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Diego Maradona
#1
All’età di 60 anni è morto Diego Armando Maradona. Un arresto cardiaco fatale, mentre si trovava nella sua abitazione.
Sul campo è stato divino come nessuno. L'unico che faceva partire la sua squadra sull'1 a 0. Prima o poi scriverò su di lui...
Ora, lo piango. Veramente.
 
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[+] A 5 utenti piace il post di Morris
#2
Tra le tante perle calcistiche che ci ha lasciato una delle mie preferite rimane l'assist a Burruchaga per il terzo e decisivo gol nella finale mondiale del 1986.





Viene citato troppo poco secondo me ma quell'unico tocco per metterla esattamente dove sa che ci sarà il suo compagno (non sono sicuro che lo veda con gli occhi ma sa che sarà lì) per me ha un'attrazione anche maggiore del gol contro l'Inghilterra.

RIP
 
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[+] A 3 utenti piace il post di Paruzzo
#3
Per me è un genio, è nato giusto per essere un fantasista.
 
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#4
Classico giocatore genio e sregolatezza,insieme a lui se n’è andato il migliore giocatore della storia
 
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#5
Da piccolo pensavo che fosse la cosa più normale del mondo che il più grande calciatore di tutti i tempi giocasse nella squadra della mia città. Crescendo mi sono reso conto che probabilmente avevo ragione.
 
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[+] A 1 utente piace il post di BidoneJack
#6
SI è conclusa la sua visita sulla terra, ma penso sia una di quelle personalità talmente grandi che trascendono qualsiasi contingenza, qualsiasi "essere qui ed ora". Se si è artisti lo si è in eterno
 
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[+] A 1 utente piace il post di Giugurta
#7
E' stato fenomenale, più di qualsiasi altro campione. Mi ha sempre dato l'impressione di giocare con l'entusiasmo e l'iperbolica fantasia di un dotatissimo bambino. Lo stesso bambino che non aveva abbastanza strumenti per governare quel successo al di fuori del campo. E come ad ogni bambino, gli volevi istintivamente bene. Spero che lassù ce l'abbiano un pallone. R.I.P.

Tra i tantissimi filmati questo è forse uno dei più rappresentativi , si avvertono le sue radici, il suo amore per il calcio, la sua semplicità.
 
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[+] A 1 utente piace il post di OldGibi
#8
Rappresenta l'essenza del calcio, con tutti i suoi pregi e le sue tante contraddizioni. Non so nemmeno dire se è il migliore di tutti i tempi (e soprattutto non mi voglio avventurare in questo) non avendolo mai visto giocare dal vivo, però Diego è perfetto per esserne l'icona.

60 anni di Maradona sono come 1200 per qualsiasi altro essere umano.
 
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#9
Forse l'ultimo mito del calcio
Come trascinatore in campo.. difficile trovarne uno superiore
a me vengono in mente due partite
https://www.youtube.com/watch?v=Ya5UJBJ ... edelCalcio
Fu la prima volta che la Gazzetta diede 10 ad un giocatore

https://www.youtube.com/watch?v=gHSnLbod3gA
Bastardi (riferito alla fifa..ecc) son tornato
Non era piu' fisicamente quello degli anni 80 (visti i suoi eccessi) , in tre mesi era stato rimesso in piedi , L'argentina giocava alla grande.. due giorni dopo verrà trovato positivo all'antidoping.. per efedrina
 
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#10
Qua e la su Diego...

Diego Maradona è stato lo sportivo che ho amato di più, assieme a Marco Pantani e Gilles Villeneuve. Tre che mi hanno fatto piangere, di gioia e di dolore, e che difenderò fino all’ultimo dei miei giorni. Tre, che mi spingono a ringraziare l’infinito decidente, per la fortuna di aver avuto la genesi migliore per vederli, narrarli, ed apprezzare fino in fondo la loro ellisse artistico-sportiva.

La morte di Diego mi ha davvero commosso, ma è andata oltre: m’ha fatto conoscere particolari in ambito familiare che credevo improbabili. Mio figlio, che a febbraio compirà  30 anni, che non ha mai amato lo sport (salvo la caccia alle cinture delle arti marziali praticate) e che ha sempre mostrato disinteresse verso i personaggi gravitanti nella vita del padre, ieri sera ha pianto come un bambino. Ho scoperto che sapeva tanto di Maradona come calciatore, ed ancor più delle sue vicende umane. 

Eraldo Pecci fra i tanti particolari su Maradona che ha raccontato al mio Panathlon Club…..
“Mi infastidisce che si giudichi Diego come uomo, sempre e comunque, perché non si vuole accettare che il più grande ed inimitabile calciatore di tutti i tempi, sia un essere umano come tutti, pieno di pregi e difetti e che a volte possa essere bambino o ignorante, ed altre volte generoso. Infarcendo il tutto, sempre, con la linea di giudicanti snob. Se Diego fosse uomo pari al calciatore, sarebbe Dio. Capirlo, evidentemente, è troppo per costoro”.

Sulla generosità di Maradona (sempre Pecci)…
“Al Napoli, per età, esperienza e loquela, era visto un po’ come il sindacalista, soprattutto dai più giovani e dai primavera che s’allenavano con noi della prima squadra. Un giorno tre di questi ragazzi mi avvicinarono per chiedermi come fare per ricevere uno stipendio che giustificasse un poco la loro vita di figli lontano da casa, ed ancora praticamente a carico dei genitori. Avevano ragione: il loro compenso era davvero misero, inimmaginabile per qualsivoglia osservatore. Dissi ai ragazzi che una chiave per risolvere il problema c’era e si chiamava Diego Maradona. Parlai con lui del caso e subito aggiunse: “Dobbiamo andare da Ferlaino, vengo con te quando vuoi.”. Ci demmo appuntamento per le 14 del lunedì seguente. Sapevo che avrebbe mantenuto la parola, avevo solo timore circa la sua puntualità. Invece fu lui ad anticiparmi e nell’incontro col presidente, fu semplicemente perfetto. Ottenemmo di più delle previsioni più ottimistiche”.

Sul favoloso calcio di punizione di Diego e relativo gol a Tacconi (che non si capacita tutt'oggi di come possa essere avvenuto), Salvatore Bagni, ha più volte sostenuto che negli allenamenti, grandissimi giocatori han più volte cercato di imitare quel gesto, non riuscendoci mai. Un dipinto unico.

segue.....
 
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[+] A 8 utenti piace il post di Morris
#11
Quanto scrissi in occasione dei 50 anni di Maradona.....

Caro Diego, anche tu sei giunto nel club dei cinquantenni. L’altra sera t’ho visto in una partita di calcetto per beneficenza e quella pancia simile alla mia, non è riuscita ad impedire le tue mancine magie. Hai fatto un gol che racchiude in meno in un decimo di secondo le bellezze delle aurore, come a dire: “su un campo sono ancora divino”. 
Niente, di quel calcio che silenzioso seguo sempre con la medesima intensità d’un tempo, ti ha pareggiato. Lo sanno e ne convengono tutti, ma è comodo non dirlo, perciò spesso si da spago addirittura a quell’odio che ogni grande delle azioni umane, si porta siamese. Cambiano i numeri a seconda dei casi, ma non la sua esistenza. 
In tutti questi anni sei stato per me, come per milioni di persone, un grumo di grande gioia che ha poi dato il testimone ad un invaso di preoccupazioni e, come ogni uomo errante ed imperfetto, perciò bellissimo, hai continuato a mantenere vivi coacervi di sentimenti. 

Caro Diego, poco più di un lustro fa, sono stato vicino ad un incontro con te, poi svanito a causa del tuo grave stato di salute, fortunatamente rientrato. T’avrei detto di non fare l’allenatore, perché i grandi calciatori, mai sono grandi allenatori e tu che sei stato nettamente il più grande di tutti sul campo, saresti quasi di certo divenuto il meno produttivo degli uomini di panca. Invece, lo hai fatto e ti dirò, io che sono tifoso dell’Argentina, dell’Inter e del Racing, che hai sbagliato con Cambiasso e Zanetti e a non credere a Milito, ma non dimentico quella perla, che pochi possono capire, su come hai lavorato sull’autostima di Messi. Purtroppo questa è la parte del talento che l’osservatorio non concepisce, per il pragmatismo assurdo di chi oltre l’intelligenza matematica non sa andare, quindi ha un handicap, anche se è blasfemo dirlo. Lionel non è te, e non lo sarà mai, anche se è il più forte dei giocatori del nostro attuale globo. 
T’avrei detto di riparare all’unico errore-orrore che mi sentirò di imputarti sempre, nel non portare fra i tuoi figli, Diego junior: che è un bravo ragazzo e che non ha colpa alcuna nell’esser nato a causa di un crogiolo d’inganni. Lui è parte di te ugualmente, in tutto, ed anche tu lo devi capire. Non basta dire la verità: “un giudice non può imporre i sentimenti”. Non basta ricordare quello che fu un agguato. Dieguito è tuo figlio, punto. E te lo dico perché ti voglio troppo bene per non perdonare e rispettare, anche quando non sono d’accordo, le altre cose che hai fatto extra calcio in questo mezzo secolo. 
Ti perdono la cocaina, perché anch’io mi drogo col tabacco e so cosa significano i dolori, le infelicità, ed il grigio-nero della vita: in fondo siamo uomini e non stupide macchine. 
Ti applaudo nelle tue estemporanee dichiarazioni di cruda verità, su taluni imbecilli-criminali, che miliardi di posizioni erette ma dispregiative dal collo insù, eleggono a luce della loro cecità: in fondo sono italiano e ne so qualcosa. 

Ti applaudo ancora per non aver mai dimenticato le tue origini poverissime, per il tuo modo di rapportarti agli umili; per le stilettate che hai tirato ad un calciatore col nome sovrapponibile ad un bisogno corporale, così ligio nel bestemmiare la realtà: peccato anche più grave dei comuni significati che si danno alle bestemmie. 
Ti applaudo pure per le polemiche ed i fendenti che tiri a chi, dopo quel campo in cui visse illustre nel gioco su un sottile fondo di codardia, è poi divenuto uno specchietto dei tentacoli della Coca Cola. 

Caro Diego, in parecchi han cercato e cercano di fare di te uno stereotipo di stupidità, come se loro fossero giudici oltre i confini della storia, della scienza e della filosofia (in fondo esiste ancora la monarchia che è e rimarrà perennemente in atto di idiozia, quindi…). Tu, che non sei uno di questi a cui han verniciato sul corpo la tinta-tonta dell’ipocrisia, continua a ridere loro in faccia, ed invece di rispondere con starnuti scurrili come spesso meritano, aumenta il tono delle risate. Forse non saprai perché lo fai, ma loro sì. 

In bocca al lupo caro “Pibe de Oro” e Benvenuto nel nostro club. 
Ti voglio bene!
 
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[+] A 4 utenti piace il post di Morris
#12
Da "Segnali di Fumo" libro che pubblicai nel 2004.
Una storia che m'han chiesto in tanti, famosi calciatori in primis.....
E' lunga.....non mi maledite.


 …..Vi racconto una storia. Un racconto che un amico mi fece prima di partire per un lungo viaggio, del quale solo le pietre sanno il motivo, senza per questo scomodare l’umana, quanto piccola, creatura presente in noi stessi: la curiosità. Ve la racconterò d’un fiato, come fosse l’intreccio dell’intera vita del protagonista, quando in realtà, rappresenta solo una lunga puntata, tutta votata sull’azione e l’immanenza immortale, di colui che fu inimitabile. Chi prende in mano questo” libro”, spero possa riconoscerla, affinché abbia la possibilità di non leggerla, perché totalmente vinto dalla melma grigia di chi non sa raccontare, proprio perché ha smarrito il tratto della penna libera, nel grigiore e squallore della sua “carta”. O perché viver da villani, è meglio del rischio di dormire per disinteresse. Che la storia sia reale, o invenzione, è particolare vacuo, perché come tutti i racconti……. l’importante è la morale. 


LA STORIA DI OGEID 

C’era una volta un bambino che viveva nella Pampa, uno dei tanti all’apparenza di quell’orizzonte di povertà, ma a ben guardarlo ti colpivan due cose: i capelli neri come la pece molto riccioluti e la straordinaria capacità di palleggiare la “pelota”. 
Era una sfera di quel cuoio duro come quello delle scarpe, ed aveva una protuberanza fatta di quel grosso spago con cui s’era cucita la valvola, oltre che per dare un’ultima rammendata, alla voglia del rosa della camera d’aria di fuoriuscire. 
Un pallone rudimentale che aldilà dell’oceano, rappresentava il protagonista d’un calcio già antico. Nella Pampa, erano tanti i bimbi che sognavano di diventare giocatori dell’Acob o del Revir. Anche per Ogeid, il nome di quel bambino, diventare calciatore era un sogno ricorrente, ma a differenza di altri e a dispetto del suo essere più piccolo dei più, quella speranza, sembrava poter divenire prima o poi realtà. Tanto più, dopo quel giorno in cui, con una mela, palleggiò dalla strada fino al quarto piano dell’unico condominio della zona, senza far cadere a terra quel fortunato frutto. Era mancino Ogeid, ma aveva la capacità di far diventare il suo sinistro, anche destro. Si sdoppiava con una facilità così disarmante, che i miopi, non vedevano che era lo stesso piede, o l’una e l’altra spalla, o la soffice testa coperta di quei neri capelli. Tutto, al cospetto di quel piccolo “barilotto”, come gli altri lo chiamavano, si lasciava palleggiare e toccare, come se gli arti di Ogeid fossero catalizzatori, piccole idrovore, o, ancor meglio, stanze di felicità. Gli occhi d’un signore, che dal normale si materializzò in scopritore, lo portarono un una squadra da sempre fucina di talenti del calcio della Pampa: il Sonitnegra Juniors. Il ragazzino, al cospetto dei migliori di quella formazione non sfigurava, al punto che, a soli quattordici anni, sembrava già uno di loro. Poco più di un anno dopo, già era in prima squadra, ed a sedici anni nella Nazionale della Pampa. Il suo corpo, nel frattempo, non s’era irrobustito, era rimasto piccolo, ma compatto, quasi come il barilotto tanto caro ai suoi primi compagni di giocate. Ogeid era già pronto per giocare, nel suo paese, quell’edizione dei mondiali di calcio, ma un allenatore fatto a suo modo, ed impaurito circa la possibilità di portare un ragazzino in un consesso così grande, lo scartò. Anche se alla Pampa andò il titolo, Ogeid era l’idolo di quella grande scuola calcistica, il giocatore che rappresentava la speranza di poter vedere, ancora, quello che il calcio già cominciava a dimenticare: il funambolismo, la tecnica, i dribbling e, soprattutto, la fantasia. Insomma anche col titolo mondiale, gli abitanti della Pampa, che di competenza ne han sempre avuta da vendere, tifavano tutti per quel giovincello diciottenne che non era stato protagonista dell’iride giocato in casa. 

Nell’autunno seguente il mondiale, una rappresentativa della Pampa fece una tournèe in Aporue, ed anche gli spesso freddi aporuesi, cominciarono a conoscere Ogeid Anodaram. Qualcuno ne rimase così impressionato che lo definì il nuovo Elep, il più grande giocatore della storia fin lì consumata. Quando il nuovo gioiello, tornò nella Pampa, ben presto coronò il suo sogno di giocare nell’Acob, da sempre la squadra del suo cuore. Qui, e nella Nazionale, si dimostrò divino al punto, che la sua fama raggiunse la mondializzazione. 
Niente lo fermava, i suoi tocchi, i suoi scatti, i suoi funambolismi, i suoi lanci e quel sinistro che sembrava un radar, fecero impazzire i difensori, ed Ogeid, cominciò a sentire sulle gambe e sul corpo, quelle botte partorite dagli umani del pallone. Cominciò, soprattutto, a conoscere come nessun arbitro fosse in grado di difendere il suo divino talento. Ma Ogeid era generoso e paradossalmente mite, nonostante le percosse: mai un fallo di reazione ed un unico filo conduttore, amare i compagni e quel pubblico che meritava di vedere la sua divinità. Per loro faceva di tutto, al punto di giocare anche quando era più logico riposare, per assorbire i segni di quei “tartassamenti”, spesso dettati anche da una imperversante invidia degli umani colleghi. Lui stava divenendo il più grande di tutti i tempi e il suo nome, Ogeid Anodaram, un sibilo da brividi per i fortunati che, assiepati negli stadi, potevano vedere quell’alieno dipingere il campo verde. 

In Aporue, un paese, l’Ailati, fatto di gente spesso pure generosa, ma nel calcio e nello sport, troppo di frequente arrogante o quasi criminale, cominciò a corteggiare quel “barattolo”, di cui si diceva e vedeva, come possessore delle stigmate reali. 
Un signore, che dell’Ailati è sempre stato il sire sotterraneo, segnalò come un fatto determinante l’acquisto di Anodaram, al presidente del club di cui era padrone. Ma quel presidente, che pure aveva un passato da ottimo calciatore, fece capire al suo padrone, che quella specie di “barattolo”, giocava divinamente solo perché si esibiva in un campionato facile come quello della Pampa, ma in un campionato di eletti, come quello dell’Ailati, sarebbe stato un fallimento. Il sire, che nei confronti dei suoi collaboratori calcistici, s’era sempre comportato come persona democratica ed aperta, rimase alquanto scettico di fronte a quel giudizio, ma per coerenza col comportamento che aveva sempre tenuto, si ritirò da ogni altro tentativo di convincimento. Ed Anodaram venne sì in Aporue, ma in Angaps, all’Anollecrab, la squadra di una città bellissima, ma alquanto vissuta nella devianza e facile ai non più idonei incontri. Ogeid, che nella sua Pampa, era un eroe nella positiva povertà del paese stesso, non poteva sapere quali richiami poteva suggestionare quella bellissima città. 

Vennero pure i mondiali, con la Pampa a difender il titolo e lui, nel ruolo di acclamata stella. In squadra però, non era amato da quell’allenatore che lo aveva scartato quattro anni prima e dal capitano, che lo odiava per avergli portato via la leadearship. In più, al centro dell’attacco, ci stava un suo rivale che ambiva al cuore dei tifosi fin dai tempi del mondiale Under 20. Ogeid, fece vedere grandi cose comunque, ma la Pampa era squadra troppo dilaniata da contese interne e di fronte proprio a quell’Ailati, che ha sempre avuto come mira quella di esser la più bella e competitiva senza esserlo quasi mai, Ogeid e la Pampa si sciolsero. Ad aggredire il genio di Anodaram, ci pensò un ailatese dal cognome contrario a quello che trasmetteva sul campo, che lo pestò per tutti i novanta minuti come in pugile imbizzarrito. La tensione accumulata da Ogeid in quell’incontro, la sfogò volgarmente nella partita seguente, contro i rivali storici della Pampa: l’Elisabr. Per la prima volta, Anodaram, si lasciò andare ad un fallaccio contro un giocatore dal nome di predicatore. Un fallo, di cui Ogeid si vergognò sempre e fu l’unico vero fallaccio di tutta la sua carriera. 
 Finito quel triste mondiale, Anodaram, si lanciò nella conquista del cuore dei tifosi dell’Anollecrab. Non gli fu difficile arrivarvi, ma ben presto, uno dei tanti europei che già lo odiavano, trovò la strada della rozza pietra sotto le spoglie di una ruvida gamba, per rompergli la caviglia del suo magico sinistro. Mentre il nostro eroe stava smaltendo, dopo l’operazione e la relativa immobilizzazione dell’arto, il segno del destino avverso, nell’arrogante ed invasato calcio dell’Ailati, sorse il dibattito se Anodaram fosse troppo fragile e, quindi, poco adatto al sontuoso campionato di quel paese. Anche quel presidente, autore del gran rifiuto di fronte alla richiesta del suo gentil padrone, scese in campo, naturalmente per confermare, ancor più impettito, il suo giudizio precedente. Intanto, Ogeid, nel suo letto e nelle sue incertezze circa il pieno recupero fisico, cominciò a conoscere la polvere dei ricchi. Una polvere bianca, così chiamata perché tanti dal portafogli pieno la usano, senza per questo muovere mai l’avversione dei molti ignavi che popolano i lor paesi….. e nemmeno quei politici, che dovrebbero governare quest’evidenza problematica. Anche nel calcio, quella specie di apparente zucchero, ha sempre girato a fiotti, al punto che Ogeid, iniziandone l’uso, lo vide come un fatto normale. 
Ritornato sul campo, Anodaram, dimostrò subito d’esser anche meglio di prima e ravvivò gli appetiti sotterranei degli impettiti del pallone, ovvero quelli del campionato, a lor dire, più bello del mondo: gli ailatesi. Il presidente della squadra di una città, anche più bella e controversa di Anollecrab, Ilopan, che però non aveva mai vinto nulla, andò nel personale portafogli e acquistò, a suon di quattrini, Ogeid. 
Il pubblico caldo e fantasioso della stupenda Ilopan, accolse Anodaram a stadio pieno, come un re. Ben presto Ogeid, sire si dimostrò davvero, portando nel campionato dell’Ailati, quello che da tempo non si vedeva, ed in più, accarezzò i palati fini con quello che solo lui aveva nel repertorio: un summa di virtù, pronte a garantire l’avvio della partita…… con la propria squadra in vantaggio per uno a zero. 

continua....
 
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#13
Vennero i mondiali più temuti, perché si tenevano nell’altura dell’Ocissem. L’Ailati, doveva difendere il titolo conquistato in Angaps e, come sempre in questi casi, sia questa che le altre nazionali, chiesero aiuto ai santoni e alla chimica, per concentrare, su una ventina di giorni, il meglio dei ventidue fisici a disposizione. Ogeid Anodaram era chiamato ad una rivincita, dopo quelli grigi di quattro anni prima. Il suo fisico, minato dalle botte dei colleghi e dalla polvere dei ricchi, poteva fare “crack”, ma la testa di Ogeid era ben lucida. Sfruttò la scuola dello sport dell’Ailati e s’allenò con una violenza, ed una concentrazione, fino a far piangere di stupore il numero uno di quel consesso. 
Per cinquanta giorni, lasciò nel dimenticatoio la polvere bianca dei ricchi e si dedicò solo all’obiettivo di riportare il titolo mondiale nel suo paese. La formazione della Pampa di quel campionato, era la più scarsa di tutta la sua storia, ma aveva nel suo seno quel divino che mai nessuna nazionale aveva potuto schierare. Accanto a lui, fatte tre eccezioni, giocatori che nell’Ailati avrebbero giocato in B o addirittura in C, ma erano più che sufficienti per sostenere il più grande giocatore della storia. 
Ogeid giocò un mondiale sublime e fece vedere a chi appannato mai lo è stato, cosa possono fare la fantasia ed il genio, quando si concentrano su un fisico compatto ed in forma. Nelle fasi preliminari irrise coi suoi tocchi, quell’Ailati che solo fortunosamente riuscì a pareggiare. Poi, per spianare la strada per l’arrivo, la Pampa si trovò di fronte gli uomini della regina, proprio coloro che più di ogni altro paese della Terra, potevano fregiarsi del titolo di “maestri” o fondatori del calcio. Quell’incontro, fece vedere quanto un uomo perlomeno nelle sembianze, ma con le stimmate dei divini, possa risolvere ogni cosa, anche se accanto vi sono sol volonterosi comprimari. Ogeid Anodaram segnò un gol con un pugno tanto lesto quanto invisibile ad occhio normale, solo le moviole con fatica riuscirono a distinguere quella mano dalla sua capigliatura nera. Tanti criticaron postumi la convalida di quella rete, solo perché avevano potuto vedere decine di volte quello strumento che mai è stato possesso di un arbitro. Anodaram, si creò le antipatie degli imbecilli, perché ebbe a dire che nella sua mano c’era stata la spinta del Signore, ed aveva ragione, perché quel giorno, come tante altre volte nella sua vita, lui era stato angelo messaggero col linguaggio dei divini. Una volta tanto, un episodio, aveva aiutato la virtù sotto forma di un pugno, tanto birichino quanto legittimo nel contesto di chi vuole vedere il meglio dell’arte del dio pallone. E lui, Ogeid, quell’arte l’aveva avuta da oltre le stelle. Ma i voleri di chi, da lassù, aveva inviato quel messaggero, si materializzarono dopo il pareggio degli uomini della regina. 
Anodaram, segnò il gol più grande e maestoso della storia, lasciando i giocatori avversari al ruolo più scomodo ed irritante: quello dei birilli. 

La Pampa arrivò alla finalissima contro quella Crucchia che, nel calcio, come nella storia, ha spesso fatto dell’arroganza il suo credo. L’unico paese al mondo, dove per troppi, la razza è anteposta al genio e alla fantasia e dove il calcio, è uno dei tanti strumenti per eleggersi migliori. L’allenatore della Crucchia, ex grande giocatore ma stereotipo di crucco, disse a Suehtam, un “mediano di spinta appiccicoso”, di marcare Ogeid, usando tutto il repertorio di botte e intimidazioni e se poi, questo, non fosse stato sufficiente, spettava al rude Retsrof stenderlo, con le sue odiose e randellanti gambe. Nell’animo di quell’antipatico allenatore, il disegno era tanto chiaro e tatticamente ineccepibile, quanto volgare e abbastanza criminale: impedire al divino di giocare. La partita fu un colossale tonfo per la Crucchia e per l’antipatico. Con Ogeid, a “giochicchiare sornione sul tanto inferiore cervello calcistico dei due eletti boja, i modesti della Pampa non si dimostrarono inferiori ai pomposi della Crucchia e, quei tre giocatori che di Ogeid sapevano interpretare le gesta, si prepararono al colpaccio. Al 32’, Nworb portò la Pampa sull’1 a 0 e Onadlav raddoppiò al 56’, ma il gol del crucco Egginemmur al 73’, riaprì il confronto, ed il fortunoso pareggio di Relleov all’82’, parve girare la partita in direzione della Crucchia. La sete dell’arte mai immortale che anche nello sport si manifesta come fatto inalienabile, aspettava paziente il colpo divino del più grande. Ed il più grande, aspettò quasi la fine della partita (84’), per dire ai due boja che era figlio di Gilgamesh, venuto dal cielo e loro dei poveri Enkidu. Due finte e li fece cadere a terra come poveracci in cerca di nespole e poi, divino tocco verso il bravo Agahcirrub, perché andasse a prendere quello che l’arte voleva: il titolo mondiale. Agahcirrub, rispose bellamente e la Pampa vinse meritatamente l’iride. Ogeid Anodaram aveva mostrato, anche ai più ottusi, che nessuno a lui poteva essere paragonato, perché nessuno era mai riuscito, da solo, a dare luce intensa ad una squadra sì modesta. Era stato davvero il figlio della mano lunga di Gilgamesh! 
Ogeid Anodaram, aprì un ciclo stellare e poco importava della sua particolare amicizia con la polvere dei ricchi. Tutti lo sapevano, a tutti andava bene così e poi, il fatto si confondeva nella vastità del numero di colleghi, dentro e fuori Ilopan, notoriamente altrettanto consumatori, o agli altri che di chimica erano pieni, sotto il consenziente e propugnatore sguardo dei dirigenti. Quando poi si doveva far pipì nelle provette della pseudoverità, Ogeid, ci andava dopo due giorni d’astinenza, ed essersi fatto una sua personale analisi, ma non sapeva che né lui, né gli altri, corrrevan rischi, perché quelle urine finivano nel Tevere, o si usavan per l’analisi della pipì degli dei del calcio, quelle dell’usciere ignaro, o quelle del magazziniere delle società. 
Ilopan vinse di tutto. Ogeid dimostrò d’essere il più grande non solo dell’epoca, ma di ogni tempo. Il marcamento a lui riservato e sempre almeno in una decisiva circostanza della partita evitato, ebbe vari momenti di infausto segno, da parte di chi doveva tutelare la salute di quel divino. Botte, botte e sempre botte, ma lui indistruttibile, ed in campo quasi sempre anche se il dolore e la polvere dei ricchi, non l’avevano fatto allenare. Ma era tale la sua superiorità, risaputa da tutti, che solo un colpo di pistola poteva stenderlo. Con un essere di tali stigmate, il primo titolo d’Ailati, conquistato nella storia d’Ilopan, pareva un semplice preludio a tanti altri. Ma il tempo passava e fra le crepe controverse della città, nonché di quella delinquenza che non solo commerciava polvere dei ricchi, ma che “criminaleggiava” su tutto dietro importanti coperture, cominciò a far capolino l’esigenza di spostare avanti le frange del proprio dominio. Ogeid e l’Ilopan erano monotoni nelle vittorie, quanto conquistati: dalla polvere dei ricchi il primo e dal sistema il secondo. L’arromac, il nome di quella tetra organizzazione sorella di tante altre in Ailati, non poteva spingere altre vittorie per l’Ilopan, troppo capace con Ogeid di conquistarsele da sola. Poteva però, invertire questa tendenza, scommettendo sulla sua sconfitta al termine di un campionato già vinto, al fine di arrivare ad un giro di miliardi da vertigini. Le pressioni esercitate sulla dirigenza e gli altri tentacoli del loro potere, portò l’arromac ad ottenere quel freno che si voleva e l’Ilopan lasciò il campionato al Nalim. Qualcuno lanciò il sospetto, ma ben presto lasciò ogni velleità…… per il bene della sua incolumità. 

Il fatto non lasciò indifferente Ogeid, il quale amava Ilopan e la sua gente, con tutte le sue forze, come amava giocare per il pubblico qualunque fosse l’orientamento del suo tifo: un segno d’onestà sfumato ed impercettibile per l’ignoranza che ha sempre contraddistinto il calcio d’Ailati. Anodaram, pur confuso nella polvere dei ricchi, cominciò a pensare in quale inghippo fosse capitato e nulla poteva rasserenarlo, anche perché, né la dirigenza d’Ilopan, né lo sporco mondo del calcio d’Ailati, potevano in qualche modo aiutarlo o placarlo. Contornato quotidianamente da tristi figuri, di lui più padroni che dipendenti o fattorini, Ogeid, cominciò a lanciar messaggi al suo presidente, nella speranza che lui, volontariamente o involontariamente, potesse far qualcosa. Ma la realtà, nella squadra d’Ilopan, era ben diversa e a quel presidente, che cominciava a sentire l’invidia verso quel giocatore così fortemente voluto, si aggiunse il Faccione dominatore del calcio dell’intera Ailati. Costui, dall’alto del suo sotterraneo dominio e dalla sua voglia, altrettanto sotterranea, di continuare a dominare “costi quel che costi”, capì che l’uso della polvere dei ricchi da parte del povero Ogeid, anziché essere un segno di disgrazia per il divino giocatore, poteva divenire una spinta alla sua fame di sempre maggior dominio. Proprio mentre Anodaram continuava a deliziare le platee e a fare della sua figura una leggenda, ci si accorse che il ragazzo, ormai trentenne, cresciuto nella povertà della Pampa, aveva un cervello particolarmente sensibile verso chi soffre e un amore sconfinato per l’onestà e la giustizia. Sentimenti, questi, pericolosi per un mondo di ipocriti e di devianza come il calcio. 
Anodaram, disponibile a prendersi un aereo ed andare agli antipodi per giocare una partita di beneficenza, altrettanto disponibile ad aiutare i compagni e quella lunga serie di profittatori che si portava presso, il cui unico lavoro era quello di fare i fattorini per portargli polvere bianca, cominciava a stare sullo stomaco a troppa gente. Anche perché, la domenica, nonostante i “ricattucci” sotterranei del Faccione, era sempre il migliore. Il ragazzo aveva la sua mentalità, forse opinabile, ma con un integerrimo senso di giustizia. Lui era l’Ilopan, in tutto e per tutto. Al suo cospetto, allenatore, presidente e Faccione, erano meno che uscieri. 
Ogeid continuava a dominare. Per gli invidiosi personaggi della sua società, non restò che percorrere la strada dello sgretolamento della sua immagine, dato che l’uso della polvere bianca dei ricchi da parte di Ogeid era notoriamente conosciuta, certo al pari di quella degli altri, ma nessuno era famoso come il ragazzo della Pampa. La stampa sportiva, da sempre lacchè dei potenti del calcio, accorse al capezzale d’invidia del Faccione, ed anche di quel presidente, verso il quale, i più lucidi, si son spesso chiesti se “c’era o ci faceva”. Ma anche questo, non serviva troppo a sgretolare Ogeid che, con la sua Ilopan, stava vincendo un secondo campionato. 
Un giorno, il Faccione lo minacciò di parlare ai giornali del suo vizietto con la polvere, ma Anodaram, fu lesto ad annullare quel ricatto ricordandogli che essendo lui uno dei tanti, avrebbe sollevato un altrettanto polverone. Ed effettivamente, anche questa strada non piaceva troppo al Faccione, il quale furbamente parlava ad Ogeid come mandante del presidente con lo scopo, almeno questa la voleva conquistare, di elevare la tensione fra i due. Arrivò il sorteggio dei mondiali che si dovevan tenere nell’Ailati. Anche gli scemi, videro la manina lesta, azionare la pallina per un sorteggio pilotato. Tutti zitti, soprattutto la melma grigia dei media d’Ailati, da sempre concubina col potere di gente riuscita a schizzo, come il Faccione. Solo un’unica voce si levò a derider quel senso di pomposità, sullo scenario d’un sorteggio vergognoso: Ogeid Anodaram, il più grande, l’immenso. 

Tutti sapevano che l’ormai trentenne della Pampa aveva ragione, ma la reazione della melma grigia del calcio, attraverso le penne storte e rattrappite dei media, fu di incentivare ulteriormente il discredito verso il povero Ogeid. Compito facile, perché in un mondo dove l’idiotismo del tifo costruito in anni di lavoro certosino dai burattinai d’Ailati, trovò ulteriore spago nelle vittorie in Coppa Afeu e nel campionato da parte dell’Ilopan. Le vittorie, di solito, in un mondo dal cervello claudicante, creano antipatia e se poi ci si mette quel “di più” che solo i media posseggono, allora il quadro voluto dai burattinai vien perfetto, come la mano del signore.


continua....
 
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#14
Arrivarono i mondiali d’Ailati, con tutta la pomposità cretina che solo questo paese è in grado di dare. Al tifo per la squadra di casa (esclusi i migliori, gli ilopatesi), si aggiunse il tifo contro la Pampa di Ogeid, chiamata al compito di difendere il titolo mondiale conquistato quattro anni prima. Ai tanti rematori contro i campioni in carica, si levò, sotterraneo come sempre, il segno e l’odio di colui che pur non essendo presidente, era il massimo potente del calcio mondiale: Seppia Crucca. Costui, non aveva digerito lo smascheramento del trucchetto del sorteggio da parte di Ogeid, capace, inoltre, di criticare troppo la gestione del “governo mondiale del dio pallone”. Nei pensieri della Seppia, quel “barilotto” doveva sparire, perché troppo intelligente e rivoluzionario per giocare al calcio. L’unico che, con o senza polvere dei ricchi, era capace di incrinare, tramite il suo vellutato sinistro e la sua lingua, l’impero del calcio e della siamese ipocrisia. Ogeid era odioso per la Seppia, come lo era in Ailati per tanta gente dalla mano pesante, fra i quali, subdolo per stile e fossile per positività, il Faccione. A bastonare Ogeid ai mondiali, ci avrebbe pensato la Seppia Crucca, mentre al Faccione e agli intrallazzatori dell’Ailati, spettava il compito di dargli il colpo di grazia dopo la rassegna iridata. 
S’iniziò il mondiale, con la Pampa che, accanto ad Ogeid, poteva schierare pochi talenti, fra questi, uno, Aigginac, si faceva preferire perché veloce e sgusciante, ma nel complesso una formazione molto povera. Con un pizzico di fortuna e con un colpo di genio di Ogeid, concretizzato da Aigginac contro l’Elisabr, Anodaram e compagni, arrivarono alla semifinale, dove erano attesi dai superfavoriti dell’Ailati. La partita mise in evidenza una tutt’altro che granitica Pampa, ed una Ailati più in palla, ma spesso evanescente. Ciononostante, i padroni di casa si portarono in vantaggio, ma la Pampa riuscì a pervenire al pareggio, grazie ad una papera del suo portiere, beffato con il capo, dal piccolo e gracile Aigginac. Nemmeno i supplementari, furono capaci di dividere le due squadre. Arrivarono i rigori e la Pampa, grazie pure ad un portiere scarso per il resto, ma agghiacciante per gli avversari dal dischetto, conquistò il passaggio alla finalissima. Nel frattempo, la Seppia Crucca, aveva tentato, attraverso le urine, di escludere Ogeid e compagni, ma si fermò al pensiero che poi, troppi, anche dell’Ailati, sarebbero caduti. Non poteva, ma avrebbe voluto. L’eliminazione dell’Ailati, portò verso Ogeid Anodaram un’ondata di odio, che avrebbe annichilito qualsiasi paese civile, ma nel calcio, si sa, agli ailatesi è sempre stato concesso di tutto. La finalissima mise di nuovo di fronte la Pampa contro la Crucchia e al suono dell’inno della Pampa, gli ailatesi, presi dallo sconforto della scemenza, fischiarono per tutta la lunghezza delle note. Ogeid Anodaram, che tanto aveva comunque dato al calcio d’Ailati, non s’aspettava un simile atto d’inciviltà e, preso da strozzato pianto, mormorò più volte un immanente “Figli di Puttana!”. Fu un gesto tra i più cupi e vergognosi dell’intera storia d’Ailati, aggravato ulteriormente dal fatto che nessun politico s’inginocchiò a chieder perdono per l’ignoranza del proprio popolo, verso le autorità della Pampa. E venne la partita che per i voleri del potere dello “sgonfio pallone”, doveva regolare i conti con Anodaram. Ad una Pampa forse più povera di quella di quattro anni prima, si oppose una Crucchia come sempre densa di cupidigia, ma scarsissima di cervello. Una partita da zero a zero, anche perché il dominio territoriale della Crucchia si scioglieva, più che per la forza della difesa della Pampa, per l’assoluta mancanza di sangue blu dei crucchi. La Seppia però, aveva predicato con forza nelle orecchie di chi, sempre, volendo, può cambiare le conclusioni di una partita di calcio: il fischietto. Costui, sapeva da prima, cosa avrebbe dovuto fare se la partita si fosse incamminata verso i supplementari e i rigori. 

....continua
 
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#15
Alla lunga la Pampa avrebbe avuto più cartucce di una Crucchia così modesta. Ma i crucchi, in tutto il lor grigiore, tardavano troppo a dare a quel fischietto quell’appiglio tanto cercato. Finalmente, a poco dalla fine, quei robotici e vuoti biondi, riuscirono a dare al “triste figuro” l’appiglio per una tanto bugiarda, quanto decisiva fischiata, e fu rigore. Le proteste della Pampa non potevano certo muovere i voleri di quel Rodrigo esecutore, tra l’altro salutato come un eroe dagli applausi degli 80.000 imbecilli che assiepavano lo stadio. Un rigore inventato e rigorosamente politico, che solo per un pelo la mano del portiere della Pampa non rese vano. Ma era scritto, e se anche l’uomo con gli occhi di ghiaccio l’avesse parato, sarebbe stato ripetuto. Questo era il volere, viscido e cinico, della Seppia. Ma la partita non era finita, ed in quei pochissimi istanti che ancor rimanevano, la Pampa si procurò più di un motivo, per far vedere quanto quella marionetta col fischietto, fosse un esecutore di voleri. I meritevoli del genere umano, avevano ben capito che su quanto era stata scritta, in precedenza, una frase che valeva più di un gol: “Deve vincere la Crucchia!”. 
Il pianto di Ogeid Anodaram, ed il resto di quei folli momenti, non meritano il racconto, perché ricordano le esecuzioni più che un fatto sportivo. 

La vita ailatese di Ogeid, ritornato nella sua Pampa, ripassò per giorni davanti ai suoi umidi occhi. Non voleva ritornare per quelle facce, per i fattorini, per la triste storia d’uno sport divenuto affare, per quel presidente che non solo non l’aveva difeso, ma che ormai lo odiava. Per quelle orge di polvere mista a sesso, in cui il suo stato confusionale, poteva pure rendergli figli non voluti. E poi, dietro l’angolo, c’era il Faccione, verso il quale nutriva disagio, ed uno strano senso d’impotenza. Si chiese, pur da assuefatto, se la polvere dei ricchi fosse la causa di tutto quello che gli stava succedendo, ma poi capì che da sola non poteva essere , perché tanti altri se la facevano e tanti altri ancora flirteggiavano ed erano costretti a farsi anfetamine, corticoidi, testosterone, anabolizzanti vari fino a chili di cortisone. No, non era la sua polvere, la causa del tutto e con questa convinzione e per il grande amore che lo legava alla gente d’Ilopan, ritornò. 
L’Ailati, nel frattempo, continuava imperterrita ad odiare Ogeid e tutto ciò che egli toccava. Anche la melma grigia dei media, che ad Anodaram dovevano tanto degli stipendi dei suoi singoli, perché grazie a lui potevano scrivere, senza cercare di arguire la loro scomparsa intelligenza e la loro infinitesimale cultura, continuava a spingere l’imbecille tifo del calcio d’Ailati contro Ogeid. Per lui, ormai, l’amore c’era solo ad Ilopan, tanto tremenda città per gli strumenti della devianza, quanto stupenda per bellezze e per il calore positivo della sua gente. 

E venne, a settembre, la finale di Supercoppa d’Ailati. Di fronte l’Ilopan, vincitrice del campionato, e la Sutnevuj, la squadra più decorata del paese, prima nella Coppa d’Ailati. Una sfida dove la Sutnevuj, tanto odiata da chi suo tifoso non è mai stato, si trovò per la prima volta ad avere tutti per lei, esclusi, ovviamente, gli ilopatesi. Fu una partita senza storia, una specie di lotta fra il gatto e il topo. Ogeid Anodaram, ignaro di interpretare il suo canto del cigno nel calcio d’Ailati, giocò a livelli sublimi, irridendo in tutti i sensi i giocatori della Sutnevuj, da lui visti, non con le loro maglie bianconere, ma col tricolore di quel paese che aveva offeso la sua Pampa. Era dunque una lotta fra lui e quei vergognosi ailatesi che, dietro lo schermo della Tv, lo stavano odiando e fischiando. La sua vendetta, diede al calcio un’altra opera d’arte, un acuto pronto a far luccicare gli occhi a quegli ailatesi, non di Ilopan, capaci di rendere più idioti, gli idioti scritti della melma grigia dei media. Fu una vendetta di civiltà, concretizzata sui poveri giocatori della Sutnevuj, usciti sconfitti ben aldilà del 5 a 1 finale. Ogeid Anodaram, esultò e festeggiò davanti alla sua Ilopan, ma nel suo cuore c’era già la tristezza proveniente dalla sensazione di aver ormai raggiunto l’apice della sopportazione per un paese così tetro, cui nemmeno la bella gente della città della sua squadra, poteva render meno amaro e vivibile. Mentre s’avviava l’ennesimo campionato, Ogeid pensò che era inutile restare, voleva lasciare il calcio, o, al limite, giocare nel torneo della sua Pampa, lontano dalle sirene e dallo stress di quella terribile Ailati e dagli strali delle  organizzazioni criminali che dentro e fuori il pallone di quel paese, dominavano e soggiogavano. Il suo pubblico lamento, i suoi tentativi descritti con scerno dalla “melma grigia dei media”, non trovarono nessuna fessura d’aria pulita, ormai non restava che aspettare l’ora del patibolo. 

Finalmente, come da promessa fatta alla Seppia Crucca, quelle urine da sempre dribblate come fossero giocatori dall’intero calcio d’Ailati, diedero il risultato tante altre volte cercato relativamente all’eletto condannato: nella pipì di Ogeid furono trovate tracce di polvere dei ricchi. La melma grigia, sollevò l’intero campionario di orrida ipocrisia, ed altri, che pure erano stati protagonisti del complotto, uscirono con altrettante frasi di circostanza, tinte di eguale ipocrisia. Involontariamente, il “dio Pallone d’Ailati”, aveva creato le basi per far ragionare i pochi cervelli ancora autonomi o equidistanti. E quei pochi che effettivamente capirono l’imbroglio e le tante ipocrisie, furono azzittiti dietro minacce, sfortunatamente per loro riuscite invisibili. I burattinai, erano salvi, ancora una volta il “dio Pallone” poteva continuare a seminare la sua delinquenza, dietro le spoglie di un magnifico sport. Un pericolo ci stava ancora però, ma fu lo stesso Ogeid Anodaram a disinnescarlo. La sua voglia di andarsene e di ritornare nella Pampa, lo spinse infatti a non commentare come avrebbe potuto, ed ai limiti voluto, quanto gli era successo. Avrebbe potuto dire che non era l’unico a consumare la polvere dei ricchi e che tanti altri colleghi di quel mondo, consumavano altre cose: dai risaputi steroidi anabolizzanti, al testosterone, dall’ACTH, all’efedrina, dalla gonadotropina e all’ormai arrivata e già diffusa eritropietina. Non lo fece, per rispetto per i propri compagni e per tutti gli altri. Non lo fece perché, pur appannato dalla polvere dei ricchi, sapeva che ci poteva essere pure una reazione ben più cattiva di una lunga squalifica. 
 Sapeva, inoltre, che la sua polvere non aveva e non avrebbe mai potuto migliorare le sue prestazioni sportive. Nella partita incriminata, toccò un solo pallone degno della sua fama, un tocco che smarcò a porta vuota un compagno Ed Ilopan, ma questi, non aveva il suo piede e sparacchiò alle stelle il più che possibile gol. Poteva benissimo dire che il suo era un grave problema personale, non un tentativo di barare nell’arte del calcio. Questa la sapeva interpretare solo lui in modo sì divino. 
Se ne andò, Ogeid, nel silenzio personale o poco commentato della sua tristezza interiore e con la consapevolezza, seppur impotente, di vivere un grosso calvario nel corpo e, spesso, nella mente. 
“Questa storia ha morale sufficiente - mi disse l’amico prima di partire per quel suo lungo viaggio fra le pietre – ma a te devo depositare l’ulteriore, perché tu possa un domani aiutare altre menti a non essere ignave e balbettanti. Vedi, caro Morris, nel prosieguo, ci sta tutto quel condimento finale che renderebbe questo piatto prelibato. Il guaio è che tutto va letto alla rovescia, non ultimo il rischio che il sol parlare di quel condimento, sia sufficiente per subire una specie d’avvelenamento. A te, il compito di riuscire in quello che io non potrò mai!” 
E l’amico ricominciò a raccontare lasciandomi il peso di tradurre ignaro……… un senso d’impotenza, via via, più evidente. 
Ogeid Anodaram, nella sua bella casa della Pampa, ripassò ancora una volta le sfortune ed i brutti ceffi che avevano occluso, per umano desiderio o per spinta d’irreparabile, il suo pieno rapporto con le divine stigmate d’artista ineguagliabile. Ed anche lo sport è arte, quand’è interpretato oltre i limiti di quell’istmo che divide la mediocrità dall’eccellenza. Lui sapeva d’essere grande, anzi il più grande, ma non aveva le parole e la cultura per farlo capire in maniera sufficientemente intellettuale. Nella sua onestà ed in quella generosità, nate in lui contemporaneamente alla sublime capacità di giocare la pelota, sorgevano altri dubbi su come ritornare e dove andare a dimostrare. Intanto, dall’Ailati, solo gli amici, quasi tutti colleghi che sapevano quanto grande e diverso fosse, dal personaggio schizzato e mal-scritto dalla melma grigia dei media, continuavano a parlargli e a telefonargli. Per il generoso Ogeid, era più che sufficiente, anche perché esclusa la gente d’Ilopan, sapeva benissimo che pochi ailatesi erano disponibili a vederlo per quello che umanamente era e sarebbe sempre rimasto, con o senza polvere dei ricchi. Capì ben presto che nell’amata Ilopan, non sarebbe più tornato a giocare: i motivi erano tanti e capibili ai più dotati di materia. Capì pure che un’altra destinazione nel calcio d’Ailati non sarebbe stata possibile, anche perché non avrebbe mai fatto uno “sgarro” a quegli ilopatesi che tanto lo amavano. Nel frattempo, nella contorta mente della Seppia Crucca, girava un formidabile ulteriore disegno: dare ai mondiali che si svolgevano in ASU, il meglio che si poteva per conquistare quel facoltoso mondo al “dio Pallone”. Ogeid Anodaram, pur odiato fino alle viscere, serviva come il pane nei giochetti della Seppia. Per aggraziarsi le attenzioni di quel ribelle, che mai aveva allentato le critiche alla sua gestione del mondo del pallone, si prodigò affinché la sua volontà di lasciare l’Ailati, si potesse concretare. 
Ogeid Anodaram. tornò così a giocare in quell’Angaps che fu la prima terra d’Aporue a chiamarlo. La sua nuova squadra, caliente per storia e per pubblico, fu l’Ailgivis. 
I segni della lontananza dal campo, ed il continuo uso della polvere dei ricchi, avevano appannato il talento di Anodaram, ma la sua superiorità era ancora evidente. Giocò un’intera stagione segnando quattro gol, ma, soprattutto, diede luce al talento dei compagni. Anche per loro, Ogeid, oltre che un faro per la loro carriera, si dimostrò una buonissima e gradevole persona.

.....continua
 
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#16
Intanto i famosi mondiali di ASU si avvicinavano, ed i piani della Seppia stavano traballando più che mai. Alle incertezze sul futuro di Ogeid, nel frattempo caduto nella fase acuta della dipendenza dalla polvere dei ricchi e nelle difficoltà dell’Ailgivis, di pagare un anno ancora di lussuoso prestito all’Ilopan, si aggiunse l’infortunio di Nav Netsab, l’unico giocatore dell’epopea d’Ogeid, ad avvicinarsi alla grandezza di Anodaram. La certezza di non avere in ASU quel grandissimo talento, spinse sempre più la Seppia Crucca verso un recupero di Ogeid, divenuto nel frattempo inattivo. C’era inoltre un altro problema: la Pampa stava remando nelle qualificazioni, ed il rischio spareggio con gli Antipodi e l’aleatorietà di una simile gara, diveniva ogni giorno più evidente. 
Bisognava risolvere il problema Anodaram! 
Seppia, trovò il modo di pagare tutte le pendenze con l’Ilopan e cercò, sostenendola di sottobanco, una squadra della Pampa che potesse inserirlo nei ranghi. Con sotterfugi da mente disposta a tutto la trovò, ma non fu facile: il S’llewen Dlo Syob. Ora tutto era pronto, Ogeid poteva rispondere alla eventuale chiamata della Pampa, ma se avesse declinato l’invito? Era un rischio che la Seppia non poteva correre! Così, in un battibaleno, il Crucco, assieme a due “bravi”, molto famosi, ma ugualmente “bravi”, di cui uno portava l’arroganza d’Ailati e gli occhiali per veder meglio la punta del proprio naso sullo sfondo di poche virtù, partirono dall’Aporue per raggiungere la villa di Ogeid, nella Pampa. Di fronte ad Anodaram, gonfio in volto per l’azione della polvere, ed ingrassato per l’inattività quasi totale, diventarono agnellini in cerca di un po’ di latte. Seppia Crucca, umilmente, cercò di far capire quanto fosse importante per Ogeid un grande mondiale, per la sua carriera e per quella sua immagine offuscata dal fattaccio della polvere. E cercò pure di fargli capire che, per la Pampa, era indispensabile un suo assenso, in quanto la sua Nazionale, senza la sua arte, non sarebbe mai arrivata in ASU. Gli rammentò, quanto s’era prodigato per farlo ritornare al calcio e quanto volesse farsi perdonare le “pastette” fatte qualche anno prima ai suoi danni, ed a quelli della Pampa. Ogeid però, non ne voleva sapere di assecondare quella persona che sapeva al pari delle altre due, più falsa dell’ottone. Scaricò su quei tre, raccogliendo tutte le forze lasciate libere dalla polvere dei ricchi, tutto il livore verso le loro brutture e le loro malefatte; mise in evidenza i mali del “dio Pallone” e quelle farmacie tanto frequentate dai colleghi, che mai avevano subito l’affronto di una squalifica. Fu a quel punto che la Seppia l’interruppe, promettendo a lui l’immunità, in caso di sua partecipazione al mondiale: avrebbe dunque potuto giocare con la polvere dei ricchi che voleva e tutte le altre porcherie. Ogeid, gli disse che era un verme e che gli faceva pena, ma gli disse anche che gli stavano troppo a cuore le sorti della Pampa e che non poteva decidere, guardando solo a se stesso. Ed infatti, nel suo Paese, erano già praticamente tutti, quelli che gli gridavano di tornare ad indossare la maglia della nazionale. Sulla Seppia Crucca e sui suoi “scagnozzi”, scaricò poi tutto il disprezzo che provava verso l’ASU, un paese per lui pieno di ingiustizia, di falsa democrazia e troppo soffocante sull’intero mondo. Li lasciò, non promettendo nulla. Doveva pensarci, erano troppe le spinte contrarie, al grande amore che provava verso un mondiale, giocato per la sua terra. 
Seppia Crucca, uscito dalla villa, si rivolse ai suoi fanti e rivolto all’occhialuto gli disse che in Ailati avevano esasperato troppo il ragazzo. Al sentir quelle parole, l’ailatese, si guadagnò il primo passo verso la decadenza, contrastando la “seppica” affermazione, con una rotonda quanto significativa frase: “Per quanto abbiamo fatto, siamo solo dei pigmei in confronto a lei!”. 

Passarono venti giorni e Seppia Crucca non potendone più di aspettare la risposta, chiamò il presidente della federazione della Pampa e gli disse che un suo intervento su Ogeid si rendeva indispensabile, perché il ragazzo stava ovviamente declinando l’invito. Gli disse anche di ricordargli che l’immunità era più valida che mai e che già aveva mosso le sue pedine, affinché tutto andasse nella giusta direzione. Il presidente obbedì con ovvio entusiasmo, ma Ogeid gli rispose che non avrebbe deciso nulla se non con la Seppia di fronte. E fu così che il Crucco, stavolta accompagnato da un signor di poco conto, ritornò sul cancello della villa di Anodaram. Ogeid lo accolse con freddezza, ma lo fece sprizzare di vile gioia quando gli disse che sarebbe ritornato in nazionale e poi, se la Pampa si fosse qualificata, avrebbe giocato il mondiale nell’odiata ASU. Gli disse anche che lui non si sarebbe fatto polvere dei ricchi durante le manifestazioni, ma si sarebbe aiutato a disintossicarsi, perché ci teneva a ritornare il più forte del mondo. Le cose velocemente andarono come nelle previsioni della Seppia, prima e negli auspici di Ogeid, poi. La Pampa vinse lo spareggio con gli Antipodi, grazie ad una dimostrazione di classe eccelsa di Anodaram e si qualificò per i mondiali in ASU. Una volta giunti alla rassegna iridata, e mentre Seppia Crucca si godeva il suo successo, capitò quello che il vile stratega non avrebbe mai immaginato: Ogeid e la Pampa erano troppo superiori a tutti gli altri, per non vincere quel mondiale! Anodaram giocava come in quello vinto otto anni prima, ed accanto stavolta aveva compagni di levatura decisamente superiore. La loro superiorità era evidente a tutti. 
La Seppia non poteva perdere. Assolutamente non poteva farsi deridere, internamente, dal suo incomparabile spunto criminale. Bisognava fermare quel vero dio del pallone, con ogni mezzo! Se la Pampa vinceva il mondiale in ASU, con Ogeid che odiava follemente quel paese, tanto più con quella irrisoria superiorità che anche i più ciechi stavano vedendo, sarebbe stato un flagello per il progetto di incorporazione di quella terra, a feudo del “dio Pallone”. 
Telefonò ad un signore che i più arguti posson immaginare, per sollevare la copertura alle urine d’Ogeid, e richiamò quell’esecutore a garantire che Anodaram fosse sorteggiato alla fine della partita con l’Airegin. Un sorteggio pilotato, come sempre nel mondo pallonaro, molto più facile di quello dei mondiali d’Ailati. Tutto andò nella direzione voluta dalla Seppia, ma a partita finita, dopo un’altra sublime prestazione del divino Ogeid, nella mente contorta del vile burattinaio che ben conosceva i trucchi delle urine e ben ricordava le parole d’Anodaram nel giorno della decisione, sorse una paura: bisognava impedire che il divino facesse pipì prima del controllo! Il Crucco s’impossessò del cellulare e telefonò a quel signore, perché desse disposizioni immediate alle operatrici del controllo. Di lì a due minuti, mentre Ogeid esultava e salutava sul campo gli ammirati per la sua prestazione e quella della Pampa, una signorina rotondetta, con la croce rossa per chiaro distinguo, s’avventò sul campo a raggiungere Anodaram. Costui, informato del controllo, ed ignaro del perfido attentato, uscì dal terreno di gioco con lei per mano, come due innamorati a passeggio sul viale. Tutto il mondo vide. Il più grande giocatore della storia, andava per l’ennesima volta al plotone d’esecuzione. Due giorni dopo, il responso parlò di cocktail di anfetamine. In realtà, era poco più che semplice efedrina usata per tranquillizzare un corpo minato dalla polvere dei ricchi, di cui sempre sentiva la necessità. Se Ogeid avesse fatto la pipì prima di quella della provetta non si sarebbe riscontrato nulla! Ancora una volta, la melma grigia dei media, infangò il divino, richiamando l’ipocrisia e la scemenza del campione che deve dare l’esempio ai giovani e ai bambini. E mai, la rozzezza intellettuale di quella melma, si pose il dubbio su quanti fossero nelle medesime condizioni di Ogeid. Il divino ritornò mesto nella Pampa, a riprendere l’uso della polvere. Poteva raccontare al mondo quell’imbroglio e lo accennò appena, ma la melma non raccolse quel messaggio, per paura di rompere il giocattolo del “dio Pallone”.

.....continua


Ancora mesi di torture ed un ritorno al calcio nell’amata Acob. Il tempo per deliziare ancora e per subire l’ennesimo complotto, stavolta però scoperto perché fatto da dilettanti e fuori dai perfidi giochi della Seppia. Poi, ancora affronti, sotto la spinta dei burattinai, sui burattini perennemente imbecilli della solita melma grigia dei media. L’obiettivo: far passare Ogeid non solo per un tossico, ma anche per cretino. La storia si dipanò ancora sui medesimi viali, fino ad arrivare ai recenti giorni d’esistenza.
Un ultimo acuto di vile tortura stava ancora dietro l’angolo. 
Si doveva eleggere il più grande giocatore del secolo. L’esteso e completo sondaggio, nonostante il martellante uso della melma, diede un esito impensato per i burattinai: il più grande per la gente era Ogeid Anodaram e non lo sponsorizzato Elep. Ma non si poteva dare questa soddisfazione a quel moccioso irriverente ai voleri dell’immenso teatro dei Mefisti del “dio Pallone”. Si trovò un escamotage , per premiare entrambi in un ideale “a pari merito”! Un’altra pietra sul muro dell’indecenza era stata messa. 
Davanti ad una grigia pietra levigata, mi vennero in mente le ultime parole dell’amico prima di partire per quel viaggio d’incomprensibile. 
“Caro Morris, non dimenticare, quel ragazzo della Pampa se fosse nato a Bologna avrebbe potuto difendersi intellettualmente, ma è tutto fuorché un cretino. E’ solo un piccolo rivoluzionario armato di bastone, contro una tribù di carri armati. Potrà solo morire, ma che almeno lo possa fare con la dignità che compete a chi è nato con le stigmate dei divini. Che trovi pace perché se lo merita”. 
Volsi lo sguardo al cielo, c’era una nuvola che incrociava il Sole e lo spegneva senza disperderne la luce. I miei occhi si riempirono di lacrime. Addio caro ed indimenticabile amico. 

“……La foglia si posò marrognola sul suolo 
leggera ed educata nella sua tristezza. 
Aveva passato una vita 
fatta di pochi intensi giorni 
che le aveva raccontato 
quanto la corteccia nascondesse, 
alleata con le spinte dei rami, 
quella madre linfa sempre cercata. 
Il suo percorso era finito 
su quel nero e puzzolente selciato, 
lasciando uno spicchio di tempo 
al pensiero d’irreparabile. 
Passò un’auto sfrecciante 
che sciolse anche quell’ultimo attimo. 


Morris (03-01-2001)
 
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