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Michael Wilson - Versione stampabile

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Michael Wilson - Luciano Pagliarini - 27-10-2020

Di lui Morris dice che era fortissimo, ma non faceva la vita da atleta.

A 22 anni vince a Cortona al Giro, al termine di una tappa di 233 chilometri, battendo il coetaneo Laurent Fignon. A Montecampione, inoltre, arriva quarto ad appena 16" da Hinault.

L'anno dopo vince a Madrid l'ultima tappa della Vuelta, anticipando i velocisti, e mettendosi nuovamente dietro Fignon.

Nel 1984 vince il Matteotti e nel 1985 chiude il Giro d'Italia all'ottavo posto.

Era veloce, forte in salita e anche un ottimo cronoman, capace di arrivare sul podio sia al Gran Premio delle Nazioni che al Trofeo Baracchi.

Nel 1989 ha ottenuto le ultime vittorie, una tappa alla Tirreno e una al Giro di Svizzera.

Si è ritirato nel '91, a soli 31 anni.


RE: Michael Wilson - Morris - 22-11-2020

La storia del ciclismo, così come quella dell’intero sport, presenta tanti potenziali campioni, mai divenuti tali agli occhi dell’osservatorio più vasto, ma ben conosciuti in chi è stato loro vicino, ed ha potuto conoscerne i confini. Personaggi che si sono affermati solo in piccola o piccolissima parte, o sono passati ai narratori come delle meteore, oppure altri che il mondo giornalistico, bacchettone nell’acritica verso la forma consacrata del talento dimensionata sui traguardi vinti, ha posto frettolosamente nel dimenticatoio. Uno di questi è un australiano, nato ad Adelaide, ma tasmaniano per origini familiari e per storica (ed attuale) residenza: Michael Wilson. Da professionista ha vinto solo 8 corse, belle per carità e bellissime per il modo col quale le ha colte, ma davvero poche in considerazione del talento che possedeva. Michael però, era fatto così, era nel suo dna accontentarsi per non snaturare la sua flemma quotidiana. Lui viveva cercando di cogliere i punti luccicanti di quel che gli donava il cammin di vita, di riposarsi e di vedere lo sport entro i confini di uno sforzo ragionevole. Ne usciva un atleta che ricordava diversi altri suoi predecessori ciclisti, Vannitsen su tutti, dribblati, perché stranieri, dalle tagliole delle penne italiane costruite sugli stampi di un Di Paco prima e di un Venturelli poi. Wilson non si cercava, era la sua filosofia, ed era convinto che ciò rappresentasse il massimo a lui possibile, al punto di sentirsi meritevole per “avercela messa tutta”, o per aver sottratto tempo alle possibili derive della birra o di altro. Ed era convinto di allenarsi e di mangiare il giusto per essere se stesso sulla bici e sull’intorno. Oddio, ai suoi tempi il ciclismo viveva l’attività sportiva con una naturalezza ben diversa, ed alla luce della vita, probabilmente migliore di quella di oggi: non c’era l’ossessione del peso e non c’era doping ad esso strettamente legato. In altre parole, a tavola si stava certo attenti al fatto d’essere atleti, ma non con l’esasperazione condita d’altro, che insiste in un oggi dove, relativamente al ciclismo, l’anoressia sta nei fatti e nel futuro dei coinvolti, anche di più del “recente bisogno” d’essere asmatici, per avere un domani di successo in questa disciplina. Due fatti, due letture, che al netto delle cosiddette eccezioni, dovrebbero far riflettere e, purtroppo, portare chi ha visto e vissuto il ciclismo da sei decenni come chi scrive, ad inserirlo nelle marginalità più cospicue della giornata. Ma Michael Wilson trasgrediva la condotta alimentare di un ciclista dei suoi tempi? Si potrebbe dire di sì, alla luce delle testimonianze, anche se il suo peso è sempre stato all’interno del normale di quel ciclismo (migliore!), probabilmente perché pure lì poteva vivere un richiamo del talento che la natura gli aveva dato. Di sicuro Michael era convinto di non trasgredire la sua linea di giustezza nelle condotte, così come era sempre pronto ad evidenziare che di più non poteva fare, perché lui altri non era che un medio del panorama del ciclismo internazionale d’elite. Ai posteri resta il dubbio di quanto bluffasse, o di quanto ne fosse meramente convinto. Alla fine divenne gregario o spalla, forte quanto ed anche più dei capitani, ma la sua dedizione, nell’ottica delle esigenze che la storia ha reso oggettive (salvo le solite eccezioni), è stata lautamente fuori dalla linea che si chiede ad un ciclista di vertice.
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Quando portai Marino Amadori alla guida della Sanson, la mia prima squadra femminile, ebbi occasione di parlare con lui di tanti aspetti del suo eccellente passato professionistico (11 maglie azzurre in 13 anni nell’elite!) e dei tanti personaggi incontrati in quel lasso. A cominciare dai colleghi, ovviamente. Bene, a domanda su chi fosse stato il corridore col quale aveva corso, più forte in assoluto, Marino, senza nemmeno un attimo di riflessione, rispose: “Michael Wilson, l’australiano!”. E proseguì: “Sono stato in squadra con lui 3 anni, tra l’altro abitavamo abbastanza vicini, io nell’area forlivese, lui in quella cesenate. Ci si allenava insieme, al pari di tanti altri della squadra, anche quando non erano previsti tantissimi chilometri. Lui però stava con noi per modo di dire, in quanto i suoi allenamenti non superavano l’ora, l’ora e mezza, e nemmeno s’allenava tutti i giorni. In settimana uno o due buchi c’erano sempre. Poi, quando ci si doveva preparare per uno sforzo particolare, come ad esempio un certo tipo di salita, o la cronosquadre, lui con quella smorfia che sembrava un sorriso, ci faceva vedere i sorci verdi. In particolare sul passo di una crono era capace di staccarti da ruota e questa era la nostra più concreta paura, durante le corse di squadra contro il tempo. Le sue accelerazioni ti facevano impazzire e non avevi nemmeno il tempo di pensare come fosse possibile visti i pochi chilometri che aveva nelle gambe, perché a ruota sua ci potevi stare solo se pensavi che tenerla era come vincere la Roubaix. Non m’è mai capitato nulla di simile in carriera. Mangiava di tutto, beveva di tutto. Certo non esagerava, ma rispetto a noi era totalmente dall’altra parte anche in questo. Si riposava più del doppio rispetto ad ognuno di noi e ci si chiedeva come facesse a dormire così tanto, visti gli sforzi così limitati rispetto ad un corridore professionista, anche poco disponibile alla vita da atleta. Ancora oggi penso a come abbia fatto a stare così tante stagioni, e con merito, nel ciclismo professionistico. Era puro talento. Ed in corsa era generoso, poteva essere capitano ovunque, eppure faceva la spalla, ed il gregario più disponibile. Quando però poteva vincere, difficilmente sbagliava. Ricordo la sua vittoria al Matteotti, roba da grandissimo campione, quello che per me poteva essere”. 
Dalle parole di Amadori, che mi ha ribadito anche di recente, riaffiorano chiari nel sottoscritto i ricordi dei distingui e delle vittorie di Wilson. Della sua scoperta innanzi tutto, quando nella 100 chilometri a squadre delle Olimpiadi di Mosca, si trovò a staccare i tre compagni, incapaci di reggerne il passo e fu costretto ad accontentarsi di un falso undicesimo posto. L’anno seguente scelse l’Italia per avviarsi al grande ciclismo europeo e finì in Umbria, al GS Cierre Montone, mostrando immediatamente indubbie doti. La sua vittoria più bella, il Circuito della Valle del Liri, un tempo corsa pure professionistica. Nel 1982 il salto nell’elite, all’interno della sammarinese Alfa Lum, squadra esordiente, guidata da Primo Franchini. E da neofita tra i prof, il ventiduenne Wilson colse due stupende vittorie, pronte a testimoniare i suoi grandi valori. Vinse infatti la seconda tappa del Giro d’Italia, la Viareggio Cortona di ben 223 chilometri, dove superò, in una top ten stellare, un coetaneo dal grande vicino futuro, Laurent Fignon. Indi, a fine estate, la Cronoscalata della Futa, dove superò Saronni, appena divenuto iridato, ed il meglio del ciclismo italiano. Nel 1983, arrivò all’Alfa Lum lo spagnolo Marino Lejarreta, col chiaro scopo di portare al sodalizio la possibilità di giocarsi il vertice dei GT. Ed il buon Wilson s’adeguò ad un ruolo di spalla-gregario eccellente. Alla Vuelta di Spagna fu protagonista, lavorando non poco a difesa del capitano in amarillo, da una delle più brutte alleanze internazionali della storia dei GT ed a fine Vuelta, proprio all’ultima tappa che si concludeva a Madrid, un altro acuto dei suoi, lo portò al successo. Ancora secondo quel Laurent Fignon che tre mesi dopo vincerà il suo primo Tour de France. Nel 1984,  fu autore del solito lavoro di squadra, arricchito da un colpo da fuoriclasse al Trofeo Matteotti, quando staccò tutto il meglio del ciclismo che gravitava in Italia. Nel 1985, lavorando come spalla di Marino Lejarreta si tolse il lusso di giungere 8° al Giro d’Italia, mentre a livello personale, aldilà dei soliti piazzamenti, potè abbracciare la gioia di diventare padre: sua moglie Mary partorì Joshua all’ospedale di Cesena (il figlio è ancora oggi un corridore professionista, anche se corre solo in Australia).
Nel 1986 Michael non trovò la vittoria, pur mantenendo significativo il peso dei suoi piazzamenti. A fine stagione però, sfumato il passaggio all’americana 7-Eleven, si concesse un “anno sabbatico” nella sua Tasmania, correndo pochissimo, ma facendo in tempo a vincere il Criterium di Burnie e il Criterium di Wynyard. L’anno seguente, arrivò la chiamata di Paul Koecli, affinché facesse parte  della Weinmann La Suisse e Michael accettò. Nell’anno partecipò al suo primo Tour de France (chiuso al 50° posto) e colse i soliti piazzamenti significativi. Nella stagione successiva col Team divenuto Helvetia La Suisse, vinse una tappa della Tirreno Adriatico, ed una al Tour de Suisse. Ambedue alla sua maniera, da corridore di razza. Al Tour de France, chiuso 62°, sfiorò la vittoria a Paul. Nel ’90, pur non vincendo, mantenne un certo prestigio nell’ambiente, ed infatti, Giancarlo Ferretti, lo volle con sé all’Ariostea per la stagione 1991. Ma il “Ferron”, quando poté conoscere le quotidianità  di un anarchico per i dettami del ciclista come Michael Wilson, si infastidì non poco. E fu inevitabile che i due si separassero presto. Per il tasmaniano però, le ruote di successo s’aprirono ugualmente. Dal 1992, infatti, assieme alla moglie Mary è diventato un produttore pregiato di vino e le loro cantine, in Tasmania, presentano tutt’oggi un ottimo Pinot grigio.

Maurizio Ricci detto Morris