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Albert Van Damme, il "Leone di Laarne".
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[Immagine: van%2Bdamme17.jpg]
Aveva vent’anni e ne dimostrava quaranta, ed a quaranta pareva un pensionato, ma è stato un poeta di quel grumo di emozioni che anche la più banale gara di ciclocross sa lasciarti. Un fiammingo dallo sguardo torvo, dal ghigno di pugile ardimentoso e denso di “punch”, ed in possesso di quei numerosi lineamenti che spinsero Lombroso, nei decenni lontani ben oltre un secolo, a quella teoria della criminologia che ha fatto troppi passi in più di quel che meritava. Eppure, questo figlio delle terre di numerose miniere teatro d’emigrazione di tanti italiani, si gongolava all’interno d’un cuore sempre pronto a palpitare, nell’orizzonte di oneste volontà e di tanta disponibilità, verso chi lo guardava dare sempre il meglio di sé.
Albert Van Damme era l’uomo dell’inverno del nord del pedale, quello che apriva ai prati, ai fossati e al fango, la sincronia col suo viso naturalmente proiettato a trasmettere i segni dello sforzo. Un atleta interamente vissuto, o quasi, all’interno d’una variabile troppo sottostimata del pedale, sfortunato per fatti intrinseci e per essere caduto nell’era di un leggendario e fortissimo avversario, per giunta spesso aiutato da un fratello celebre su strada e quasi altrettanto forte sul fango. Certo, perché se oggi di Albert, non posso parlare di un mito e sol perché la sua strada ha incocciato con la forza, la classe e la determinazione di Eric De Vlaeminck (il più forte ciclocrossista di tutti i tempi?), al quale veniva a dar man forte, componendo una forbice soffocante per Van Damme, proprio il fratello Roger, il “gitano di Eecko”. Stretto da quella morsa, Albert riuscì ugualmente ad emergere, a dimostrazione di straordinarie qualità. 
Erano anni di gran lusso per il ciclocross: la stella gentile e classicheggiante del vittoriese Renato Longo, sentiva il peso dell’età, come del resto quella del tedesco dal portamento da intellettuale, in arte Rolf Wolfshohl, ma alle loro spalle oltre ai formidabili belgi menzionati, ai quali si aggiungevano Renè e Roger De Clercq, Robert Vermeire, Herman Van Caester, Freddy Nijs, c’erano gli svizzeri Herman Graetner e Peter Frischknecht, i francesi Andrè Wilhem, Michel Pelchat ed il breve e tragico Jean-Pierre Ducasse, nonché l’olandese Huub Harings. Le gare trovavano oltre al pubblico sempre numeroso, anche le telecamere ed i taccuini, mentre per i corridori c’era la dignità d’un contratto all’interno di squadre vere. 
Bei tempi, umani e pieni di pathos.

Albert Van Damme, nato a Laarne il primo dicembre 1940, capì ben presto, anche per l’esempio che gli veniva quotidianamente dal fratello Daniel, di un anno più anziano e discreto ciclocrossista, di avere nel fuoristrada il terreno ideale per sviluppare le sue doti, fatte di ritmo, buone qualità nei tratti di corsa con la bici sulle spalle, ed una straordinaria capacità di soffrire il disagio e la fatica di un’ora di gara ai limiti. Divenne subito un riferimento nazionale a livello assoluto. Nel 1962, era già il numero due belga e l’anno successivo colse il primo dei suoi sei titoli nazionali. In diciassette anni di carriera professionistica ben tredici volte è salito sul podio del campionato nazionale (una gara che per l’ampiezza e lo spessore del movimento belga, portava con sé significati semi-iridati). Alle sei vittorie, aggiunse cinque secondi posti e due terzi posti. Anni in cui la sua rivalità con Eric De Vlaeminck si cementò al punto di alzare ad evento le numerose prove ciclocrossistiche del quadrilatero composto dalla Francia settentrionale, dal Belgio, dal Lussemburgo e dall’Olanda, territori sempre capaci di portare sui circuiti campestri, un pubblico superiore alle quindicimila persone. Nelle Fiandre, era Albert a farla maggiormente da padrone, al punto di far dichiarare al grande rivale di Eeklo: “E’ vero, sono io l’uomo belga delle maglie iridate, ma Albert è quello dei campionati nazionali, non dimenticatelo”. 
Già, Eric vinceva i mondiali, mentre Van Damme su quattordici partecipazioni alla rassegna iridata guadagnò solo un titolo. Va detto però, che alcune sconfitte si consumarono soprattutto sull’amaro sentiero della beffa. Ricordo bene quella del 1970, a Zolder, quando si giocò il mondiale allo sprint col rivale di sempre. Il grande Renato Longo stava cantando le ultime presenze di una straordinaria carriera, ed io avevo iniziato a scegliermi il suo successore in quanto a tifo, finendo per preferire proprio il grigio belga, soprannominato "il leone di Laarne". Ero convintissimo che, alla fine, Van Damme avrebbe prevalso su De Vlaeminck, me lo dicevano il ghigno e lo sguardo di Albert, me lo confermavano le sue gambe che mi ricordavano un calciatore del tempo, un tipo arcigno nella montagna di classe, tal Josè Altafini. Mi sentivo sicuro del sorpasso dell’uomo di Laarne, ma le sicurezze, in giovane età, spesso, si confondono col sogno. Sui prati e sul fango di Zolder, i due fiamminghi se le diedero di santa ragione, annichilendo gli altri. Parevano ignari del chiasso delle migliaia e migliaia di persone attorno a loro, sembravano due cacciatori che litigano senza provocazioni prendendosi a pugni sotto lo sguardo dei cani, come una recita interiore, scoperta per caso, in un angolo del cuore. Eran cazzotti fatti di scatti in bici ed a piedi col mezzo sulle spalle, di salti sugli ostacoli, di sguardi per cogliere le mosse ed i possibili anticipi. Fu una battaglia di titani, lunga un’ora ininterrotta, sul mar marrognolo del fango sentito come dignità profumata di fresco. 
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Eric ed Albert, indivisibili come fossero dioscuri, l’uno con la calamita per la ruota dell’altro e viceversa: uno spettacolo! Ed arrivò il rettilineo finale, l’ultimo acuto di quella recita richiamante l’essenza dei loro copioni. Eric sapeva di possedere più scatto, aveva vinto anche su strada per quella peculiarità, ed era il modo migliore per disarcionare la comunque temibile progressione di Albert. L’uomo di Eeklo partì a 200 metri dalla fettuccia, una distanza enorme per la volata di una gara di cross. Un colpo secco, come era nelle fibre del biondo Eric. Albert, vide l’acuto del rivale nell’attimo giusto, ed azionò subito la sua rimonta: capì subito che era veloce. 
I metri passavano, ed il ghigno dell’uomo di Laarne, s’era accompagnato all’urlo di uno sforzo sempre più redditizio. A cinquanta metri dalla linea, Van Damme, capì di aver compiuto la sua opera di difesa e contrattacco: ancora qualche pedalata e sarebbe giunto, finalmente, a cavalcare l’arcobaleno nel cielo degli albi d’oro. Era il momento che sognava da tempo, dopo tante sconfitte, per liberare il grido del suo essere, comunque, un grande. Emozioni e pensieri, gioia e consapevolezze condensati nei tasselli degli attimi, come un turbine collegato fra le dimensioni della mente e delle realtà. Ai 20 metri, Albert era campione del mondo, sicuro d’aver matato quell’avversario sì grande e si preparò per alzare le braccia al cielo pedalando solo sulle ali dello slancio. Fu un anticipo fatale. Eric, furbo ed indomito, raccolse le ultime forze e si gettò nell’ultimo disperato tentativo di contro-rimonta. Albert lanciò le braccia al cielo, mentre De Vlaeminck piegava il suo corpo ed i suoi muscoli per trasmettere, parallelo al cannone del telaio della sua bici, quell’acuto esplosivo chiamato “colpo di reni”. La fettuccia di Zolder, nonostante un uomo inneggiante il segno di vittoria, diede il responso d’un velodromo: aveva vinto Eric, di due centimetri! Solo il fotofinish aveva diviso i due leoni, dopo un’ora di duello fra sentieri, ostacoli e fango. Albert, era stato tradito dal cuore e dalla felicità che può raggiungere anche chi, nel volto, sembra insensibile e cinico. Ancora una volta Lombroso era stato smentito.

Il leone di Laarne, dopo aver gettato il mondiale, riprese la sua corsa, il suo lavoro, ad inseguire ed ogni tanto a battere, la crescente leggenda dell’uomo di Eeklo. Ma l’anno successivo, sul circuito iridato di Apeldoorn, in Olanda, lo stregato rapporto di Van Damme con la maglia iridata, recitò una pagina che avrebbe steso chiunque. In una corsa che pareva la fotocopia di quella di Zolder, coi due soliti grandi attori protagonisti, s’attendeva sul terreno del medesimo sprint l’operazione chirurgica atta a dividerli. Era la logica delle loro gambe e del loro cuore, ma in mezzo ci stava quel che per Albert pareva il destino. Stavolta non fu un suo errore di gioia, ma l’incauta esaltazione di uno spettatore che si protese ben oltre i margini del sentiero di gara, finendo per far cadere Van Damme in un fossato. L’episodio si rivelò decisivo, perché ad ottocento metri dal traguardo, non c’era più la possibilità di recuperare su un avversario sì grande e lanciato come Eric. Quest’ultimo non si fermò ad aspettarlo, ma il suo fu solo in parte un atto poco cavalleresco, perché al momento della caduta di Van Damme, De Vlaeminck era davanti e, dopo poco, incontrando una curva, non poté capire, voltandosi, cosa fosse successo al rivale. D’altronde i due avevano cercato di  staccarsi per tutta la gara, ed era legittimo che il grande ciclocrossista di Eeklo, pensasse ad un cedimento di Albert. Arrivarono così al traguardo nelle ormai comuni posizioni della gara iridata, con Eric che anticipò il grande rivale di qualche secondo e, per quest’ultimo, fu l’ennesima beffa. 

Le primavere passavano. Per Van Damme, già ultratrentenne, era sempre più difficile pensare ad un incontro con quell’iride sempre sfuggito. Ciononostante, continuava a vincere, a battere sovente Eric, ma ai mondiali si perdeva. Nel 1972 a Praga e nel ’73 a Londra, mancò il podio, mentre De Vlaeminck, con la vittoria londinese, portò il suo bottino a sette titoli mondiali, di cui, gli ultimi sei, consecutivi. 
Il leone di Laarne però, continuava con immutato entusiasmo: il suo volto era sempre lo stesso d’un tempo e la sua presenza una garanzia di spettacolo. 
Nel 1974 ai campionati belgi, Eric, sempre più lanciato, aveva sconfitto nettamente Albert, ed il modo col quale s’era consumata quella gara, lasciava poche speranze a Van Damme per i mondiali di Vera di Bidosoa, in Spagna. Ma nella vita di questo grande campione dalle tinte grigie e dalla  sfortuna sempre pronta, un rivolo arcobaleno doveva pur arrivare….. Ed infatti, proprio nella corsa meno annunciata, Albert liberò compiutamente il suo canto campestre, dominando il mondiale ed annichilendo, dopo tante sconfitte, anche i furori agonistici e tecnici del leggendario di Eeklo. Quello di Van Damme, fu un assolo, come era solito fare Renato Longo, il poeta dei prati. Per De Vlaeminck, restò solo l’illusione di un inseguimento che col passare dei minuti si materializzò in un miraggio. Una vittoria sublime, ed una maglia iridata che portò i colori arcobaleno all’incontro con una rara forma di fulgido: Albert Van Damme, a 34 anni, era finalmente il numero uno del mondo. 
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Il “Leone di Laarne” continuò a correre ignaro del tempo e delle rughe arrivanti, dimostrando che l’acuto di Bidosoa non era stato un canto del cigno, ma non vinse più titoli nazionali, pur continuando, in essi, a salire sul podio. In Belgio e in Europa, intanto, si stavano affacciando nuovi protagonisti, e la stessa stella di Eric si stava appannando. Albert, con le sue gambe potenti ed il suo portamento sempre corretto, divenne così un riferimento per i più giovani, ma un vecchietto col vizietto di batterli, specie nelle giornate dove il freddo rattrappiva anche l’ultimo agone di sopportazione. 
Nel 1978, ad Oostakker, dopo aver tagliato il traguardo in quella che era la sua 419esima vittoria (tutt’oggi primato ineguagliato nel ciclocross), Albert Van Damme trasformò il suo ghigno agonistico, in un sorriso per gli occhi dei ricordi e mise la bicicletta in soffitta. All’annuncio dello speaker, la folla gli tributò un’ovazione e nel volto scavato del Leone di Laarne, un rivolo di lacrime dimostrò, ancora una volta, quanto sotto la scorza del duro, si celasse quel cuore che l’aveva eletto campione. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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