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Dal mio quaderno di ricordi.....
#3
Un vecchio dischetto floppy, dimenticato in mezzo ad un libro di Gerhard Herm, “Il mistero dei Celti”, contenente le note che scrissi tanti anni fa, su un figlio illustre delle terre di quel popolo….. 

E chi l’avrebbe mai detto! Ancor funzionante, nonostante il tempo di quella strana collocazione..... 
Un racconto a cui devo un "grosso grazie", per avermi ridonato un sentimento che rappresenta un’altra delle tantissime variabili di un ringraziamento più grande: aver vissuto. 
Ve lo lascio così com’è stato scritto, senza rileggerlo e "spolverarlo" delle ragnatele dei tanti lustri passati.....

Jim Clark: il sibilo d'un leggendario attraverso gli occhi di mio padre

…….….Enzo Ferrari, era un personaggio sanguigno, ed estremamente onesto nella sua visione del mondo e delle corse. Amava i piloti coraggiosi, molto meno i tattici. Forse perché era cresciuto, come pilota, quando sul mondo delle due ruote, impazzava Nuvolari, un personaggio che scatenava la passione delle folle e di cui, lui stesso,  era ammiratore profondissimo. Sarà, ma del grande Tazio, il “Drake” ha sempre cercato un emulo……fino al punto di riuscirci. Certo, perché Gilles Villeneuve, per dimensioni di spettacolarità e vittorie (entrambi con sei successi, incredibile!) è l’unico della storia dell’automobilismo, che può essere accostato al mantovano. Erano gli spettacolari, insomma, quelli che lo stuzzicavano al cuore. Alcuni esempi del credo di Ferrari, ci vengono poi da come, con una certa trasparenza, dimostrava le sue simpatie. Per citare alcuni confronti tratti dalla lunga serie di piloti che sono passati sulla leggendaria storia della “rossa”, l’ingegnere preferiva Von Trips a Phil Hill, Amon ad Ickx, arrivò alla rottura con un grande come Surtees, per valorizzare l’ardimentoso Lorenzo Bandini (la cui morte e le critiche che gli piovvero, furono la causa del rifiuto del Drake, di prendere piloti italiani per tanti anni). Gli piaceva Lauda, perché lo aveva aiutato a ritornare ai vertici, ma non lo amava. Forse fu grato all’austriaco, perché l’improvvisa partenza di questi, gli consentì di portare in Ferrari colui che pareggerà il mito della stessa rossa e, con lei, resterà scolpito perennemente: Gilles Villeneuve, appunto. Ma l’ingegnere un sogno rimasto tale, l’ebbe. Fu taciuto per anni dietro le quinte di una rivalità coi costruttori britannici o di lingua inglese, anche più forte di quella odierna. Un cruccio che si muoveva sottile dietro gli occhiali neri, via via più presenti sul suo volto; un compagno di viaggio costante che richiamava le cornamuse e i gonnellini di uno spicchio d’antropologia, tra i più intensi ed interessanti della Terra. Una nuvola che si stendeva sul profondo rosso delle sue auto, col tuono del rombo dei motori Climax, sul telaio della monoposto progettata dal tanto nemico, quanto insensibile e feroce, Colin Chapman. Quel sogno era un essere umano, ma coi tratti comportamentali dell’alieno, guidava da signore con l’audacia dei pazzi, ed era capace di accarezzare la pista con vetture che oggi non vorrebbe nessuno, semplicemente per non morire. Quell’uomo, quel pilota sì divino al punto di rappresentare la cementazione del ringraziamento per averlo visto, era uno scozzese il cui urlo anagrafico, sibilava come un segno venuto dall’aldilà: Jim Clark……. 

Non si saprà mai con certezza chi sia stato il miglior pilota di tutti i tempi, ci sono troppe pesanti variabili fra i vari periodi per un confronto credibile, ma una cosa è certa: esiste un gruppo di drivers che hanno veramente fatto la storia di questo sport. Jim Clark è forse il punto più luminoso di quel mazzetto di eletti che comprende Nuvolari, Fangio, Moss, Stewart, Lauda, Villeneuve, Senna e Schumacher. 
Vissi l’epopea di Jim ancor bambino, certo ero un prodigio a detta degli altri (che si fermò, fortunatamente, fino a rincretinire come si potrà notare), ed avevo un padre che era stato un grande potenziale centauro, un’istituzione per quei luoghi, amico di un campione del mondo che non disdegnava mai di dirgli che gli era inferiore, perché non aveva la medesima sensibilità al motore sia su due che su quattro ruote. Con un simile genitore, capace di coprirsi di chilometri nelle lunghe e scassate strade del tempo (non c’era ancora l’Autostrada del Sole) pur di vedere auto, moto, o biciclette in corsa, non potevo che pressarlo con un’infinità di domande. Babbo aveva una venerazione per Jim Clark, soffriva per quel passaggio alla Ferrari che mai arrivava (vi fosse stato, oggi, sarei un modenese) e quando il leggendario scozzese morì ad Hockenheim, lo vidi distrutto nel modo più terrificante che conoscevo. Non si sfogò col pianto (come invece farà nel futuro il figlio), bensì col ferro, il suo compagno di viaggio. La sua forza erculea azionò sul martello e l’incudine, il cerchio della ruota d’un carro agricolo uscito rosso dalla fucina fino a farlo sembrare carta stagnola. Nessuno poteva aiutarlo, faceva tutto da solo, maneggiando con la mano sinistra quel cerchio pesante (mi dicevano quasi un quintale), con pinze più grandi tre volte le mie mani. Il resto era compito della mano destra, che teneva un martellone pronto a modellare sordo quel ferro scarlatto sulla parte arrotondata dell’incudine. Venne il contadino che aveva commissionato quel lavoro e, con gli occhi grandi dell’incredulità, esclamò: “Vasco s’et fat, a sit nurme!?” (Vasco, cosa hai fatto, sei normale!?) “A so incazè, l’è mort Jim Clark. L’è un dè nigar, am sfog com ‘a pos e te tant’azerda ad aiutem caglia faz benesum da par mè. Met ta lé in sdè e guérda senza ciacarè!” (Sono incazzato, è morto Jim Clark. E’ un giorno nero e mi sfogo come posso. Non t’azzardare ad aiutarmi, perchè ce la faccio benissimo da solo. Mettiti a sedere e guarda senza chiacchierare!) – rispose mio padre, nero come il carbone che usava come combustibile per la fucina. 
Babbo, in quel lontano 7 aprile 1968, si accingeva a compiere i 58 anni ed io, due giorni dopo di lui, avrei compiuto i 13. Ero un ragazzino ancora coi calzoni corti che stava scoprendo intensamente, nel padre, la figura più grande della sua vita. Rispettai il suo dolore, sedendomi a guardarlo con l’ammirazione che superava i confini possibili per un figlio. Quel tardo pomeriggio si sciolse nell’imbrunire, ed i miei voli di mente, si posarono su un orizzonte che accarezzava la notte arrivante. Volevo capire altri “perché” su Jim Clark: l’uomo, il campione, il mito che aveva spinto la mente di babbo. Nel dolore di quella scomparsa mi resi conto, per la prima volta, quanto il gesto artistico di un grande dello sport, fosse un patrimonio incancellabile per le possibili sensibilità d’ognuno. Ed io, che preferivo emulare altre gestualità sportive, all’apparenza contrarie a quelle di mio padre, mi sentii con nitidezza molto simile a lui. Due giorni dopo, a scuola, si tenne il compito in classe di italiano. Il tema, per la quarta volta nell’anno, verteva sul Manzoni, già allora uno dei miei più grossi stimolatori di zebedei. Scocciato come non mai, non ci pesai due volte e scrissi di Jim Clark, delle reazioni di mio padre e delle bellezze artistiche dello sport. Furono tre ore di puro divertimento, con la consumazione di due fogli protocollo. Il professore si accorse del mio originale modo di parlare di quella “palla” di Don Lisander, ma se ne rimase zitto, forse voleva vedere se il ragazzino sottoscritto, l’unico in classe ad indossare i calzoni corti, aveva il coraggio di portare a compimento un simile affronto. Il giorno dopo, quel vecchio docente, giunto in classe con la sigaretta in bocca, non portò i compiti, ma decise di interrogare. Prima ancora della scelta delle “cavie”, capii che sarei stato una di queste. Ovviamente fu così, ma con la variabile non indifferente di una imprevedibile solitudine sul patibolo. L’argomento non poteva che essere il Manzoni. Me la cavai più che bene, ed il professore, senza ritegno alcuno, davanti alla classe, raccontò il perché di quella interrogazione: “Vedete ragazzi, il piccolo ribelle preferisce le corse in automobile ai Promessi Sposi. Ieri ha scritto di un pilota, della sua tragica morte e del dolore di suo padre. Lo ha fatto così bene che mi ha commosso. Nel compito in classe gli darò quattro, perché non è giusto sia lui a decidere il tema, ma oggi merita otto, quindi nel promiscuo letteratura automobilismo, s’è guadagnato un bel sei. Ovviamente il tutto non finisce qui, perché gli darò una nota che i suoi genitori dovranno firmare. Come vedete sono stato cattivo, ma questo ragazzino ci sa fare davvero e se non andrà al “Classico” lo prenderò a calci nel sedere!” La nota, scritta di pugno da quel fumatore professore e ben circostanziata, fui costretto a portarla a casa, assieme a quel lungo tema su cui era impresso in rosso un bel quattro. Com’era ovvio, nonostante il finale del giudizio del professore fosse un’esagerata lode nei miei confronti, mia madre si sentì spinta a strillare. Babbo, che aveva ascoltato la lettura singhiozzante di mamma, con l’impercettibilità solita, aiutata dall’onnipresente berretto in testa e la visiera abbassata un filo sopra le sopraciglia, si voltò verso di me, mi strizzò l’occhio destro e se ne andò dicendomi di raggiungerlo più tardi in officina. Dieci minuti dopo andai da lui. Il suo volto m’apparve subito radioso. “Giarganen, a te deg in dialet, neca se la tu ma’ l’han vo’, ma ci propi brev e a so’ fier ad tè. T’é da capì la mama, la ià da fè la sù pèrta, ma tè t’ham pìès. T’han ci un rufian e ci come la tù surèla, t’scriv propi bèn. T’è fat un tema sora Jim Clark, cum pé quel clà scret e giornel e pù t’ha me let ad dèntra. Sogna, Giarganén, sogna, neca se t’zugarè e palon o t’curerè in biciclèta, met in te tu cor ‘e sport. Un gnè difarénza cun la  puisì o i rumènz, bsogna capil e tè, t’è sta dòta. E bà ad Clark e vleva che Jim e fases e cuntadèn, ma lò l’ha fat la puisì sora una màchina e u la ià fata come inciùn. Ades va a zughè cun i quarcin che mè a lavor cuntént!”(Giarganen, te lo dico in dialetto, anche se mamma non vuole, ma tu mi piaci. Non sei un ruffiano e sei come tua sorella, scrivi proprio bene. Hai fatto un tema su Jim Clark che assomiglia all’articolo del giornale e mi hai saputo leggere dentro. Sogna, Giarganen, sogna, anche se giocherai a pallone o correrai in bicicletta, metti nel tuo cuore lo sport. Non c’è differenza con la poesia o i romanzi, bisogna capirlo e tu hai questa dote. Il padre di Clark voleva che Jim facesse il contadino, ma lui ha fatto poesia su un’automobile e l’ha fatta come nessuno. Adesso vai a giocare coi coperchini che io lavoro contento!). 
Babbo parlava poco, ma si faceva capire in tanti modi. Le sue parole erano pesanti. Quello fu uno dei discorsi più lunghi che mi rivolse. Avrei tanto voluto che fosse con me quando, proprio il suo amato automobilismo, mi creò, grazie a Gilles Villeneuve, un personale ed immanente monumento.

La propedeuticità del mito di Jim Clark.
…….Una leggenda che si costruì in soli otto anni, nell’automobilismo del tempo, dove le doti del pilota divenivano tentacolari e lo spettro della morte gravava ancor più minaccioso. Le piste, avevano fondi più sconnessi e non c’erano spazi di fuga, ma soventi alberi o recinzioni sui generis; le scocche dei bolidi erano tenere, ed i pneumatici sembravano “ruotini”, rispetto agli odierni. I piloti, nessuno escluso, per guadagnare a sufficienza, erano costretti ad aggiungere alla Formula Uno, altri tipi di gare a ruote scoperte e coperte. Anche allora l’ambiente nascondeva operatori e protagonisti cinici, profittatori, acrobati sul filo del rasoio, ma c’erano spazi per la passione vera del correre e gli spettri del circo di oggi, erano ben lontani dall’esser vissuti compiutamente. Fra i drivers c’era più amicizia, si arrivava lassù per bravura e non per sponsor, c’era stima, ed il protagonismo si consumava artigianalmente, anche lontano dalla gara, con una competizione che si levava già nella messa a punto della monoposto dove loro, i coraggiosi e virtuosi piloti, giocavano un ruolo enorme. L’elettronica e la computerizzazione erano lontane, la telemetria erano le orecchie, gli occhi e le sensazioni di quegli uomini alla guida. L’empirismo dominava e l’automobilismo, pur su un orizzonte pericoloso, era completamente uno sport. Jim Clark fu il sigillo di quell’epoca, un uomo straordinario e semplice, cordiale e sorridente, riconoscente e gentile, simpatico e disponibile, un figlio vero della terra e dei suoi valori. Già, perché prima di diventare il leggendario “scozzese volante”, era destinato a dirigere la fattoria di famiglia nel Berwickshire, sotto Edimburgo, in Scozia. Quella, perlomeno, era la speranza del padre, agricoltore convinto per linea generazionale, che vedeva in Jim, unico maschio dopo quattro femmine, il continuatore della propria attività. Contro la volontà della famiglia, il giovane uomo di casa, incominciò a gareggiare nello sport meno vicino e pericoloso per chi, dalla fattoria, solitamente cresce nel segno del pragmatismo e dell’amore verso le certezze. A venti anni, nel 1956, Clark incontrò il mondo delle corse, dapprima con la sua Sunbeam Mk3 e poi con la DkW Sonderklass, prestatagli da un amico. L’anno seguente Ian Scott-Watson, viste le predisposizioni notevoli del giovane, gli mise a disposizione una Porsche 1.6S, ed arrivarono i primi piazzamenti, nonché un bel terzetto di vittorie. Jim, cominciò così a conquistarsi le ammirazioni, fra queste anche la stima di Jock McBain, direttore della scuderia Border Reivers, il quale gli offrì una Jaguar K. Con questa vettura Clark disputò, nel 1958, 20 gare, vincendone 12. Durante quell’anno, Colin Chapman, terribile e geniale proprietario, ingegnere, costruttore universale della Lotus, rimase molto impressionato dal giovane scozzese. 
Capì che era il più promettente fra gli ancor sconosciuti, era dunque l’ideale per scommetterci sopra, anche perché, la Formula Uno di quei tempi, stava cercando disperatamente dei geni della guida, in grado di aiutare l’evoluzione di una monoposto. In particolare, la Lotus, che non aveva ancora vinto niente d’importante e, stare dietro, per uno come lui, era inconcepibile e odioso. Il cinico costruttore, sotto i già onnipresenti baffetti, trovò le parole giuste per convincere Clark a provare, a Brands Hatch, una sua Formula 2. Il tentativo in realtà fu facile, perché il giovane scozzese era anch’esso alla ricerca di prove del suo valore, osteggiato com’era, ogni giorno, dall’intera famiglia. Il suo test d’esordio su una vettura con le ruote scoperte, fu subito importante: girò con tempi di poco superiori a quelli registrati dal ben più esperto Graham Hill. Ma proprio costui, poco dopo, in un'altra prova, con la medesima Lotus, uscì di pista a causa dell’inspiegabile perdita di una ruota. Non si ferì, ma Clark, che aveva visto l’incidente, ne rimase così turbato da dichiarare che non avrebbe più guidato monoposto di quel tipo. 
Il giovane scozzese però, aveva le corse nel sangue e non poteva tener fede a quel giuramento. Quattordici mesi dopo, tornò sulla propria decisione e disputò (pur senza riuscire a portarla a termine) una gara di vetture Formula Junior, a Brands Hatch, con una Gemini. Era il 26 Dicembre 1959. 

Reg Pernell, tuttofare dell'Aston Martin, aveva notato, come Chapman, il talento di Jim e si decise a fare il gran passo, per convincere il giovane ad esordire in Formula 1. Andò nel Berwickshire, alla fattoria dei Clark, affinché il giovane ventitreenne di Kilmany, potesse guidare per lui una monoposto. Si trattava di una svolta che avrebbe coinvolto l’intera famiglia. Jim, sarebbe dovuto diventare un professionista, quindi verso l’azienda di famiglia, avrebbe dedicato poco tempo. Il padre, capì immediatamente la situazione e, con pragmatismo contadino, non tardò molto chiedere a Pernell se il figlio poteva vincere. La risposta del manager fu secca: “Non solo vincere, ma diventerà campione del mondo!” Clark senior, pur tutto d’un pezzo sulle sue convinzioni, si rese conto che non poteva osteggiare ulteriormente il talento del figlio e gli diede campo libero, a patto che si ricordasse sempre di quella terra che gli aveva dato il pane fino a quel giorno. I primi avvenimenti della stagione 1960 però, modificarono le intenzioni di Reg Parnell: l’allestimento dell’Aston Martin F1 tardava oltre ogni logica previsione, al punto di spingere il manager a lasciare libero Jim di gareggiare con la Lotus in Formula 2 e Junior. Il giovane, a testimonianza del suo eccelso valore, partecipò a 5 gare Junior e ne vinse 4! Alla vigilia del GP d’Olanda di F1 l’Aston Martin non era ancora pronta e Parnell, giocoforza, fu costretto a cedere Clark, alla scuderia dell’incalzante Colin Chapman. Fu l’inizio della leggenda dello “scozzese volante”. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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Dal mio quaderno di ricordi..... - da Morris - 20-05-2020, 09:07 PM
RE: Dal mio quaderno di ricordi..... - da OldGibi - 21-05-2020, 05:38 PM
RE: Dal mio quaderno di ricordi..... - da Morris - 23-05-2020, 05:49 PM
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