“Tours”, una classica che amo…
Se il ciclismo, aldilà del fatto sportivo, può essere un mezzo per un incontro con la storia e la cultura, la Parigi Tours, è senza dubbio una delle classiche più affascinanti. Intanto, perché trattasi di corsa tra le più vecchie, nata nel 1896, quindi coetanea della Parigi-Roubaix, ed una delle prime in assoluto, ad incontrare e cementare il culto del biciclo. È poi l’unica che, dalla capitale di Francia, non si rivolge a nord, ma si spinge verso quel sud, che pare troppo dimenticato dal patrimonio di classiche che il ciclismo ha proposto, aprendo così le porte ad altri itinerari ed intrecci antropologici. Indi, per cospargersi ulteriormente di un fascino sottile, mai sufficientemente reclamizzato, fino a costituirne il limite maggiore in fatto di significati e traduzioni, l’itinerario di questa classica, si dipana su un lungo tratto storico di cui si respirano tangibili segni monumentali. Il finale poi, incontrando il cuore dei Castelli della Loira, ci riporta quello che un tempo era la meta di un corso della nobiltà di Francia, del Re stesso, della sua lunga corte e dei riferimenti intellettuali ed artistici che attorno ad esso si muovevano.
E poi quei Castelli che s’ergono nella regione, lungo quel fiume che ammorbidiva le penne e faceva fiorire intellighenzia e maestosità e su cui non vanno portati altri riferimenti, ovvero quei complementi oggetto superflui, visto l’incanto. Sono circa trecento opere d’arte che hanno spinto l’Unesco a dichiarare la valle che li ospita: “Patrimonio dell’umanità”. Come dire: “se hai i soldi per un viaggio, vai là, a toccare quei muri e rinfrescarti gli occhi nello stupore che accompagna la bellezza”.
Qui, in una valle cosparsa di humus e genialità, Leonardo da Vinci, forse il più grande genio multiforme della storia, scelse di passare gli ultimi anni di vita, trovando nell’intelligenza di Francesco I, che gli donò il Castello di Cloux ed un vitalizio di 4000 scudi annui, una considerazione superiore a quella avuta nella divisa, troppo papalina e contorta Italia.
Leonardo venne sepolto, per suo volere, nella chiesa di San Fiorentino ad Amboise, ma poi, qualche decennio dopo, le guerre religiose del XVI si portarono presso l’ulteriore tragedia materializzata nella stupidità delle profanazioni di tombe ed anche le sue spoglie sparirono senza lasciare traccia alcuna. Esse vagano nello spirito dell’intorno di questi luoghi, scelti dal suo genio per lanciare, con le ultime opere e gli avveniristici progetti, il monito ancor non completamente letto, di una ricerca continua. Fra Amboise, Cloux e Tours, nell’arco di un raggio lungo una trentina di chilometri, fra quei Castelli, di cui, in vita, era riferimento riverito d’attenzioni, gli echi di Leonardo si palpano, donando alla storia la fune della suggestione.
Tanto si potrebbe aggiungere, forse per attenuare la colpevole superficialità che ha cosparso gli organizzatori, nel non portare quel grandioso insieme, a peculiare patrimonio della corsa.
Cosa resta dunque di Tours e di quel magnifico scenario nell’impianto-proposta della classica? Poco, solo qualche eco appassito dal bruciore moderno di classica in decadenza, avente un percorso tecnicamente troppo piatto, per dissetare la foga. Che orrore!
Quante sono le classiche dal tracciato tendente al tavoliere, o senza storia, mal collocate, o con organizzazioni su generis o, addirittura, da neofiti, o assodati incapaci (se guardassimo questi aspetti in Germania non si correrebbe mai!)? E quante sono le classiche che si atrofizzano nel richiamo tipicamente moderno di un’asfissia da danaro?
No, cari signori, la Parigi Tours, sarà pur facile, avrà pure un albo d’oro più povero di grandi nomi, ma è un patrimonio del ciclismo e di ciò che la bicicletta e il suo romanzo, possono richiamare ed esportare. E’ una corsa che grida all’ASO, quell’organizzazione che l’ha spesso sfregiata o tenuta nell’angolo della scopa con relativa polvere, a sviluppare fantasia, ed anziché ricercare una vergognosa riproposta di “Classica delle foglie morte”, brevetto (che schifo di termine, ma tanto è) patrimonio da sempre del Giro di Lombardia, sarebbe un passo avanti degno dell’onestà e del realismo, proporla sotto la voce di “Classica dei Castelli della Loira” o “Classica della nobiltà francese”.
Così, per iniziare a darle un’altra voce su quel fascino che s’è volutamente confuso con una strana miopia, come sempre, per subdolo danaro.
Qualche accenno sulla storia della “Classica dei Castelli della Loira”.
Non furono problemi organizzativi, come scritto in taluni testi e da giornali, anche la Gazzetta mi pare, a riproporre le prime tre edizioni a cadenza quinquennale, ma una precisa scelta degli organizzatori, al fine di donare all’evento un segno più marcato. In sostanza, anche per la Parigi Tours, si cercò di seguire l’iter che ha sempre contraddistinto una classica, poi divenuta, dagli anni cinquanta, “la Randonnè per eccellenza del cicloturismo”, ovvero la Parigi Brest Parigi. Nell’anno della nascita della Tours, il 1896, la lunghissima prova che portava i concorrenti da Parigi alla costa atlantica, giungeva alla sua seconda edizione, ed era costei ad ispirare gli organizzatori che, dalla capitale, si volgevano alla valle della Loira.
Un dualismo con la Roubaix, citato da più parti, non c’è mai stato: troppe diversità e, soprattutto, una vera volontà degli organizzatori, di fare della Tours, una classica che si volgeva alla storia. L’edizione d’esordio, fu anche l’unica rivolta interamente ai dilettanti, mentre con la terza, tenutasi nel 1906, si passò alla cadenza annuale e ad un primo spostamento della data, dalla primavera all’autunno.
Dopo cinque proposte a fine settembre, quindi in stagione calante anche a livello ciclistico, si pensò di ritornare, col 1911, ad una effettuazione in primavera. Gli scopi erano molteplici: dall’esigenza di mantenere una certa vicinanza con le altre classiche e, quindi, di favorire la partecipazione dei migliori, alla volontà di presentare i paesaggi della corsa, diversi già allora in grado di orientare il tenue turismo dell’epoca, alla considerazione di non trovare i giusti interessi, proponendosi dopo il grande richiamo del Tour de France (appena bagnatosi di un termine riassuntivo e significativo: la Grande Boucle).
Il ritorno a primavera fu un grave errore, vista la progressiva incapacità degli organizzatori, di riservare alla prova altri messaggi e filoni, oltre a quelli prettamente ciclistici. Col ritorno, a date sempre mobili, fra marzo e la prima decade di giugno, ma con maggiore frequenza a maggio, la Parigi Tours, non si caratterizzò come meritava a livello tecnico, ed iniziò a subire la crescita ed il richiamo che accompagnava altre gare che si andavano a proporre concomitanti o vicinissime: su tutte il Giro d‘Italia.
Nel 1951, quindi molto dopo, ed a ciclismo già abbastanza cristallizzato, nonostante le due guerre, la Tours tornò all’autunno, senza più cambiare il periodo, quasi sempre collocato nella prima decade d’ottobre. Un certo rilancio, soprattutto negli anni cinquanta e sessanta ci fu. Oddio, una buona presa è sempre stata patrimonio di questa classica, anche nei segmenti più bui, ma non come meritava l’originalità dell’itinerario di gara. Il declino di Eddy Merckx, il più forte ciclista mai esistito, divenuto richiamo e catalizzatore della corsa, poiché non riusciva a vincerla, nonché l’inizio nel ciclismo della specializzazione, con conseguente accorciamento della stagione di gare per un numero sempre maggiore di corridori, finirono per essere fattori di crisi e problemi per la Parigi-Tours e gli organizzatori ne aggiunsero dei loro. Già, perché non si limitarono a correggere un certo trend, cercando di rilanciarla con un convinto matrimonio verso altri filoni, ma scelsero la strada più banale e mortificante, interamente ciclistica, anticipando addirittura i tempi d’ingresso delle modifiche. Dal 1974, infatti, la classica cambiò nome e percorso, ma sull’unica variante, di fatto, di un’inversione, quindi da sud a nord. Così, senza vedere rilanci tangibili, la Tours divenne Blois-Chaville fino al 1977 e, dal 1978 al 1987, G.P. d’Autunno. Finalmente, dal 1988, il ritorno alle origini, senza però la valorizzazione di segno non ciclistico che l’itinerario da Parigi a Tours meriterebbe e che fa arrabbiare chi scrive. Oggi, si parte dalle porte della capitale francese e si giunge nel cuore di quella di un tempo lontano, nel viale di Grammont.
Brevissimi cenni sul tracciato
Il percorso della Parigi Tours è quasi interamente pianeggiante, non favorisce fughe, anche se il vento, ogni tanto, ha saputo sostituirsi alle asperità mancanti. Le cote presenti nel finale, stuzzicano poco, semmai possono valere come fattore di difficoltà ulteriore verso chi si trovasse in avanscoperta, nel tentativo, spesso vano, di eludere il volatone. Attenzione però, perché pur col suo tavoliere, la “Classica dei Castelli della Loira”, è colei che può presentare il successo più recente di uno scalatore pressoché puro: accadde nel 2001, con la vittoria di Richard Virenque. Classiche ben più dure, han visto vincere dei fortissimi in salita, ma nel loro bagaglio insisteva l’arma di quello sprint che non aveva Virenque. Oppure, quelle doti sul passo, che il francese difficilmente mostrava quando era necessario uscire di ruota. Come dire… che i percorsi vanno interpretati sempre, lasciando un piccolo segmento, a quel dono che è l’imprevedibilità. In ogni caso, anche uno sprint a ranghi folti, magari senza treni, rappresenta un’occasione di spettacolo e di fascino. Soprattutto nel ciclismo di questi tempi, così avaro di emozioni su limpidi segmenti d’eccelso valore tecnico. Ed anche qui la “Tours” sorpassa diverse consorelle classiche, essendo stata teatro, il 9 ottobre 2016, del gesto vittorioso di Fernando Gaviria: un missaggio luminoso fra il finisseur e lo sprinter di razza. Un colpo di grande ciclismo, fra i più belli degli ultimi dieci anni.
Le novità nell’edizione di domani.
L’ASO, che ha sempre difeso male o per niente la Parigi-Tours di fronte ai nefasti dettami dell’UCI, per questo 2018, ha deciso di cambiare i contenuti del tracciato degli ultimi 65 chilometri della classica. A monte del mantenuto arrivo sull’Avenue de Grammont di Tours, una distanza chilometrica minore: dai 234 ai soli 211 (le corse più corte non sono garanzia di spettacolo e, tanto meno, rappresentano una tangibilità nella velleitaria lotta al doping!), ma con l’innesto di 7 cote, di cui l’ultima, la Cote de Rochecorbon, a 10 km dal traguardo. La novità più consistente però, vivrà nell’inserimento negli ultimi 50 km, di nove settori di sterrato, gran parte dei quali consistenti nell’attraversamento dei vigneti della zona, per un totale di 12500 metri al di fuori dell’asfalto. Innovazioni, dunque, abbastanza corpose sul piano tecnico, che attendono quella peculiare verifica che solo la corsa sa dare.
Maurizio Ricci detto Morris
segue....
Parigi Tours 1965: la trovata di Felix Levitan e la grande vittoria di Gerben Karstens.
Come tutti gli immensi, Felix Levitan (su cosa abbia significato per corridori, Tour e intero ciclismo questa nobile figura, posterò presto un ritratto negli apposti spazi), ha lasciato nella sua storia una pagina stonata. Quando a monte però, c’è un grande personaggio, è facile che la stonatura faccia storia e, sovente, sia pure prodiga di tangibili risultanze. A metà degli anni sessanta la Parigi Tours, s’era consolidata come classica dove lo sprint finale a ranghi pressoché compatti, era divenuto una costante. Il vento e le poche asperità, non riuscivano a fare nessun tipo di selezione e quei “volatoni” avevano spinto Levitan a cercare un rimedio. Non potendo modificare il percorso con l’inserimento di qualche salita perché non c’erano i presupposti, pensò ad una svolta che non ha pari nell’era moderna del pedale: tornare all’antico. In fondo, la “Classica dei Castelli della Loira” (come il sottoscritto l’ha definita), la cui prima edizione s’era svolta nel 1896, al pari della “Roubaix”, fra le classiche, aveva solo la Liegi Bastogne Liegi come più anziana, ed era un patrimonio che ben si collimava con quel sapore eroico che Felix voleva in qualche modo riproporre. Guardando i mezzi a disposizione dei corridori che, proprio in quei mesi, iniziavano ad arricchirsi di ruote libere portanti il “rivoluzionario “13” e confrontandoli con quelli di cui, da ragazzino aspirante ciclista, vedeva e provava nell’intorno del Velodromo dell’Hiver a due passi dalla casa in cui nacque, pensò che forse, prima ancora delle asperità, proprio la rivoluzione avvenuta sulla bicicletta, fosse la causa principale di quei continui arrivi in volata. Di lì, la folgorazione: proporre l’edizione 1965 della Parigi Tour, obbligando l’uso di biciclette prive di deragliatore. In sostanza, mezzi con due moltipliche e due sole ruote libere sul posteriore, usabili dal corridore, attraverso la fermata e la conseguente operazione, a mano, dello spostamento della catena sul rapporto fino a quel momento non usato. Si trattava di far tornare indietro il ciclismo di quasi mezzo secolo, pur considerando la doppia moltiplica! L’unica alternativa, per non sporcarsi le mani, poteva essere il cambio di bicicletta, ma a costi di tempo forse superiori...
Volendo fare un confronto con altri sport, i corridori erano costretti a fermate sul tipo del cambio gomme o del rabbocco di benzina, tipiche nella Formula Uno.
Ovviamente, tutto questo imponeva ai ciclisti delle azzeccate scelte dei rapporti a monte. Per fare qualche esempio: Jacques Anquetil montò, per le fasi iniziali, il 52x16 e per il finale il 49x13, Tom Simpson il 52x16 e il 52x14, Raymond Poulidor il 51x17 e il 51x15; Gerben Karstens (colui che poi vincerà), optò invece per il 53x16 e il 53x15, che andò ad azionare a 25 km dal traguardo.
La corsa, nonostante la trovata, si consumò a passo speditissimo, movimentata dalla fuga, poi vana, di un drappello con Lucien Aimar, Henri Anglade, Tom Sompson e Willy Monty.
A cinque chilometri dall’arrivo, il ventitreenne tulipano figlio di un notaio, Gerben Karstens, olimpionico a Tokyo nella 100 km a squadre e al primo anno fra i professionisti, nel bel mezzo di uno sciame di scaramucce atte ad evitare il volatone, sciorinò una fucilata che resterà uno dei più bei gesti tecnici degli anni sessanta.
Il gruppo non rimase sul posto, ed inseguì con ardore, ma a tre chilometri dal traguardo, Jacques Anquetil, capì che il giovane olandese non sarebbe stato ripreso e tentò la sua carta, producendosi in un allungo degno di Monsieur Chrono. Ad un centinaio di metri dall’ultimo chilometro però, quando l’olandese aveva ancora sui sei-sette secondi di vantaggio e pareva imprendibile anche per lui, lo sforzo giocò un brutto scherzo a Jacquot: sbagliò completamente una delle ultime curve, facendosi riassorbire dal grosso. Gerben Karstens vinse a braccia alzate, anticipando di 8” il gruppo regolato da Gustav Desmet, dopo aver percorso i 247 km della prova, alla media di 45.029 km/h, nuovo record della Parigi Tours. Un primato che restò tale per altri 27 anni!
Levitan, capì che anche senza l’uso del deragliatore, la Tours, rimaneva una corsa per velocisti o finisseur e l’ esperienza insolita finì lì.
Maurizio Ricci detto Morris
P.S. Chi volesse conoscere meglio Gerben Karstens, potrà leggere il suo ritratto sulla stanza riservata ai corridori ritirati.
Idem sul vincitore più giovane della "Tours", allora 19enne, il belga Jos Wouters, un fenomeno! Trionfò sui 267,5 km di quella prova, l'8 ottobre 1961.