

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E’ un brutto giorno per il pedale. Bruttissimo se si hanno occhi che non si fermano al risaputo. 
Con Levitan, se ne va l’ultimo mohicano di un ciclismo che non c’è più e che è difficile riconsiderare possibile, per l’imbarbarimento reale dei tempi e, soprattutto, per l’infima caratura degli uomini che oggi lo dirigono, in un summa di sottovalenze che non distinguono più ruoli, bensì 
unici ed orizzontali appoggi all’interesse, al poltroncina, alla cultura della deficienza. 
Felix, era un uomo che s’era fatto un retroterra di sapere, eleggendo, su ciò che osservava, il miglior libro possibile, direttamente sulla strada della vita. Un tempo, i giornalisti nascevano così. Si sceglievano in base a come riuscivano e scrivere, sul talento che possedevano fin dalle scuole più tenere e poi li si mandava direttamente sulle notizie, affinché raccontassero il visto, costruendo coi lettori, la chiave per vivere tanto gli effetti dei fatti, quanto la cultura della comprensione e delle siamesi domande. Erano uomini che divenivano intellettuali, spesso senza titoli scolastici di peso, capaci di imparare il linguaggio vero della comunicazione e del trasporto che viene dalla conoscenza. Ed erano bravi a scrivere, soprattutto. 
Di quei credi-crogiolo, il giovane Levitan era dotato fino alle viscere. Da assistente di stampa ai telefoni, riuscì a divenire giornalista professionista a meno di vent’anni. Negli anni trenta, imparò a concepire lo sport come una via culturale originale e del ciclismo, che ancor levava scudi all’uscita dal pionierismo, intinse se stesso, fino a determinarlo come una lezione di vita, proprio per la sofferenza che l’eleggeva. 
Quando, nell’agosto del 1944, nacque il “Parisien Libéré”, ne divenne da subito una delle penne di riferimento. Gli anni della rinascita e della crescita del Tour de France, all’indomani del conflitto, sublimarono in Felix un singolare pragmatismo nel vivere il messaggio e le valenze di quella corsa come summa del ciclismo, delle sue peculiarità e del bisogno di mantenere la disciplina del pedale, negli anni, come un prezioso monito di fronte a quei cambiamenti in avanti che, per essere tali, dovevano non dimenticare il passato e la sempre presente ignoranza umana. 
Quel ciclismo doveva scorrere come un patrimonio pur proponendosi su strade diverse, di fronte ad abbigliamenti cambiati nel pubblico intorno alle strade e con auto sempre meno rare, al cospetto di sogni più concilianti verso la prospettiva reale di un’evasione e con lettori sempre amanti delle valenze particolari, così vicine al mito di quegli uomini in bicicletta. 
Felix, capiva come nessuno che l’organizzazione sempre più imponente di quella manifestazione, non doveva disperdere i valori di quello sport divenuto, per lui, un modo stesso di testimoniarsi giornalista, ma pure uomo con una sua cultura densa di idealità. La sua penna e quelle innate capacità di organizzare un’idea, o il suo personale istmo verso quel futuro che ben conosceva il passato, lo elessero al ruolo, nel 1962, di Redattore Capo del “Parisien Libéré”, nonché la firma più illustre di quelle pagine.
In quel medesimo anno cardine, fu incaricato al compito di assistente di Jacques Goddet all’organizzazione del Tour de France. Ben presto, aldilà degli incarichi paritari su carta, Felix Levitan, divenne il vero patron della Grande Boucle, perlomeno colui al quale spettava l’ultima parola. Furono anni di grande valore per la manifestazione. 
Goddet, era l’intellettuale, il romantico, l’uomo che aveva rimodellato il Tour, l’amico dei corridori, da loro visto col rispetto particolare che si deve ad un padre, mentre a Felix, pur essendo molto simile al collega, perlomeno assai di più di quanto non sia stato detto e scritto, spettava il ruolo alter, di pragmatico, di concreto oltre il limite e con la spesso sottile impopolarità che si unisce a chi deve dire ufficialmente di “no”. I corridori lo temevano, ma a quei tempi non sapevano, o non erano in condizione di capire, quanto fosse a loro vicino. 
Levitan, della Grande Boucle difendeva, e per questo s’è battuto fino all’ultimo, il suo valore sportivo: da buon francese la vedeva come somma, ma non dimenticava gli altri contesti; semplicemente sosteneva la sua creatura come un dono, sempre e comunque circoscritta a quell’aspetto d’elezione che era, per lui, la disciplina del pedale, monarca della sofferenza e degli insegnamenti di vita. 
L’impronta lasciata dal duo e di Levitan in particolare, ovvero da colui che l’ambiente riconosceva come il vero faro del Tour, visti i tempi odierni, fa piangere per il rimpianto. 
La prova di quanto sostengo, nata dalle letture e dei tanti colloqui intercorsi in questi anni con chi ha comunque avuto occasione di conoscere Felix non solo nelle vesti di corridore, questo peculiare nocchiero la diede nell’inverno ’86-’87, quando capì bene che razza di aria nuova spirasse attorno al pedale. 
Da una parte Verbruggen, del quale condivideva poco per non dire nulla, che vedeva troppo protagonista e poco incline ai valori dello sport per quella sua voglia di giungere alla monetizzazione più piena del ciclismo, attraverso la mondializzazione costi quel che costi e, dall’altra, il crescente interesse dell’organizzazione del Tour, sulle linee dell’immagine e del business. Non erano più tempi per letture sportive e per le difese dei valori di quel ciclismo al quale aveva dato una vita. Levitan, fu così sostituito al vertice della Grande Boucle, ma in realtà fu un suo abbandono. Venti anni fa, questo uomo antico, magari dipinto nelle punte d’eccesso d’un ruolo, aveva capito tutto. 
Oggi, come tutti i rapporti che si basano sul solo danaro e sulla volontà dei singoli figuri di giungere all’appagamento, Verbruggen, attraverso la controfigura McQuaid e Leblanc, con la fotocopia Prodhomme, sono in guerra, ognuno pieno di scheletri nell’armadio di cui molti in comune e col medesimo agnello da immolare: il ciclismo nella sua essenza principale, ovvero nei corridori. Il contorno a questi tristi fiumiciattoli di sporco, ci porta una lunga striscia di catrame volgarmente speso o dipinto per gli ancora troppi beccaccini, per ciò che non sarà mai: che si chiamino Bruyneel, Lefevere, Zomegnan, o Concimati ecc, giunge la consapevolezza che un Levitan, in tempi degni di sport, se li sarebbe mangiati come panini imbottiti. 
A non capirlo, proprio quei corridori che paiono non sapere né leggere e né scrivere, nonostante provengano da banchi scolastici più nobili e non siano più quelli che, a domanda, s’affrettavano a rispondere: “Ciao mama, son contento d’essere arrivato uno!”
E dire che Felix Levitan, che l’osservatorio magari dipingeva per burbero e sempre incline a far soffrire i corridori su una bicicletta, in realtà li difendeva e li rendeva dignitosi eroi del proprio illuminato immaginario, perché la dignità non si compra col danaro, ma con l’essenza dell’essere. Con lui, non ci stavano sponsor a correggere i tiri o a trasformare le quotidianità in metafisica: c’erano solo uomini su un mezzo di sofferenza, da eleggere nelle graduatorie, ma da rispettare su qualsiasi risultato. 
Uomini da difendere di fronte all’indignazione dei fessi, incapaci di percepire le pagine dello sport, o prodighi di quelle frecce e di quelle gogne che non fan parte del pianeta delle fatiche. 
Per parare queste spinte, Felix poteva accettare la decisione di un Goddet di espellere un Taccone che aveva fatto a pompate con Manzaneque, più per rispetto verso il collega, che per reale convinzione: in fondo, il litigio in quel coacervo di difficoltà, poteva anche essere più veniale di quanto non apparisse, come un codice d’onore, da legarsi ai contesti di quel cammino. Ed era per lo stesso motivo che trovò istantanea forza nell’intervenire in una notte di tanti anni dopo, su un nobile nome della bicicletta, affinché la decenza di ciò che quel cervello rarefatto dalle gambe virtuose e rappresentative, non mandasse a quel paese se stesso e, con lui, tutto l’ambiente e la medesima nazione.
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Felix Levitan al centro fra Edith Piaf e Marcel Cerdan

Decideva per il meglio, Levitan, con decoro, senza darsi in pasto a quei colleghi che aveva già percepito come pericolose casse di risonanza dell’effetto, ignari direttamente o indirettamente, del degno o dell’indegno dell’essenza. 
Con Felix non avremmo visto vergognose esclusioni prima della consumazione dell’evento e non avrebbe mai accettato il ricatto d’un insieme che, dall’organizzazione intera del ciclismo, voleva spingere la sua, per una mera questione di quattrini, alla tutela del “Toro Moreno” costruito a nacchera di mito, impedendo il giusto guanto di sfida di un sontuoso talento antico, troppo grande per non apparire anarchico sulla bicicletta.  

Vent’anni fa, questo omino che ha spento i suoi occhi terreni su una delle più belle zone della Francia, aveva capito quel crescendo divenuto così mostruoso negli ultimi otto anni. 
Lui, Levitan, è sempre stato coerente con lo sport, anche quando a vincere non erano i galletti di Francia. Voleva le sfide dei migliori, presentando tracciati in linea col mito e la storia della creatura che presiedeva. Era un grande e lascia col suo ricordo un groppo in gola. 
Caro Felix, nel pomeriggio del 21 agosto ’96, rimasi per un’ora a Le Cannet, con l’intento di deviare il mio itinerario verso la vicinissima Cannes, per venirti a trovare e, magari, grazie ad un amico bilingue, riuscire a carpire qualche perla dalla tua voce. L’avrei fatto per ereditare un patrimonio. Poi, un acquazzone che pareva infinito, mi riportò sulla rotta di Vence e là, su quei colli densi di vegetazione, mentre faticavo ad accettare quella situazione e quell’alloggio, ti pensai fortemente come un’occasione perduta. 
Negli altri dieci anni ad oggi, mai ho avuto la possibilità di rincontrarti. Ora sono qui, a dirti che se ho amato il ciclismo, un po’ lo devo anche a te e, visto che non te lo dice nessuno, ti ringrazio a nome di tutti quelli che han potuto vedere, per aver saputo rendere possibili pagine di un pedale che non ci sarà mai più. 
Ti sia lieve la terra caro Felix. Ma prima di mettere il punto voglio ricordare che Levitan è stato anche questo: 
Fondatore dell'Unione sindacale dei giornalisti sportivi della Francia, nella quale fu Presidente dal 1957 al 1965; Presidente dell’AIOCC (Associazione Internazionale degli Organizzatori di Corse Ciclistiche) per oltre tre lustri; Presidente dell’AIPS (Associazione Internazionale dei giornalisti sportivi) dal 1964 al  ’73. In Francia, fu il creatore dell’Associazione del “Amici del Tour de France”, nonché Membro dell’Accademia Francese degli Sport dal 1957.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
La tragedia del Parco dei Principi.... André Darrigade investe il "giardiniere"

La tappa finale del Tour de France 1958, che si concludeva a Parigi, nel Velodromo del Parco dei Principi, resterà perennemente impressa per una tragedia che, per la sua dinamica, ha dell'incredibile. 
Il gruppo, praticamente compatto giunse sull'anello, per disputare uno sprint che aveva in Andrè "Dedé" Darrigade il favorito, per due motivi: era cresciuto in pista proprio come velocista e nel già tanto vinto prima di quel sabato 19 luglio 1958, le prove più importanti le aveva colte su finali simili; inoltre, era in gran forma, avendo vinto due giorni prima a Besancon la sua quinta tappa in quel Tour. 
La volata si stava consumando nella direzione voluta dal francese delle Lande, detto anche il "basco saltellante", quando il "giardiniere", nomignolo col quale Constant Wouters passerà alla storia, penso di intervenire. Chi era costui? Di origine belga in quanto nato a Deurne, nelle vicinanze di Anversa, il 26 ottobre 1889, Wouters era cresciuto a Parigi, ed aveva passato decenni al servizio del Velodromo del Parco dei Principi, la sua vera casa. Il giardiniere, effettivamente, era stata sua mansione agli inizi, ma nel 1958, già da anni ricopriva ben altro ruolo: era infatti il Segretario Generale dell'impianto. Un uomo di cui si conoscevano dedizione, dinamicità, generosità e quegli slanci che poi, furono essenzialmente la causa della tragedia. Probabilmente preoccupato per i fotografi che si stavano ammassando in posizione pericolosa sul rettilineo d'arrivo, Wouters, dal campo si precipitò ai margini dell'anello, ad una quindicina di metri dalla curva, gesticolando affinché i quegli uomini si appostassero in posizione più interna. Nella foga, non s'accorse che era lui ad aver superato la superficie terrosa, fino ad inserirsi all'interno dell'anello, in quella che viene definita la "fascia di riposo". Lì stava sopraggiungendo a non meno di 60 kmh Darrigade, che era stato bravo a guadagnare la corda ed a guadagnare un vantaggio che gli avrebbe sicuramente garantito il successo. L'impatto violentissimo fu inevitabile e le conseguenze terribili. 
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Trasportati immediatamente al vicino ospedale di Boucicaut, entrambi senza conoscenza, Dedé, seriamente ferito alla testa, rinvenne dopo circa mezzora e se la cavò con un mese abbondante di cure e terapie. Ritornò alle gare a fine ottobre nella "3 giorni di Morvan". Per Wouters, le conseguenze furono letali: non riprese mai conoscenza, ed il 31 luglio morì. Fu sepolto al cimitero di Bagneux, l'8 agosto. 
Quella tappa fu vinta da Pierino Baffi sul francese Jean Graczyk e agli italiani Gastone Nencini e Arrigo Padovan. Il Tour andò a Charly Gaul.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#3
Ricordi…..

Come tanti, anch’io preferisco la montagna e gli scalatori, ma fin da bambino tenerissimo, ho istintivamente voluto immedesimarmi nei segreti e nelle particolarità di ogni gesto possibile sulla bicicletta, senza esaltare le differenze simpatetiche, ed alla fine, grazie a questa impostazione, ho salvato la passione per questo sport, dalle sue traversie, non piccole, e dai suoi pessimi dirigenti, i peggiori dell’intero sport mondiale. Lo stesso m’è capitato per l’atletica leggera ed altre discipline, perché sono tante quelle che si compongono di diverse variabili. 
Ivan Quaranta mi colpì subito. Erano i primi di giugno del 1992, quando al velodromo di Forlì, Sergio Bianchetto, un simpatico amicone, riuscì a proporre una riunione internazionale preolimpica, con quasi tutti i migliori pistard mondiali, ed un parter di tecnici, dal passato così glorioso, da farmi divertire e piangere d’emozione, nel formulare quelle somme di titoli che si spingevano fino a numeri da brividi. L’amico Mauro Orlati, allenatore di grande valore, nonostante l’impegno verso il fantasioso e formidabile talento di Adler Capelli, appena vide i miei occhi roteare impazziti dalla soddisfazione di trovarmi su quel “mare”, prese subito la palla al balzo per urlarmi: “Hei Maurizio, non spendere tutta la voglia e il tuo sapere, perché in Polisportiva ti vogliono anche domani!”.
Già, avevo lasciato palestre, campi e atleti, per prendermi una giornata che ancora oggi definisco storica. 
Conobbi Daniel Morelon, che mi riempì di “mercì”, ebbi la prova che il colossale mattacchione Michael Hubner, avrebbe potuto lussare, con la forza della sua mano destra, anche la spalla di Tyson. L’esaltazione dei momenti, mi donò improvvise ed inaspettate capacità di rendere il mio inglese maccheronico, come gli spinaci di Popeye, fino al punto di avvicinare Gary Neiwand, l’australiano amico-avversario del gigante tedesco e scherzare con lui, infarcendo il tutto con spaccati di riferimento sullo sport aussie. 
Diventai un’attrazione (forse la mia più grande impresa di intrattenitore pazzoide…) al punto che Neiwand, prima di salire in pista per i 200 lanciati, mi promise il record di quel vetusto anello e dopo aver percorso la distanza con tanto di primato, mi salutò strizzando l’occhio, alzando contestualmente il pollice destro. 
[Immagine: 7u4A8URLsTGaZUlHcOdxYl-w9Y8UzlVxPfVliyqi...FKmIvDt4H2]
Michael Hubner

Fenomeni che si stavano sfidando con gli sguardi attenti di altrettanti fenomeni solo moderatamente appannati dai capelli grigi e da una tuta. Raggiunsi il professor Massimo Marino, più anziano di me di un paio d’anni, che ben conoscevo, a cui ricordai quando 23 anni prima, sul medesimo impianto, seppe vincere il suo primo titolo tricolore nella velocità, fra gli esordienti. Al tempo, Marino, era il direttore tecnico dei velocisti juniores, uno che era riuscito a costruire quella scuola dello sprint che poi, il Ceruti (“Non voglio gli uomini michelin!”) disintegrò. Già, in pochi anni, podi e titoli iridati erano piovuti su quell’italica velocità che già allora sentiva come un freno enorme, la mancanza di quell’impianto coperto in possesso di tutti, in Europa. Eppure, nonostante questo neo, dopo il titolo di Gianluca Capitano, il tecnico romano, era riuscito a strappare ad altri sport, fino a farlo emergere con tanto di iride, quel mostruoso talento atletico che rispondeva al nome di Roberto Chiappa (l’ultimo 99esimo percentile, di cui sono a conoscenza, passato al ciclismo). A Massimo, chiesi subito cosa bolliva nel suo “pentolone magico” e lui mi rispose che non era facile sostituire uno come Roberto (nel frattempo divenuto dilettante e subito 4°, a soli 19 anni, alle Olimpiadi di Barcellona…), ma c’erano diversi ragazzi interessanti che avrei potuto osservare di lì a poco. 
“Verrò a chiederti un parere su di loro dopo” – aggiunse strizzando un occhio.

In quel vortice di emozioni dato dalla miriade di stelle in gara, quella sua frase mi incuriosì e la presi come un impegno. Neanche il tempo di scambiare qualche battuta con Capelli (prima o poi dovrò pur scrivere su di lui qualcosa…!) e di spostarmi nella postazione ideale per vedere al meglio i ragazzi di Marino, che un giornalista RAI (non più visto e sentito) mi venne a rompere i cosiddetti, per chiedermi di aiutarlo per il servizio sulla riunione. Fui di uno sgarbato da schiaffi: “Vai in onda a mezzanotte e trenta, in differita, e vieni qui a rompermi le palle tre ore prima, per 45 secondi di servizio? Dai, vai a cuccia, che il testo te lo scrivo in due minuti, dopo la finale del mezzofondo!” Quel tipo, era così mollusco o impaurito, che digerì i miei ragli, come fossero foglie d’insalata. 

La finale della velocità juniores si corse a tre e in un’unica prova. Ricordo che appena un assistente di giuria mi passò le generalità del terno allo start, vedendo il cognome Quaranta, pensai fra me e me: “Vediamo se Quaranta fa novanta!”. Il ragazzino lombardo però, più che novanta, fece cento. Nella curva antecedente il rettilineo, era terzo e nonostante la velocità elevata, uscì a schizzo da quella posizione, rimontando Gambareri, fino a tagliare il traguardo con una mezza bicicletta sul secondo, ed una sul terzo. Ebbi la netta sensazione che fosse di un’altra categoria. Sensazione che si confermò guardando il suo fisichetto non certo corazzato e il tempo impresso sul tabellone luminoso dei cronometristi, dove imperava un significativo 11”4 sugli ultimi 200 metri. Quando vidi Marino venirmi incontro, lo anticipai: “Vecchia volpe romana, mica mi avevi detto che avevi un altro fenomeno nel cilindro!” 
“Beh …non volevo rovinarti la sorpresa…” – rispose sorridendo. 
Nel vortice d’ammirazione che sempre mi coinvolge nel vedere qualcosa di non comune, continuai: “Ai Mondiali di Atene, nonostante quel francese omonimo del grande Rousseau, di cui si dice un gran bene, questo Quaranta, può succedere a Chiappa. Sarà durissima, ma se riesce ad imbrigliare la potenza e la velocità prolungata del transalpino che dicono sia un gran chilometrista, impostando una volata corta, il ragazzino di Crema, con quella esplosività da fulmine, non lo batte nessuno. E tu lo saprai pilotare al meglio affinché ciò avvenga!” 
“Dici bene, ed è quello che faremo se dovessimo scontrarci col fenomeno francese. Vuoi venire con noi?” 
“Magari potessi!” – gli dissi mentre tornavo al mio lavoro ….di divertimento. 
Già, fossi stato ad Atene, mi sarei messo a piangere di gioia, perché l’Ivan di Crema, col suo fisico non culturista, dopo aver vinto i Tricolori della specialità dominando, giunse ai Mondiali greci col piglio responsabile, di dover difendere la scuola di Massimo, dall’astro transalpino. I due non si scontrarono in finale, bensì in semifinale. Quaranta, fu perfetto nel disegno tattico, impostando la prima volata sulla brevità dello spunto, ponendosi in testa nella classica andatura da ricerca di surplace, ma abbastanza alto, in modo di chiudere un eventuale anticipo di Rousseau. Ivan ben sapeva che lo scatto, per lui così esplosivo e brevilineo rispetto allo statuario francese, gli avrebbe dato qualche carta pregiata. Si portò sull’uno a zero così, come quei pistard dei tempi lontani che basavano tutto il loro meglio sull’estro e la fantasia, piuttosto che sui muscoli. 
Nell’altra prova, Rousseau, cambiò atteggiamento, cercando di svolgere la propria lunga volata per fiaccare il guizzo del cremasco, ma sbagliò i conti, perché per riuscire nell’intento, avrebbe dovuto proporre uno sprint come fosse stata una gara sul chilometro. 
Ivan, pur stringendo i denti, gli si pose a ruota e fu ugualmente capace di giocare il suo schizzo negli ultimi cinquanta metri. Lo rimontò raschiando il fondo delle sue fibre velocistiche, ma vi riuscì, prendendo per mano quella maglia iridata che poi, in finale, al cospetto del russo Bokhanisevk, raggiunse compiutamente.
Ciò che ha poi fatto vedere Rousseau (dalle medaglie d’oro e d’argento alle Olimpiadi, ai sei titoli mondiali, fra chilometro e velocità, nonché un’infinità di gran premi…), che, si badi, pur avendo il medesimo millesimo di nascita di Ivan (1974), è, nei fatti, più anziano di quasi un anno (primi di febbraio contro metà dicembre), danno a chi si pone di fronte a Quaranta, un primo ed inconfondibile metro del suo talento velocistico.

Dopo la grande stagione ’92, ebbi diverse volte occasione di parlare col cremasco. Quando veniva ai collegiali di Forlì assieme a Roberto Chiappa, trovavo sempre il tempo di prendermi un permesso per raggiungerli e poi, magari, pur di finire i colloqui, mi prestavo con l’Espace della mia Sanson, a portarli in stazione. Due talenti simili, al pari di Capelli e del ravennate Andrea Collinelli, erano manna per la mia passione verso la pista, ed averli vicino alla sede della Politecnico dello Sport, come amavo chiamare la mia polisportiva, rappresentava per me una variabile nuova di conoscenza di quell’insieme di reattività, caratteri e particolari tecnici che si fondono in un atleta. Ed i pistard, alle doti che si richiedono ad un ciclista, aggiungono spesso quell’imprevedibilità pazzerella ed il virtuosismo magari masochista o esageratamente da mattacchioni, che sono come il pane per uno come me che, al tempo, viveva in mezzo agli atleti, ed era sovente chiamato ad aggiungere al ruolo, quello di fratello maggiore, amico o  psicologo.
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2012 - Ventennale della vittoria ad Atene: il Prof Marino con Ivan Quaranta

In quegli anni, praticamente fino all’esordio fra i professionisti, quando incontravo Ivan, gli dicevo sempre di non abbandonare mai completamente la pista, anche se nella velocità era chiuso per la trasformazione tecnica e fisica dei velocisti. Sui velodromi avrebbe trovato lo spazio su altre specialità dove il suo talento indubbio, sarebbe stato in grado di emergere con forza. 
“Se passerai alla strada – gli dicevo - fallo ricordandoti di Peter Post, che arrivò a vincere la Roubaix alla media record (ancor oggi ineguagliata) senza mai abbandonare le sei giorni dove era un re e pure le altre specialità. Tu sei più veloce di Peter, non dimenticarlo, ma hai le fibre bianche più fragili e devi saper convivere con loro, senza distruggerle concependoti totale stradista. Devi saper sfruttare le tue doti, il guizzo, la scaltrezza, le tue punte di velocità che sono una rarità. Da professionista troverai i treni alla Cipollini, ma tu hai l’abilità per anticiparlo nell’acuto e, magari, col solo aiuto di un compagno, inventare quelli che erano gli sprint di una volta”.

Il ragazzo nei primi anni mi donò soddisfazioni a iosa, perché i suoi sprint erano una lezione di quello che da bambino avevo cementato in me come l’arte del velocista, con un solo compagno al massimo ad aiutarlo. Quaranta stava proponendo, senza saperlo, una rivoluzione sulla via di quella che Marco Pantani stava tracciando sui monti: il pirata ci faceva tornare ai tempi di Gaul e Bahamontes, superando in tanti contesti l’ultimo mohicano Fuente, ed Ivan ci donava le sensazioni che ci avevan donate, per ultimi, Maertens e Van Linden a metà degli anni settanta. Certo due mondi diversi e due spessori diversi, ma la menzione di segno ci sta tutta. 
Nel 1999, nella tappa di Cesenatico al Giro, vidi per l’ultima volta Quaranta. A poco meno di duecento metri dal traguardo, anticipò Re Leone Cipollini, con uno scatto al fulmicotone, come aveva fatto con Rousseau in pista. Fu un capolavoro d’intuito e di qualità velocistiche che mi dimostrò, con le sensazioni ineguagliabili del vivo, il medesimo spunto che l’aveva reso vincente ai danni di Blijlevens e Supermario, in quel di Modica, nella tappa inaugurale di quel Giro.
Ivan era un vero “ghepardo”, proprio come il nomignolo che iniziò ad accompagnarlo nell’osservatorio più largo.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#4
Grazie Maurizio Applausi Applausi Applausi
 
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#5
Nella nascita della leggenda di Alì, c’è un motivo ciclistico…… nel senso più antropologico.....

[Immagine: 1200px-Muhammad_Ali_NYWTS.jpg]

Cassius Clay, non ancora Muhammed Alì, nacque a Lousville, nel Kentucky, il 17 gennaio 1942, figlio di Cassius Marcellus e di Odessa. Il baffuto padre possedeva una marcata vena artistica rattrappita dalla condizione sociale e dal “vizietto” di alzare sovente il gomito. Si guadagnava da vivere incantando la gente per strada, suonando e cantando, o disegnando santi sui marciapiedi. Spesso, i danari raccolti, servivano a dare carezze all’amico alcol per la disperazione della moglie, anch’essa con una evidente vena artistica, sfogata nella preparazione di opere da cucina. Cuoca sopraffina, Odessa, al punto di essere chiamata spesso a portare la sua arte nelle occasioni speciali di un ristorante vicino. Lei, la madre, già rotonda, come molte nere quasi a voler essere inversamente proporzionale alla miseria, guardava il figlio Cassius come un dono sublime, perché sapeva quanto fosse oggettivamente bello e perché era così loquace, da farle quella compagnia che il marito, spesso lontano di corpo e di mente, non sapeva darle. Il piccolo, meritava le sue amorose attenzioni, anche se agli studi preferiva l’osservazione diretta delle cose, al punto di stupire i più, per il suo acume. Il ragazzino aveva dodici anni, quando il padre, per niente persona priva di sentimenti e la madre, mettendo assieme i loro risparmi, gli regalarono una bicicletta. Un dono gradito e di grandi dimensioni per una famiglia povera come la sua. Il piccolo Cassius lo sapeva bene e guardava quel cavallo d’acciaio, con un condensato di gratitudine e di responsabilità. Ma ebbe poco tempo per pensarci, in quanto, quello stesso giorno, la bicicletta, gli venne rubata. Il ragazzino, con un groppo in gola ed una rabbia fuori dal comune, iniziò a cercarla dappertutto, ma senza risultati. Decise così di rivolgersi a un poliziotto, Joe Martin, conosciuto da tutti per le sue frequentazioni alla Columbia Gym, una palestra dove si insegnava pugilato. Cassius andò nella struttura rimanendo incantato nel vedere quei ragazzi bianchi e neri che si allenavano. Martin lo capì e gli chiese di allenarsi con gli altri: “Sai, la boxe – esordì – potrebbe essere uno sport adatto a te. Intanto io ti prometto che farò di tutto per ritrovare la tua bicicletta!” 
Quelle parole e l'idea d'imparare a reagire ad eventuali soprusi, ebbero un potere pressoché decisivo nella nascita della sua leggenda.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#6
Gibì Baronchelli: la vicenda di Foppolo 1986.

Ogni corridore, come qualsivoglia atleta, possiede un “nascosto”, una verità intima, su fatti, vicissitudini e particolari, che può tenere con sé fino al punto di non ritorno, o confidare a persone stra-fidate. Un tempo, fra queste, c’era anche qualche giornalista, oggi costoro sono quasi del tutto spariti. Segno dei tempi, o morfologia d’un mestiere definito tale da un certo Benito Mussolini, che s’è involuto? Poco importa, non è tema di dibattito. Quel che è certo è che il nostro Tista Baronchelli, di verità particolari, ignorate, oscure o mai narrate, ne possiede come più o meno tutti. Forse quella di Foppolo, nel Giro ’86, non è nemmeno la più grande. Perlomeno il sottoscritto ne è convinto. 

Per tentare di spiegarla al meglio, senza pretesa alcuna, salvo il semplice approfondimento, occorre partire un poco prima di quel 27 maggio 1986. 
Userò questa prassi, anche a costo di essere logorroico…


Un ciclista del passato, grandissimo dilettante, che ha lavorato tanto per il Tista in uno dei più bei successi di questi, mi disse che per quanto particolare e abbastanza introverso, Gibì Baronchelli, non avrebbe mai fatto con una certa facilità la figura del “pirla” o del debole, pur di togliersi un “peso” o, come solitamente si dice, “per dispetto”. Recepii quel messaggio con una punta di sufficienza e la legai in qualche modo alla comunque breve esperienza che quel corridore aveva consumato accanto al Tista. Poi però, cominciai a dar ben più credito alle sue parole, quando, parlando malissimo, come tanti altri del resto, di un’icona del ciclismo nostrano, arricchì quel giudizio con una serie di particolari che gli altri avevano in gran parte omesso o reso generici. “Vuoi vedere che questo verace, ha il dono di una sincerità più spiccata? – mi chiesi. 

La Supermercati Brianzoli, in un’epoca decisamente migliore dell’odierna in quanto a genesi, consistenze e morfologie dei sodalizi (altro terreno sul quale è stata iniettata la siringa di cianuro dell’organizzazione cancerogena di Aigle), non era nata per Moser. S’era formata nel 1984, sulle ceneri della Mareno Wilier Triestina, la squadra d’esordio al professionismo del MdS Gianluigi Stanga e, nell’anno della determinazione tra le protagoniste del movimento professionistico italiano, ovvero il 1985, era formata da “soli” 10 corridori (una normalità nel periodo): 8 lombardi, un biellese, ed un abruzzese ormai lombardo. Un dato comunque raro nella storia ciclistica. L’arrivo di Moser dalla Gis, nel 1986, fu semplicemente un innesto, perché dei vecchi compagni di squadra del trentino, i soli Giuliani e l’austriaco Maier lo seguirono. Chi ha fatto squadre in uno sport individuale, ma delle intense e particolari tinte di squadra come il ciclismo, sa cosa significano le constatazioni elencate sopra. In altre parole in una Supermercati Brianzoli che voleva crescere, l’acquisto dell’asso trentino, certo già trentacinquenne, non aveva i connotati di una semi-fusione, bensì l’innesto del capitano. Anche sotto l’aspetto tecnico, perché l’aggiunta di Enzo Moser a Gianluigi Stanga come diesse, non era proprio un rafforzo: in fondo, l’Enzo, era il fratello del ……capitano.

Il silenzioso Gibì, all’alba della stagione 1986, poteva esibire esperienze in formazioni dove s’era trovato a convivere con big o galletti, in numeri sufficienti per capire se eventuali frizioni di squadra o di personale disagio, dipendevano dal suo carattere e dalla sua supposta introversione. Non aveva però mai corso con Moser, che era il soggetto più difficile col quale convivere, per come i due erano fatti. Tra l’altro, il corridore lombardo, aveva non poco subito l’invadenza della tifoseria moseriana, prima della “strana unione” nella Supermercati Brianzoli, avvenuta, non dimentichiamolo, a 33 anni per Gibì e 35 per il trentino. In poche parole, non ci fosse stato un contratto a monte, Gibì non avrebbe mai messo nero su bianco, verso un sodalizio ove correva Moser. 

Alla vigilia del Giro d’Italia, che il capitano della Supermercati Brianzoli fosse Moser, lo vedeva chiunque, ma era altrettanto vero che a Baronchelli era stato promesso, per logica e/o semplice intelligenza, un ruolo importante nel caso la corsa si fosse messa in un certo modo. Era, tra l’altro, la via migliore per far partire in maniera più tranquilla un Gibì che, per storia e carattere, mal avrebbe accettato un ruolo di gregariato senza uscita alcuna.

Ed il Giro, per Gibì, si mise presto nel modo migliore per far valere le sue possibilità. La terza tappa, consistente in una interstorica porcheria se inserita in un GT, ovvero la cronosquadre, portò da una parte Saronni in rosa e, dall’altra, sanzionò un ulteriore ritardo ad uno dei favoriti, lo statunitense Lemond. La Supermercati Brianzoli, grazie al secondo posto a 9” dalla Del Tongo, consentì ai suoi uomini più illustri di occupare i vertici della classifica, alle spalle del leader Saronni (Moser a 10”, Thurau a 12”, Corti a 14” e Baronchelli a 16”). Nella 4° frazione che si concludeva sulla collina di Nicotera, il Tista, con un fulmineo attacco a due chilometri dal traguardo, vinceva in solitudine, guadagnando pure quella maglia rosa che aveva inseguito per 13 anni. La sua gioia fu tale, che trattenne a stento le lacrime. Moser giunse secondo regolando la volata del gruppo inseguitore con tutti i migliori. Per il gioco degli abbuoni (in epoca “mosersaronniana” erano davvero generosi!), la classifica di quella sera vedeva Baronchelli anticipare di 17” il trentino e di 22” lo scalzato Saronni. Nel Tista dunque, si fece largo la convinzione di dover essere preso in considerazione nella squadra, perlomeno come “semicapitano”. 
                  [Immagine: 150382467218495Baronchelli,GianBattista.jpg]

Nel primo giorno col rosa addosso, Baronchelli ebbe una prima pessima sensazione a proposito degli equilibri di squadra. La tappa che si concludeva a Cosenza prevedeva nel finale la salita del Passo della Crocetta, un’ascesa che sfiorava i mille metri e con la cima a 27 chilometri dal termine. Qui Moser andò in bambola e tutta la Supermercati se lo coccolò, lasciando Baronchelli davanti, da solo, con tutti i migliori che se le stavano dando di santa ragione. Sulla cima passò solitario Visentini, con una cinquantina di secondi sul Tista, poi, nella difficile discesa, dove Moser perse ulteriore terreno (aspetto davvero insolito per uno come lui), avvenne il ricongiungimento davanti e nel finale, in contropiede, partì Lemond che vinse la frazione. Saronni col secondo posto e gli abbuoni raccolti, arrivò quasi a ruota del Tista sul foglio rosa: solo 7” dividevano i due. Gibì, innervosito, commentò non bene l’accaduto all’interno della squadra. Pensava: “Okay aiutare Moser, ma proprio tutti destinati lì? E se avessi ceduto un poco anch’io? Mi avrebbero attaccato tutti di sicuro…”. I malumori di quella serata, inoltre, confermarono quello che già sapeva da anni, anche col rosa addosso, tutta la stampa seguiva Moser e Saronni, quindi, non c’era da stupirsi se tutta la Supermercati pensasse a Moser… 
A Potenza, nella successiva frazione, Baronchelli perse il rosa, che, per il gioco degli abbuoni, premiò ancora una volta Saronni. La tappa però, fu appannaggio di Roberto Visentini  che stava mostrando una forma e delle qualità notevoli, come sempre ben poco notate dalla stampa, che aveva occhi ed orecchie solo per i soliti due.

Dopo giorni di corsa, con in mezzo pure la scalata del Terminillo (distante però dal traguardo) e un sostanziale nulla di fatto ai vertici, a parte la crescente dimostrazione di vivacità di Visentini, si giunse alla cronometro di Siena. Per Gibì, quella era una prova doppiamente importante: se voleva avere qualche considerazione ulteriore in squadra, non poteva andare troppo male al cospetto del superfavorito “capitano” Moser. Ed il responso del “tic tac”, fece capire chiaramente che il trentino (finendo 10°) non avrebbe potuto vincere quel Giro (“Ora vorrei soltanto andarmene a casa” – disse a fine tappa Francesco); mentre il Tista si difese abbastanza bene, chiudendo a soli 10” dal capitano. Vinse il polacco Piasecki che anticipò di soli 7”, un sempre più convincente Visentini. Saronni finì 3° a 30” e rafforzò il primato in classifica. Gibì, nella serata senese, manteneva il secondo posto nella generale, ma con uno svantaggio allargatosi a 1’18”. Una situazione peggiorata in chiave Giro, ma migliorata negli equilibri all’interno della Supermercati Brianzoli. Era quello che il Tista pensava, ed assieme a lui anche quella microbica nicchia d’osservatorio che non percorreva il ciclismo interamente sul duo. Ma l’ottimismo del bergamasco era davvero senza ombre?

Il disagio di Gibì, infatti, continuò, anche perché nella Supermercati, forse per ricaricare il morale di Moser dopo l’infelice cronometro, si preparò con connotati altisonanti verso il trentino, la difficile tappa di Sauze d’Oulx di due giorni dopo la crono. Così pensò Baronchelli perlomeno, anche lungo la prima parte della Savona-Sauze d’Oulx. Già, perché secondo il vecchio gregario di Moser Stefano Giuliani, lanciato in una fuga a lunga gittata partita assai prima del Sestriere, la sua azione era dovuta ad un accordo coi tecnici Stanga ed Enzo Moser, per fungere da punto d’appoggio a Baronchelli o a Corti sulla salita d’arrivo. Fatto sta, che il Tista, forse in giornata storta, o in leggera crisi nervosa, temprata magari da quei “complimenti” che i tifosi moseriani ogni tanti gli facevano, si mostrò diverso dai giorni precedenti e vulnerabile alla battaglia che stava imperversando fra Visentini e Lemond, con la maglia rosa Saronni sull’ovvia difensiva. Per giunta il Moser, incollato alla ruota del leader della classifica, trovò nelle pendenze non aspre, ma lunghe, del Sestriere e di Sauze d’Oulx, la sua giornata migliore, non facendosi staccare troppo dai primi. Cosa che capitò, per quanto in maniera leggera, proprio a Gibì. A fine tappa (vinta dall’occhialuto irlandese Martin Earley), infatti, il bergamasco rese 59” a Visentini e Lemond, 43” al compagno Corti e 33” a Saronni e Moser. Il foglio rosa di giornata lo vide così scavalcato da Visentini, ma terzo, a 1’51” dal leader Saronni. 

Il comportamento di Corti, rimasto sempre accanto a Moser e poi solo nel finale uscito (magari su suggerimento del trentino), quando la tenuta del capitano s’era concretizzata, era l’oggetto principale del nervosismo di Gibì. Per lui era una dimostrazione, di quel che stava avvenendo da tempo in seno alla squadra. La tappa di Foppolo, di due giorni dopo, probabilmente la più dura del Giro, ne avrebbe potuto dare conferma.

La Erba-Foppolo di soli 143 km, avente nel finale ed in successione il duro Passo San Marco e l’erta finale della località dell’alta Val Brembana, fu dunque il teatro di una storia che aveva probabilmente origini più lontane, perlomeno nell’equilibrio del Tista. Sul Passo San Marco Baronchelli attaccò e sulla sua sortita rimasero in testa in cinque, oltre a Gibì: Visentini, Lemond, Chioccioli, Corti e lo spagnolo Pedro Munoz. Saronni con a ruota Moser scollinarono in cima ai 1985 metri del San Marco a 2 minuti. In un paesaggio innevato, con una temperatura di poco superiore allo zero ed una resa pericolosa dal nevischio arrivante (Corti scivolò, ma si rialzò subito), i fuggitivi persero terreno rispetto agli inseguitori, tirati da Saronni. La salita finale vide invece aumentare il nervosismo di Gibì (qualche ennesima offesa dal pubblico?)  anche perché Corti stava perlopiù alla sua ruota. E quando Visentini attaccò, si trovò in debito (nervoso e fisico) al punto di perdere qualche metro di troppo, mentre Corti, dopo un attimo di titubanza, uscì dalla sua ruota e rientrò. Lì, il Tista, ebbe la risposta che la sua mente aveva maturato in quei giorni e si lasciò andare, anche se sul traguardo, il suo distacco dal vincitore Munoz (che approfittò al meglio di un guaio meccanico a Visentini), non fu da crisi vera e propria: 1’23”. La classifica, a Foppolo, vedeva Gibì ancora terzo, ad 1’51” dalla nuova maglia rosa Roberto Visentini che anticipava Saronni di 1’06”. Nella carovana intanto era giunta la terribile notizia della morte, dopo sedici giorni di coma, di Emilio Ravasio. 

Cosa avvenne nell’albergo della Supermercati Brianzoli? Baronchelli litigò con Stanga (che era il suo diesse di riferimento - nonché amico secondo il tecnico - perché con Enzo Moser non parlava o quasi), evidenziando con rabbia le diversità di comportamento di Corti, rispetto a lui e Moser, ed aggiunse tutto quello che aveva, a suo giudizio, vissuto nel Giro fin lì consumato. Gli disse che si sarebbe ritirato e che non gliene fregava niente del terzo posto in classifica. Stanga avvisò il presidente della Supermercati, Pedrinelli, che si precipitò a raggiungere l’albergo per la riunione del caso. Incontro che avvenne in serata, presenti: il presidente, i due Moser, corridore e diesse, Stanga e Baronchelli. Il Tista mantenne la sua decisione di ritirarsi, ed a malapena fu stilato un comunicato che doveva fungere da versione ufficiale, di un ritiro per problemi di salute. Il giorno dopo, mentre Stanga, arrampicandosi sugli specchi, cercò di spiegare le condizioni di salute del Tista, Enzo Moser si lasciò andare ad un: “Sto Gibì e proprio un bel pistola”. 
Qualche ora dopo andando fra le righe delle dichiarazioni dei coinvolti, si ebbe un quadro più credibile di ciò che avvenne. Vediamole un po’…

“Mai sognato di far scenate a Baronchelli - disse Francesco Moser - gli ho solo detto che era assurdo ritirarsi quando si è così ben piazzati in classifica. Sono andato in camera a convincerlo, ma non ha voluto sentir ragioni. Anche se stava male, queste due tappe erano delle passeggiate”. 

Gianluigi Stanga, invece, dopo essersi detto sconcertato, dichiarò: “È vero: ho detto che se non lo avessi visto in faccia (per le supposte condizioni di salute del Gibì), avrei pensato che si fosse venduto. L'ho detto per difenderlo da chi lo aveva criticato (il presidente Pedrinelli) per la sua fuga sul San Marco con Lemond e Visentini. La frase, poi, gli è stata riferita e lui si è offeso. Perché non mi ha parlato? D'accordo, è un tipo sensibile, ma sono suo amico e l'ho sempre difeso anche da chi, in passato, lo aveva bastonato. Cosa succederà? Non lo so, di sicuro il rapporto si è ormai incrinato: Baronchelli? È offeso e umiliato. È chiuso in casa e non risponde neppure al telefono”. 

Era evidente che qualcuno di importante e decisivo nel team (il Presidente Pedrinelli) aveva violentemente accusato il Tista di essersi venduto, ed il tentativo di Stanga di rappezzare in qualche modo l’infortunio fra i due, era finito nel goffo impresentabile. Venduto, fra l’altro, per aver attaccato chi? Era forse un compagno-capitano questo chi? E che cosa stava a fare il terzo in classifica, se non “poteva” attaccare per migliorare la posizione? Come dire: “Esegui gli ordini, che sei pagato per questo”.

Fatto sta che a giugno, il Tista, probabilmente licenziato, o con rottura del contratto consensuale, fu libero di accasarsi altrove. Si trattava di un caso raro nella storia ciclistica. Per taluni giornali di allora avrebbe significato poco perché il Tista era un corridore finito. Invece, il silenzioso Gibì, tornando con quel Saronni col quale, evidentemente, aveva convissuto in maniera più decente, dimostrò a quell’osservatorio poco illuminato, di aver preso una sonora cantonata, andando a dominare, tre mesi dopo, il Giro di Lombardia.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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