08-05-2012, 10:10 PM
W le partenze all'estero
Il Giro torna in Italia, c’è almeno un innegabile vantaggio: si chiude il piagnisteo patetico e demagogico di quelli che “come fa il Giro d’Italia a partire in Danimarca?”. In tutti questi giorni ci hanno rotto le scatole con le loro domande fintamente ingenue – “se si chiama Giro d’Italia, perché andare all’estero?” – e con i loro pistolotti moralisti, del tipo “è finita la visione romantica della corsa rosa, ormai domina il business”.
Ma tu pensa la scoperta. Ma tu pensa l’indignazione. Viviamo in un mondo e in un’era (glaciale) dove contano solo denari e interessi, la gente vende tranquillamente madri e figlie per un minimo guadagno, e proprio in mezzo a questo bel mondo evoluto soltanto il Giro d’Italia dovrebbe vivere di poesie e candori. Ma che vadano al diavolo, queste anime belle dal cervello seppiato. Non prendiamoci in giro, non raccontiamoci favolette: all’estero, quanto meno a Groeningen, ad Amsterdam, a Herning, restando agli ultimi tre sconfinamenti rosa, il Giro ha trovato sempre quello che in Italia fa sempre più fatica a trovare. Cioè calore umano di folle festanti, passione degli amministratori locali, finanziamenti cospicui, certi e puntuali. Soltanto quest’ultimo capitolo, ultimamente, non è cosa da poco: lo sanno tutti che tanti comuni italiani dei Giri passati ancora non hanno pagato il concordato, e chissà quando mai si decideranno a farlo, con i tempi che corrono. Passando poi al ramo passione popolare e festa rosa, non c’è proprio gara: le partenze in questi Paesi ciclofili è qualcosa che resta nel cuore e nella memoria. Tutte le comunità in strada, bandiere rosa ovunque, rosa le fontane, rosa le aiuole, rosa i capelli e le guance dei meravigliosi bambini biondi.
Questa è la partenza del Giro all’estero, là dove il Giro è ancora un evento storico. Un successone clamoroso e toccante. Dentro i nostri confini non si può sempre dire lo stesso. Ricordo alcune partenze gelide e imbarazzanti. Ricordo vigili incazzati come bisce perché devono lavorare agli incroci, automobilisti sclerati pronti a fare stragi di ciclisti, passanti che chiedono infastiditi quando saranno rimosse le transenne. Ostilità e tuttalpiù sopportazione, questi gli ingredienti umani di troppe partenze rosa. E più la località è grande, più è palpabile il disgusto. Io mi sono fatto una mia teoria, sull’impietoso confronto: all’estero non vedono l’ora che il Giro arrivi, in Italia non vedono l’ora che se ne vada. Questa la vera differenza.
Quanto poi alla domanda idiota – “se è un Giro d’Italia, perché portarlo all’estero” – non c’è bisogno di sprecare troppo tempo. Cerchiamo di esportare macchine sportive, moda, gastronomia, piastrelle, scarpe e borsette, perché mai non dovremmo esportare anche questa griffe sportiva, una delle ultime eccellenze che ci restano, soprattutto là dove la amano così tanto e dove ce la pagano così bene?
Lo confesso: sono solo felice di ricominciare a vagare per città, borghi e vallate del mio amatissimo Paese, il più bel Paese del mondo nonostante le devastazioni ottuse e palancaie dei suoi abitanti. Però questo non contrasta minimamente con il ricordo bellissimo di queste partenze emigranti: per qualche giorno, abbiamo riprovato il gusto e l’orgoglio di sentirci italiani, invidiati e applauditi da intere popolazioni. Per simili emozioni dovremmo pagare noi, invece ci pagano pure loro.
di Cristiano Gatti per tuttobiciweb.it
Il Giro torna in Italia, c’è almeno un innegabile vantaggio: si chiude il piagnisteo patetico e demagogico di quelli che “come fa il Giro d’Italia a partire in Danimarca?”. In tutti questi giorni ci hanno rotto le scatole con le loro domande fintamente ingenue – “se si chiama Giro d’Italia, perché andare all’estero?” – e con i loro pistolotti moralisti, del tipo “è finita la visione romantica della corsa rosa, ormai domina il business”.
Ma tu pensa la scoperta. Ma tu pensa l’indignazione. Viviamo in un mondo e in un’era (glaciale) dove contano solo denari e interessi, la gente vende tranquillamente madri e figlie per un minimo guadagno, e proprio in mezzo a questo bel mondo evoluto soltanto il Giro d’Italia dovrebbe vivere di poesie e candori. Ma che vadano al diavolo, queste anime belle dal cervello seppiato. Non prendiamoci in giro, non raccontiamoci favolette: all’estero, quanto meno a Groeningen, ad Amsterdam, a Herning, restando agli ultimi tre sconfinamenti rosa, il Giro ha trovato sempre quello che in Italia fa sempre più fatica a trovare. Cioè calore umano di folle festanti, passione degli amministratori locali, finanziamenti cospicui, certi e puntuali. Soltanto quest’ultimo capitolo, ultimamente, non è cosa da poco: lo sanno tutti che tanti comuni italiani dei Giri passati ancora non hanno pagato il concordato, e chissà quando mai si decideranno a farlo, con i tempi che corrono. Passando poi al ramo passione popolare e festa rosa, non c’è proprio gara: le partenze in questi Paesi ciclofili è qualcosa che resta nel cuore e nella memoria. Tutte le comunità in strada, bandiere rosa ovunque, rosa le fontane, rosa le aiuole, rosa i capelli e le guance dei meravigliosi bambini biondi.
Questa è la partenza del Giro all’estero, là dove il Giro è ancora un evento storico. Un successone clamoroso e toccante. Dentro i nostri confini non si può sempre dire lo stesso. Ricordo alcune partenze gelide e imbarazzanti. Ricordo vigili incazzati come bisce perché devono lavorare agli incroci, automobilisti sclerati pronti a fare stragi di ciclisti, passanti che chiedono infastiditi quando saranno rimosse le transenne. Ostilità e tuttalpiù sopportazione, questi gli ingredienti umani di troppe partenze rosa. E più la località è grande, più è palpabile il disgusto. Io mi sono fatto una mia teoria, sull’impietoso confronto: all’estero non vedono l’ora che il Giro arrivi, in Italia non vedono l’ora che se ne vada. Questa la vera differenza.
Quanto poi alla domanda idiota – “se è un Giro d’Italia, perché portarlo all’estero” – non c’è bisogno di sprecare troppo tempo. Cerchiamo di esportare macchine sportive, moda, gastronomia, piastrelle, scarpe e borsette, perché mai non dovremmo esportare anche questa griffe sportiva, una delle ultime eccellenze che ci restano, soprattutto là dove la amano così tanto e dove ce la pagano così bene?
Lo confesso: sono solo felice di ricominciare a vagare per città, borghi e vallate del mio amatissimo Paese, il più bel Paese del mondo nonostante le devastazioni ottuse e palancaie dei suoi abitanti. Però questo non contrasta minimamente con il ricordo bellissimo di queste partenze emigranti: per qualche giorno, abbiamo riprovato il gusto e l’orgoglio di sentirci italiani, invidiati e applauditi da intere popolazioni. Per simili emozioni dovremmo pagare noi, invece ci pagano pure loro.
di Cristiano Gatti per tuttobiciweb.it