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Gabriela Sabatini, la pantera argentina.
#4
Spizzichi…..
 
McEnroe…… capriccioso, maleducato, virtuoso e spettacolare.
Quando era al culmine della carriera, oltre ai tocchi che l’han fatto uno dei giocatori più belli della storia del tennis, era temuto per le sue intemperanze con gli arbitri di sedia ed i giudici di linea. Se vogliamo, un Bill Tilden ancora più vistoso nelle proteste. Ai tempi di Supermac, ancora non c’era la possibilità di far intervenire “occhio di falco” (“occhione”, come da definizione del mitico Gianni Clerici), quindi la “sentenza” del giudice di linea, in mancanza di overrule del giudice di sedia, era decisiva. In una partita contro Jimmy Connors, a Cincinnati (o Dallas non ricordo bene), nel 1983, in pieno tie break del primo set, un giudice di linea calvo e somigliante all’attore Bruce Willis, giudicò fuori una volee di McEnroe. John, dopo aver fatto una faccia che potremmo definire quella dell’isterico stupito, s’avvicinò deciso a quel giudice, ed urlò: “Se quella palla era fuori, tu sei un capellone”!
 
Agassi, soprattutto nei primi tempi, quando giocava sembrava un misto fra il cartone Speedy Gonzales e una tarantola, ma c’era un perché…
Aveva un padre, Mike, ex pugile armeno d’Iran, che prima di emigrare in USA, aveva partecipato senza vittorie a due Olimpiadi e con la nuova cittadinanza, si mise in testa di recuperare l’incontro col successo, attraverso i 4 figli. Lo strumento scelto, prima di generare ossessione e schiavismo, fu il tennis. Andrè, che era il più giovane, imparò in tenera età cosa significava rispondere alla macchina spara-palline, il resto lo fece poi, anni dopo, il per me macellaio più tale della storia del tennis, sicuramente il maggior fabbricatore di replicanti, ovvero l’orrendo Nick Bollettieri. Nel mezzo però, c’è una storiella che la dice lunga sull’entità della schizofrenia da tennis di cui Agassi era stato cosparso. Protagonista involontario uno dei più grandi giocatori mai scesi su un campo da tennis: Ricardo Alonso Gonzales, per tutti il leggendario, Pancho Gonzales. Costui nel grande romanzo della sua vita, aldilà delle magie con la racchetta, si distinse per aver steso sotto i propri piedi un tappeto da Bad Boy, fatto di collezioni di mogli (sei sicuramente, forse sette perché non lo ricordo), di quintali di sigarette, di alcol, di bibite gassate (anche durante le partite) e di un grande bisogno di dormire nell’intensità simile a quella di un felino. Un personaggio, morto nel 1995 a 67 anni, che se fosse stato italiano, avrebbe probabilmente trovato un regista talentuoso, pronto a costruire su di lui un film alla “Amici miei”. Il mitico Pancho, che chiuse la carriera nel 1974 (a 46 anni!), l’anno dopo, entrò nelle sfere della famiglia Agassi, per seguire la quindicenne Rita, un grande talento (ancora oggi il “tiranno” Mike, giudica la figlia maggiore, come la più dotata fra i rampolli di casa) e lì ebbe occasione di palleggiare con Andrè, che aveva solo cinque anni, ma stava sul campo a sacrificarsi come un campione affermato. La cosa non piaceva per nulla a Gonzales, che la trovava una follia: per il bambino, non solo per il fastidio che recava alla sua flemma. Per Rita però, la ragazzina talentuosa che poi diventò la sua sesta moglie (“Se l’è portata a letto presto e me l’ha rubata quel delinquente!” - dirà poi il “tiranno” Mike), era comunque disposto una volta ogni tanto, a fare qualche palleggio col “pestifero”. Qualche? Macchè! Nel ’78, dopo aver usato tutta la sua cerchia di amicizie e pure occasionalmente grandi campioni a collaborare con lui, affinché attenuassero un poco l’insistenza con la quale il moccioso gli chiedeva tennis, arrivò a quella che gli sembrava una dimostrazione-punizione per il piccolo. In un giorno di particolare voglia di dormire, Pancho allungò una bella banconota ad un allenatore del club di Las Vegas, affinché distruggesse con una seduta d’allenamento fiume, lunga almeno quattro ore, il piccolo Andrè. Lui intanto, dopo essersi giustificato col bambino attraverso una sonora bugia, se ne andò a dormire. Circa cinque ore dopo, tornò al campo e trovò l’allenatore su uno sdraio, letteralmente distrutto, mentre il piccolo Andrè palleggiava contro un muro. Appena vide Pancho, il “pestifero”,   fu subito pronto a dirgli: “Maestro Gonzales, palleggiamo?”.   
 
Federer, prima di diventare quel campione straordinario e corretto che la maggioranza dell’osservatorio giudica oggi come il più grande tennista di tutti i tempi, era un “peperino” dalla arrabbiatura facilissima, tra le cui variabili ci poteva anche stare la spaccatura della racchetta. L’aspetto mi colpì per un episodio e per il giudizio che un mio collaboratore di quei tempi, esternò in quell’occasione. Era fine ottobre 2000 e mi trovavo in Spagna. Il grande tennis di quella settimana, aveva teatro a Basilea. Approfittando dell’orario particolare dei nostri impegni in quell’ultimo sabato del mese, potei vedere in televisione la seconda semifinale del torneo elvetico, che vedeva opposti i diciannovenni Lleyton Hewitt e, appunto, Roger Federer. Sapevo che il bilancio fra i due negli scontri diretti vedeva l’australiano, allora numero 7 del mondo, in vantaggio per tre a zero. Fra gli altri, a vedere quel match, anche un dirigente dell’azienda che sponsorizzava il mio team ciclistico e che partecipava a quella trasferta come interprete. Era uno che a differenza del sottoscritto, aveva giocato a tennis con continuità e che definì Roger (che aveva già visto tre volte), ancor prima della partita, con l’appellativo di “Trinchetto”, perché secondo lui, quel giovane svizzero era sosia di uno dal bicchiere facile, suo vicino di casa. Io invece conoscevo Hewitt, ma di Federer avevo visto pochissimo, abbastanza però per rimanere stregato dal suo rovescio. L’incontro evidenziò le differenze marcate dei due potenziali, nettamente a vantaggio dello svizzero, anche se l’andamento del match, i precedenti e la classifica mondiale, parlavano il linguaggio dell’australiano. Soprattutto, era inspiegabile il nervosismo di Federer, che aveva vinto il primo set e che stava vincendo pure il secondo, prima di farsi sopraffare da un eccesso di rabbia che lo spinse a spaccare la racchetta. “Trinchetto ha talento da vendere, ma sta confermando quello che pensavo: non diventerà mai nessuno, perché è troppo nervoso” – disse il mio occasionale interprete alla fine del secondo set vinto da Hewitt. Ed io, pur riconoscendo a quel collaboratore tante ragioni, ero comunque convinto del contrario: Roger Federer era perlomeno un giocatore epocale, dai margini di miglioramento pazzeschi. Dopo il decisivo tie break del terzo set, che vide vincente Roger, dissi al mio interlocutore che ero disposto a scommettere sul radioso futuro di quel ragazzo dal meraviglioso rovescio ad una mano. Sarà, ma quella partita fu una specie di spartiacque per l’ascesa imperiosa di Federer che, pian piano, s’intinse della correttezza e dell’autocontrollo del leggendario Rod Laver, ed i risultati li abbiamo visti tutti: 20 slam vinti e non è ancora finita.   


Ciao Manuel!
 
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RE: Gabriela Sabatini, la pantera argentina. - da Morris - 23-05-2018, 06:02 PM

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