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Bob Seagren, l'acrobata di Pomona.
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In questi giorni si compiono i 46 anni dalla sua unica gara italiana, in quel di Formia, ed è un Campione Olimpico di mezzo secolo fa, in quei Giochi così significativi e densi di speranza per lo sport e lo stesso genere umano.
Lo sport è arte in quanto forma espressiva. Ed è pure una grande occasione per migliorare la propria cultura. Degli sport, l’Atletica Leggera viene definita “La Regina”…..e ci sono tante ragioni per confermarlo con gli applausi e l’ammirazione più profonda.......


Bob Seagren, l'acrobata di Pomona. 

Dopo Serghei Bubka, Bob Seagren può essere considerato il più grande saltatore con l’asta della storia. A livello d’innovazione e ricerca, forse, addirittura il migliore in assoluto. Tanto meticoloso quanto coraggioso (la prima asta in fibra fu testata proprio da lui), sapeva interpretare la gara sul piano psicologico come nessuno. Difficilmente sbagliava un grande appuntamento e la sua tecnica di scavalcamento era sublime. Un personaggio, un po’ snob e narciso, ma un interprete sopraffino del suo sport. Figura nobile dell’atletica intera, prima dell’avvento degli ormoni.

I tratti salienti della sua carriera.
Nato il 17 ottobre 1946 a Pomona, in California, Robert “Bob” Seagren, fu un talento precocissimo. Dotato di una grande velocità di base (correva i 100 metri in 10”70) e di una forza non comune, a soli 20 anni appena compiuti, vincendo il titolo universitario statunitense, migliorò il primato mondiale del connazionale Fred Hansen, Olimpionico a Tokyo, saltando 5 metri e 32 centimetri. Fresno, la località dell’evento, accolse il record come un positivo colpo di scena, perché la specialità, che aveva negli Stati Uniti da sempre la scuola principe, poteva vantare già due interpreti ben più accreditati di Bob e considerati imbattibili: il detronizzato Hansen e quel John Pennel, col quale Seagren, in seguito, duellerà a lungo, fino a vivere verso il collega, un’ammirazione-rivalità che superò i confini delle pedane. 
Il sempre determinato giovane californiano, l’anno seguente, si impose ai Giochi Panamericani, una rassegna che, in quella edizione, si dimostrò come non mai annunciatrice di future star. 
Nel frattempo però, Pennel gli aveva tolto il record mondiale portandolo a 5 metri e 34. Lo “schiaffo”, mal sopportato dal giovane di Pomona, fu regolato a San Diego il 10 giugno ’67, quando, addirittura alla prima prova, Seagren saltò 5 metri e 36. Pochi giorni dopo a Bakersfield, un altro giovane della sconfinata scuola americana, Paul Wilson, mise a tacere i due “litiganti” John e Bob, migliorando il record mondiale di due centimetri. 
Il californiano accolse il risultato del nuovo rivale ed amico con un sorriso, dicendo che si sarebbe rifatto con gli interessi ai Trials per le Olimpiadi di Città del Messico, dove avrebbe vinto l’Oro, con tanto di nuovo primato mondiale. Le sue parole furono profetiche, perché ad Echo Summit, nelle selezioni americane, vinse, portando il record del mondo a 5,41 metri, mentre sull’altura della capitale messicana, in un pomeriggio afoso di smog e con una temperatura caldissima, volò a 5 metri e 40 centimetri, prendendosi così tutto quello che aveva annunciato. Pennel, nella gara più importante finì quarto, superato oltre che dal “nemico”, anche dal tedesco dell’ovest Claus Schiprowski e da quello dell’est, Wolfgang Nordwig. John, ai bordi della pedana, indifferente della medaglia di legno, giurò al connazionale-rivale che gli avrebbe tolto nuovamente quel record. E  l’anno seguente, il 21 giugno, a Sacramento, il sicuro Pennel, batté Bob e stabilì con 5 metri e 44, il nuovo primato mondiale. Stavolta fu Seagren a rivolgersi al rivale, per dirgli che l’avrebbe battuto nelle gare importanti e gli avrebbe soffiato nuovamente, anche con ampio margine, il record mondiale. Fu un’affermazione in realtà pensata, perché l’uomo volante di Pomona, aveva capito che l’evoluzione della specialità si sarebbe poggiata su un’asta di fibra ben diversa, più difficile da caricare, ma in grado di consentire una frustata così forte, da modificare la velocità nell’esecuzione stessa dello scavalcamento dell’asticella. Seagren si preparò in silenzio, meticoloso come sempre, lasciando le sue partecipazioni alle gare solo negli appuntamenti che riteneva importanti. Vinse i campionati nazionali nel ’69 e ’70, battendo quella che era ancora la più forte scuola di astisti del mondo, in particolare i rivalissimi Pennel e Wilson. Ma a fine anno, in allenamento, cadendo male sui cuscini, non poté evitare l’impatto con la pedana ed il ginocchio destro si fracassò. 
Il giudizio degli specialisti che lo visitarono fu disarmate: secondo loro era perduto per l’attività agonistica. Bob si eclissò, aggiungendo la prova più importante ai suoi programmi, quella di smentire tutti. Recuperò pian piano l’arto, sacrificandosi con la più ferrea delle volontà, fino ad allargare gli occhi dell’ammirazione, nel coach di sempre, Vern Wolfe.
Di Seagren non parlava più nessuno, era dato per finito anche dall’osservatorio. In pochissimi sapevano degli sforzi che stava sostenendo, fra lo stupore di taluni specialisti. 
“Per recuperare  – diceva – devo scordarmi del dolore, dell’operazione al ginocchio e devo provare a saltare con la nuova asta, come se nulla fosse successo. Non ho alternative se voglio vincere ancora”. 
Lui s’allenava con una certa intensità, senza mai dimenticare l’uso compagno di quell’attrezzo che l’aveva fatto cadere un anno prima, quando era ancora da testare compiutamente. Uno strumento che, poi, era stato portato in gara con grandi risultati dallo svedese Kjell Isaksson, divenuto nel frattempo il nuovo primatista del mondo. Seagren, che era stato il primo a provarlo, sapeva quanto sul nuovo attrezzo vi fosse ancora da lavorare, non già in termini di collaudo, bensì nel modificare tutto l’impianto del salto, per sfruttare al meglio le nuove potenzialità. La nuova asta era di fiberglass, ovvero fibra di vetro del diametro di 10 micron, fuse in resine plastiche (epoxi-polisteri), ma Bob sapeva pure che per arrivare a quelle misure che sentiva possibili, era necessario allungare la lunghezza dell’attrezzo.
Il suo, dunque, era un allenamento totale: di recupero fisico dopo l’intervento e di sperimentazione e studio sulla nuova asta e sulle possibile elaborazioni. Nel suo genere e nel silenzio, Seagren, stava partorendo una rivoluzione geniale, di cui tutti gli astisti, poi, attingeranno i benefici. 
Nella primavera dell’anno olimpico arrivò in allenamento a saltare 5,30, una buona misura, soprattutto per verificare che il suo potenziale atletico era per gran parte recuperato. Decise così di venire in Italia, a Formia, per provare in gara i suoi valori, convinto che il meeting italiano gli potesse dare delle indicazioni importanti per sé, oltre a verificare il valore di avversari di nota e possibili favoriti per le Olimpiadi. L’undici maggio dunque, nella cittadina laziale, lasciando a bocca aperta l’osservatorio, gareggiò, portando al pubblico i suoi echi di olimpionico della specialità e, pur esibendosi con la vecchia asta, saltò 5,40 alla terza prova, ad un solo centimetro da quel personale che, quattro anni prima, gli era valso l’ennesimo record del mondo. Dopo l’esibizione di Formia, anche i più scettici capirono che il californiano poteva superare i Trials e giocarsi nuovamente i massimi risultati possibili ai Giochi di Monaco. Il primo a provarlo, fu proprio Kjell Isaksson, il quale in una gara a Los Angeles, non era stato capace di lasciarselo alle spalle nonostante i 5,50 saltati. L’arrivo del record americano e ovviamente personale, per Bob non rappresentava altri che una tappa di avvicinamento per il Trials di Eugene, dove, a suo giudizio, avrebbe potuto sparare quelle che per lui erano le potenzialità della nuova asta. Ancora una volta, l’uomo volante di Pomona, aveva visto giusto e nella città dell’Oregon, là dove si vede in lontananza la maestosità dell’oceano Pacifico, andò a toccare il cielo, con un salto di 5,63 metri, nuovo primato del mondo. 
Aveva seppellito John Pennel, l’amico rivale, come gli aveva promesso, di ben 19 centimetri! 
Era tornato il re, ma stavolta, su di lui, si concentrarono le attenzioni dell’osservatorio, a dispetto di tanti grandi di altre specialità dell’atletica. Bob tra l’altro, rafforzò non poco l’interesse per una dichiarazione che stupì gli stessi tecnici: “A Monaco porterò il record mondiale a 5,70, una misura che ho già saltato in allenamento.” 
Effettivamente, chi lo conosceva, non metteva dubbi sulla veridicità delle sue parole, ma tutto questo portò la IAAF ad una valutazione approfondita delle entità della nuova asta. 
Col ruolo di favorito principe, si presentò così alle Olimpiadi a difendere il suo titolo, ma il giorno prima delle qualificazioni, l’organizzazione mondiale di atletica, vietò il nuovo strumento, lasciando comunque omologato il primato del mondo che Bob aveva raggiunto a Eugene. Una decisione assurda, che lasciò Seagren letteralmente a piedi: non aveva portato a Monaco nessuna vecchia asta! Anche altri colleghi s’erano visti impossibilitati a gareggiare col nuovo strumento, ma tutti avevano portato tra gli attrezzi di riserva delle vecchie versioni. Solo Bob non ne aveva nessuna. Fu così costretto ad andare in prestito e a mendicare un’asta. Quando, finalmente ne trovò una, capì che tutto il lavoro svolto era perduto: lo strumento rimediato, era più corto di quello che normalmente usava e non aveva il tempo di provarlo adeguatamente. Le qualificazioni divennero per lui l’unico allenamento prima della gara e con quell’unica asta, senza ricambio, doveva reimpostarsi, proprio nell’appuntamento più importante. Assurdo! 
Costretto ad entrare in gara a misure più basse, ben sapendo che a causa dell’infortunio non poteva proporsi un numero di salti come gli altri, fu ugualmente bravissimo e con l’attrezzo di fortuna, riuscì a raggiungere la Medaglia d’Argento. Vinse il tedesco Wolfgang Nordwig, saltando 5,50, esattamente la misura che Seagren aveva scelto come “l’entrata in gara” con la sua vera asta! Il californiano, con quel vecchio strumento rabberciato alla meglio e con l’imposizione di modificare, improvvisando, l’impugnatura, la rincorsa e la tecnica di stacco, si fermò a 5,40, ma aveva dimostrato, ai palati fini del salto con l’asta, chi era effettivamente il più forte. 
Deluso e arrabbiato, all’indomani delle tristi giornate bavaresi, il grande acrobata di Pomona, a soli ventisei anni, abbandonò l’atletica. Era stato un grande interprete per le risultanze e per lo studio dell’evoluzione dello strumento. I suoi avversari, tutti, compreso Nordwig, abbracciarono la sua asta facendola divenire compagna abituale, ma non riuscirono mai a superare o avvicinare  il suo 5,63, tanto più quel 5,70 che Bob aveva saltato in allenamento. 
Robert “Bob” Lloyd Seagren, era stato di un altro mondo e per superarlo, arrivò da un altro pianeta, quasi tre lustri dopo, un extraterrestre ancor più immacolato, Serghei Bubka.

L’uomo Seagren e il suo "dopo carriera".
Stereotipo dell’americano che vede gli USA al centro del mondo, in posizione superiore o principesca. Nel 1967, affermò che era stupido laurearsi a Berkeley e che era molto più produttivo, per il futuro d’America, andare in Vietnam a combattere (lui però non vi andò mai). Amante della cura del corpo e pure narciso, si trasformò ben presto in attore, fino a costruirsi una tangibile carriera nel mondo delle soap opera (avesse saputo recitare bene, vista la sua prestanza fisica, sarebbe diventato un divo di Hollywood). Col tempo, ha poi incentivato i suoi rapporti nell’ambito dell’Università della California, sia come divulgatore che come curatore d’immagine. Notevole il suo impegno nell’organizzazione di eventi di grande richiamo come la Maratona di Long Beach. Impegnato praticamente da sempre nel marketing, è oggi uno degli uomini-immagine della Puma. 

Il suo curriculum: 
- 4 Record Mondiali (1966-’67-’68-’72)
- 6 Primati statunitensi (nel 1966 due volte, nel ‘67, nel ’68 e tre volte nel ’72)
- Campione Olimpico nel 1968
- Argento Olimpico nel 1972
- Vincitore dei Giochi Panamericani nel 1967 
- Tre volte Campione USA (1966-’69-’70) 
 
Un ricordo personale: il Meeting di Formia 1972.  
Agli inizi della stagione olimpica ’72, mentre la stella di Pennel si stava afflosciando naturalmente, il redivivo Bob, fra lo stupore generale, venne in Italia per partecipare al meeting di Formia. La cittadina laziale, ancor oggi sede del miglior centro d’atletica d’Italia, a quei tempi, sapeva radunare attorno alla propria manifestazione, una bella fetta dei big mondiali. Per i colori nazionali, l’evento del ’72, doveva essere la prova del nove per verificare le condizioni di due azzurri possibili di medaglia olimpica: l’italo-sudafricano Marcello Fiasconaro e Renato Dionisi. Sul primo, si temeva un sovraccarico di lavoro, in considerazione dell’intensa stagione invernale di allenamenti e gare, svolte al caldo del Sudafrica. Qui, oltre ai 400 metri, contro il parere dei tecnici azzurri, aveva provato con grandissimi risultati, quella che poi si rivelerà la sua vera specialità, gli 800 metri. Era riuscito a battere Daniel Malan, un fortissimo specialista del mezzofondo breve, il quale, essendo cittadino sudafricano, per la politica di aparthaed del suo paese, non avrebbe  potuto partecipare ai Giochi di Monaco. Aldilà della superattività di “March” Fiasconaro, in Italia, proprio non si vedevano per lui sbocchi al di fuori di quei 400 metri dove, l’oriundo, per essere ai vertici mondiali, avrebbe dovuto migliorarsi di un secondo. Sulla distanza doppia, invece, anche una capra poteva predirgli un radioso futuro. Il non ancora diciassettenne sottoscritto, tifosissimo di March, dopo essersi trasformato in un topo d’ufficio, per trovare nelle edicole i risultati del beniamino in Sudafrica, sperò fino all’ultimo in un suo passaggio agli 800, in barba ai tecnici azzurri. La cosa non avvenne e Formia, purtroppo, segnò una tappa non positiva per la carriera olimpica di Fiasconaro. L’oriundo gareggiò sui 400 vincendo in 45”6 manuale, un tempo che non diceva nulla a livello mondiale, ma, nell’occasione, batté Curtis Mills, un mastodontico americano di colore, coi basettoni ed i lineamenti del cantante dei Mungo Jerry (un complesso inglese, poi divenuto meteora, in voga in quei tempi per la celeberrima “In the summertime”). Lo statunitense era un tipo fortissimo per i notevoli personali sia sui 400 che sulle 440 yard, ma era venuto a Formia per il gettone e per fare allenamento. Fatto sta, che la vittoria di March, contro un illustre (anche se poi egli stesso meteora come il sosia dei Mungo Jerry), sciolse anche la piccola speranza di un suo passaggio, con effetto immediato (in previsione olimpica), al mezzofondo veloce. E, come volevasi dimostrare, Fiasconaro, dopo qualche settimana, di fronte ad un appannamento della forma di dimensioni notevoli, si fece pure male. Così, quella che poteva essere una possibilissima medaglia sugli 800, finì per vivere le Olimpiadi come un’illusione. 
Renato Dionisi, invece, si presentò a Formia, in condizioni di spirito ben diverse: lui, da predestinato campionissimo del salto con l’asta, aveva passato anni a lottare coi suoi tendini di talco che lo avevano tenuto lontano dalle pedane, ma da qualche settimana, grazie ad una cura del professor Oliva (che poi risulterà illusoria), aveva lasciato i luccichii della sua Laverda 700, per prendersi la luce personale degli allenamenti. Quel meeting, doveva rappresentare la prova dei suoi eccelsi valori, all’alba dell’anno della sua terza Olimpiade, a soli 25 anni, magari stavolta da protagonista. Renato, era veramente un fenomeno, forse il più grande, potenzialmente, dall’atletica italiana d’ogni tempo in una specialità tecnica. A soli 17 anni, aveva stabilito il primato italiano assoluto, ed aveva saltato a Tokyo ’64. Poi, quei tendini, quei maledetti tendini, l’avevano fatto tribolare, lanciandolo nel motociclismo e nelle piroette che, su quel mezzo, nel sua Riva del Garda, svolgeva per dare incanto a quelle stimmate costrette all’esilio dall’amata pedana. In tutti quegli anni dove pure era riuscito a partecipare a Mexico ’68, era riuscito, grazie a qualche frammento di dolore sopportabile, a svolgere qualche allenamento ridicolo, pur sempre sufficiente però, per portarlo dai 4,50 del ‘suo primo record nazionale nel ’64, ai 5,35 dell’ultimo, nel ‘70. Cifre e dati che, da soli, facevano venire i brividi, tanto più al cospetto di una incredibile constatazione: a Dionisi, ogni anno, bastava una sola gara conclusa, per portarlo ad una delle prime dieci misure del mondo. Pazzesco! 
Formia, dunque, poteva e doveva aiutarlo a parlare quel suo sublime linguaggio acrobatico, là, nell’alto del cielo primaverile, in mezzo agli aliti di vento tirrenico. Prima ancora degli avversari, stavolta avrebbe dovuto lottare con un’altra versione di se stesso, per convincersi di essere guarito. 
Ad attendere Renato, c’era un piccoletto biondino svedese di 24 anni, Kjiell Isaksson, alto solo 1,74 metri ed ex ginnasta, ma astista faro del momento, perché nell’aprile di quell’anno, nelle dimore americane sue solite per studi, aveva abbattuto la barriera dei 5,50, portando il record mondiale, dapprima a 5,51 ad Austin e, poi, una settimana dopo, a Los Angeles, a 5,54 metri. Lo svedese, sulla carta, non lasciava spazio a Dionisi, anche se il ragazzo di Riva del Garda, in una giornata senza dolori poteva battere tutti e raggiungere anch’egli il record del mondo. I giornali parlarono a lungo della sfida italo-svedese, dimenticando, non senza colpe, il campione olimpico, quel Bob Seagren che, alla chetichella, senza che nessuno negli Stati Uniti lo sapesse, s’era presentato al Meeting. L’arrivo del grande californiano, non impensieriva né Renato né Isaksson. Al pari degli organizzatori, era sì visto nel suo gran nome, ma nelle vesti di un Brumel dell’asta. Come il leggendario sovietico saltatore in alto, infatti, lo si considerava un mito alla disperata ricerca, dopo il grave infortunio, di riportarsi su misure appena decenti, per mantenere il ricordo delle grandezze d’un tempo finito e non più raggiungibile. Ma il californiano di Pomona sapeva bene quello che voleva e valeva. 
Iniziò superando i 5,10 alla prima prova, idem i 5,20 e i 5,30. Poi, quando in gara erano rimasti, oltre a lui, l’ispiratissimo Dionisi e il primatista mondiale Isaksson, riuscì ad incollarsi, ancora una volta a costoro, superando i 5,35, alla seconda prova. Lo stupore si sciolse in un lago d’emozione quando, con la volontà ferrea dei supremi, scavalcò alla terza prova la medesima misura che gli aveva dato l’oro a Città del Messico: 5,40. Era al rientro dopo esser stato dato per morto all’atletica, eppure, davanti a lui, solo per minor numero di errori, erano finiti il vincitore Renato Dionisi, giunto all’ennesimo primato italiano e il numero uno del momento, Kjell Isaksson. Nel guardarli saltare con l’attenzione massima che viene dall’ammirazione, si capiva che l’italiano e il californiano erano divini anche se rappezzati. Isaksson non li valeva. Poi, Renato si sciolse nei soliti tendini di talco e Bob andò incontro alla nuova gloria, mozzata fino all’uccisione psicologica, da un’assurda decisione della IAAF, proprio nella gara che gli avrebbe donato l’immortalità e la leggenda, le Olimpiadi di Monaco. 
Formia, senza pretese, aveva sentenziato con acume l’olimpo delle sublimi bellezze di questa specialità, ma per i due grandi, evidentemente, la sorte voleva adagiarsi ancora una volta, sull’antipatia. Un peccato, un peccato davvero, perché, Bubka a parte, i miei occhi non hanno mai più visto saltatori-acrobati come Seagren e Dionisi. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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