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25 Aprile: tre ciclisti, fra i tanti, partigiani.
#1
Mentre il mondo della cosiddetta (molto cosiddetta) politica, ed i vertici della chiesa, si apprestano alla rasseggna dell'ipocrisia verso il funerale di Francesco e la sua successione, in questo giorno particolare che vorrei perenne nelle immanenze degli essere umani non venduti al diavolo che entra dalle tasche, riporto al tema di questo luogo tre ciclisti che hanno intonato i significati del 25 Aprile.....

Mario Ghella
[Immagine: Mario_Ghella.JPG]
Nato a Chieri il 23 giugno 1929. Velocista pistard. Professionista dal 1949 al 1958, con oltre cento vittorie su pista. È difficile restringere la storia di questo corridore su piccoli spazi. Anche perché, all’atleta, andrebbero uniti copiosi accenni sugli itinerari di un uomo straordinario, che fino all’ultimo è stato compiutamente in grado di far capire, a chi lo avvicina, le sue grandissime facoltà. Di Mario Ghella, nell’osservatorio più sofisticato e profondo, sono sconosciute talune parti che, se da un lato evidenziano la sua straordinaria precocità agonistica ed i copiosi titoli ottenuti, dall’altro, liberano il rammarico per come una simile figura possa essere trattata a colpi di albi d’oro, nella considerazione, visti i suoi tempi, di un ciclismo fatto di tanti “ciao mama son contento di essere arrivato uno”. Cosa ci resta a noi italiani di questo straordinario personaggio, per oltre sessant’anni cittadino di Caracas in Venezuela? Di primo acchito s’è portati a dire: “l’orgoglio di un atleta che ha vinto Olimpiade e Mondiale, che è diventato inventore e non ha mai dimenticato i più poveri”. Iniziò a pedalare seguendo il padre, calzolaio, un tempo mediocre dilettante, senza la convinzione nella scelta dello sport ciclistico, perché gli piaceva anche lo sci. Poi, il fatto di dover percorrere in bicicletta, ogni giorno, quei 12 km che separavano la natia Chieri a Torino, per frequentare l’Istituto Tecnico Industriale, lo caricò più delle prime vittorie. Un giorno d’estate del ‘45, mentre si trovava più per visita che per altro, al Velodromo di Torino, un tipo che lo aveva visto pedalare gli propose di sfidare l’ex Tricolore dei dilettanti, Degli Innocenti, che era lì ad allenarsi per gli imminenti “Italiani”. Mario pensò ad uno scherzo, ma decise di assecondare quel tipo. Gli prepararono alla meglio una bici e, senza esperienza alcuna, provò due sprint con quel prestigioso corridore. Lo fulminò due volte. In extremis, fu iscritto per gli “Italiani allievi” che si tenevano una settimana dopo. Li vinse a mani basse. Anche Degli Innocenti diventò nuovamente Tricolore fra i dilettanti. Fu l’inizio di un triennio incredibile. Nel ’46 rivinse il Titolo fra gli allievi e nel ’47 e ’48 quello fra i dilettanti. Partecipò ai suoi primi Mondiali nel ’47, a Parigi, dove si dimostrò competitivo per l’iride, ma fu eliminato non da gli avversari, ma dalla sfortuna, a causa della bicicletta ko. Nel ’48 partecipò alle Olimpiadi di Londra con la convinzione di poter vincere e fu così. In finale annichilì il già considerato leggenda Reginald Harris, tra l’altro corridore di casa. Tre settimane dopo, ad Amsterdam, si laureò pure Campione del Mondo, sempre nella velocità. Era il numero uno, anche rispetto ai professionisti, per i tempi fatti registrare. Passò nell’elite nel ‘49, ma anziché pensare alla sua carriera in termini di vertice, decise di girare il mondo gareggiando ed esportando sé stesso come testimonial e tutto questo lo appannò. Da prof vinse i Tricolori nel ‘51, chiuse 2° nel ’49, ’50, ’52 e ’55, 3° nel ’54 e 4° nel ’58. Il tutto continuando a girare il pianeta arricchendo la sua prorompente cultura ed a vincere per guadagnarsi la vita, ed un posto ove poter rendersi utile a quei più umili per i quali nutriva vicinanza fin dai tempi in cui, ragazzino, era una staffetta partigiana che usava le sue forti gambe per una speranza che doveva vivere perenne e, magari, trovare qualche traduzione fedele. Nel ’58 si stabilì a Caracas, in Venezuela, fondò una azienda di bici e di decorazioni per interni, inventò il primo bio-combustibile, ed arricchì di altre invenzioni, sempre votate all’ambiente, il suo tratto. Si scoprì pure artista, fu infatti uno scultore. Poi, sempre per le forti motivazioni che spingevano le sue attività quotidiane, passò l’ultimo scorcio di vita, ad Arenas de San Pedro, un paesino collinare della comunità autonoma di Castiglia e León, in Spagna. E là in quel territorio interno al Parco della Sierra de Gredos, trovò la morte il 10 febbraio 1920.

Maurizio Ricci (Morris)


Giuseppe Ennio "Cric" ODINO
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Nato a Alice di Gavi l’8 giugno 1924, deceduto a Bruxelles il 14 dicembre 2014. Professionista dal 1950 al 1952, senza vittorie. Corse per la Bianchi accanto all’amico Fausto Coppi, di cui fu pure segretario.
Di famiglia antifascista, solo all’età di quattro anni può conoscere il padre costretto a fuggire dall’Italia per le persecuzioni del regime. In giovane età Odino si impegnò nell’opposizione
al fascismo e a Carrosio (AL), paese natale del padre, entrò nella Brigata Autonoma Alessandria.
Arrestato il 7 aprile 1944 nell’ambito del rastrellamento della Benedicta, viene avviato alla fucilazione: protetto dal corpo di un compagno, rimane colpito dalle raffiche a una spalla e, caduto a terra, viene creduto morto dal plotone di esecuzione. Nonostante la ferita riportata tenta la fuga, che dura però soltanto qualche giorno. Nuovamente catturato, è deportato nel lager di Gusen, sottocampo di Mauthausen, dove viene classificato con la categoria Schutz (detenuto politico). Lì aderisce alla resistenza interna del campo, organizzando sabotaggi alla catena di produzione dei carrelli degli aerei per la Messerschmitt. Si prodiga inoltre per la liberazione del campo, avvenuta il 5 maggio 1945, e rientra in Italia il 30 giugno 1945.
Tornato alla vecchia passione per il ciclismo, diventa amico e segretario di Fausto Coppi partecipando a molte competizioni. Emigrato in Belgio nel 1958 e stabilitosi a Bruxelles, diviene uno dei primi funzionari italiani della Commissione delle Comunità Europee.
Sino alla morte è stato presidente dell’Anpi del Belgio. Nel 2008 ha pubblicato La mia corsa a tappe (No 63783 a Mauthausen), con l’appoggio dell’Associazione memoria della Benedicta.


Di lui si sa tantissimo del tratto passato sulla bicicletta e, soprattutto, per i ruoli del dopo carriera agonistica. Poco, molto poco, del ….prima….
Alfredo Martini era un giovane bibliotecario e un sagace operaio, quando nella sua Toscana inforcò la bicicletta per assaporare la delizia della sofferenza. Sistemava libri a Sesto Fiorentino, si sporcava le mani nelle Officine Meccaniche Pignone di Firenze, attendeva l’epifania sportiva.
Le sue radici morali poggiavano su un terreno operaio e socialista, su libri letti e pensieri da tramutare in testi scritti. La sua era una famiglia a tinte rosse. Il padre Pietro timbrava da sempre il cartellino nello stabilimento della Richard Ginori, azienda manifatturiera specializzata nella lavorazione di porcellana. Insieme alla moglie Regina fece in tempo a vedere esordire Alfredo, il terzogenito, nel ciclismo dei grandi.
Alfredo Martini divenne professionista a 24 anni, nel 1945, ma prima di divenire forse il gregario più ricercato dai mostri sacri del pedale, fu, durante la II Guerra Mondiale, un attivo partigiano.
Il conflitto bellico lo vide scegliere con chiarezza e integrità. La brigata Lanciotto Ballerini lo accolse tra le sue fila, sfruttando senza sosta le forti gambe del ragazzo che, solo pochi anni dopo, avrebbe fatto propri il Giro dell’Appennino e quello del Piemonte.
All’ombra del Monte Morello trasportò viveri, messaggi segreti, notizie di speranza e, obbligato dal contesto, armamenti per la Resistenza. Un carico in particolare rimase impresso nella sua memoria, un cesto di molotov: “Se fossi caduto in bicicletta e le bombe si fossero rotte… Sarei saltato in aria”, avrebbe poi detto.
Finita la guerra aiutò Fiorenzo Magni, amico fraterno delle strade toscane. Depose a suo favore nel processo-evento che vide imputato proprio il ‘Leone delle Fiandre’, accusato di collaborazionismo e di partecipazione all’operato mussoliniano.
Dei tanti famosi ciclisti chiamati a deporre si presentò il solo Martini. Passò in mezzo ad ali di folla inferocite, in mezzo ad occhi amici e conosciuti, partigiani che reclamavano la testa di chiunque fosse labilmente legato al mostro nero. Martini fu onesto e sincero, come richiedeva la sua coscienza.
“Tutti l’han sempre considerato una persona retta, una persona che ha ottenuto buoni riscontri tra i tifosi di ciclismo perché provocava tanto agonismo nelle corse e quindi si faceva ammirare per il suo coraggio e per il suo comportamento. Una persona, insomma, dai sani principi, che non avrebbe fatto del male a nessuno”, disse nella tensione generale l’atleta di Sesto Fiorentino. Magni venne assolto grazie a queste parole.

Saluti!
 
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