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Janis Lusis, il mitico sussurro di Latvia.
#1
Brutto invecchiare. Soprattutto oggi, con quel che si vive e con le voragini che si aprono quando il sole, che era, è, e rimarrà la nostra vita, s’appanna…..o lo fanno appannare. 
Da mesi ormai, scrivendo con fatica quel che un tempo era facile, mi capita di combattere coi vuoti di memoria e con gli acciacchi crescenti; con la vergogna dell’intorno che la frattaglia politica ha seminato, o con le vendette che qualcuno ti vuol portare perché eri arrivato troppo in là, o gli stai profondamente antipatico. Non ti sollevano più di tanto autentici capolavori d’ascolto come gli acuti del canto inimitabile di Antonella Ruggiero o l’assolo chitarristico di Time di David Gilmour. E così, in questo ring dove cerchi di schivare diretti e ganci, ti può capitare di scordare l’ovvio, o non sapere che un tuo idolo o preciso riferimento del tuo passato, s’è smaterializzato per restare anima qua, ed incomprensibile là. 
A fine aprile scorso è morto Janis Lusis, ma io l’ho letto solo stamattina e me ne vergogno.  
Devo ricordarlo.   

Il lancio del giavellotto non è solo una specialità dell’atletica leggera, ma il suo gesto rappresenta l’ellisse della nostra vita. Janis Lusis, lettone, costretto, giocoforza, a consumare tutta la sua carriera con la maglia dell’URSS, di questo quadro rappresentativo, è stato il più grande interprete assieme al ceko Jan Zelezny. Nella sua storia c’è uno spaccato del tormentato corso del secolo scorso...... 

Questo ritratto, volle essere un omaggio ad un amico insegnante che vive in Lettonia. Un giovane napoletano che si faceva passare la mozzarella di bufala da Maradona e giocava a biliardo con lui. Vivere lontano dal proprio paese, crea sempre una forte sensazione di malinconia, anche se la terra di nuova residenza, è degna di simpatia, ammirazione e trova compagna nella gradevolezza. 

Dietro le spalle di chi si incontra, le strade che si attraversano, le case che scorrono davanti agli occhi, la televisione che si vede meno comunicativa per ovvi problemi di lingua, c’è però una storia, una cultura. Spesso, come in questo caso, un orgoglio ed una fierezza antropologica che hanno saputo superare la crudeltà del dominio, dell’occupazione, anche senza i carri armati posti negli angoli delle vie. I tratti della Lettonia (Latvia, nella lingua originale), si vedono anche nello sport e sono nobili, tanto nobili. Non è certo il calcio (tra l’altro in crescita su quei luoghi), a determinare la consistenza della sportività e della diffusione di questa particolare forma d’arte in una terra.

Ho ripreso questo mio vecchio racconto su un grandissimo del territorio sua nuova dimora, come il mio percorso inverso per stringergli la mano e fargli sentire quanto, anche in Italia, ci sia un pazzo che non s’è dimenticato delle grandi figure di Lettonia..... Perché l’arte sportiva non possiede i confini beceri tanto cari all’egoismo di tanti, troppi politici, ed il marcato nazionalismo, è sempre idiota quando si proietta sul mondo artistico. 
Un giorno, l’amico mi chiese di Romans Vansteins, bèh....gli risposi…. che nemmeno cinquanta Vansteins, valgono uno come Janis Lusis: un uomo che ha scolpito un gesto, il cui sunto, spero di averlo chiarito un poco col ritratto che segue.....

[Immagine: janis-lusis-100_768x432.jpg]

JANIS LUSIS, IL MITICO SUSSURRO DI LATVIA.

Il lancio del giavellotto rappresenta, per chi scrive, il massimo della bellezza e del profondo richiamo dell’intera atletica leggera. Su un libro che scrissi nel 2000, mi lasciai andare all’emotività che, da sempre, quel gesto mi produce, anche quando le risultanze metriche, non giungono ad avvolgere le note delle penne matematiche. Quel lancio, è la rappresentazione figurata del nostro segmento di vita: dalle speranze iniziali ed innocenti d’un bambino, che cresce nella purezza della ricerca con spirito e volontà, all’adulto, che trova lungo le altezze della conoscenza, della scaltrezza e della furbizia, il vento migliore dei compagni di viaggio, la tranquillità del proprio potenziale e la forza per ergersi a continuo. Infine all’anziano, il cui scopo più palpabile è quello di dimenticare gli anni, le forze che calano e il bisogno di tradursi nella saggezza, per essere il meno ricurvo possibile. 
Raramente, incontriamo in natura delle raffigurazioni cosi fedeli alla nostra proiezione come il gesto ellittico del giavellotto, scagliato dal protagonista atleta, un essere umano proprio come noi. Ne esce una pittura naif, la cui cornice sta nell’orizzonte, il parametro immaginario che ci accompagna da sempre. E’ perfezione. 

Qualcuno potrà dire che il lancio del giavellotto non è il solo gesto ellittico naturale, perché tutti i lanci lo sono, ma una piccola riflessione ci dimostra che non è così. 
Nel martello, c’è la cinghia che tiene lontano da noi il peso da lanciare, c’è un’azione rotatoria su una pedana circolare che simboleggia chiasma. Lì, si costruisce il gesto ellittico, ma la vita non è uno stallo che si scioglie all’improvviso: l’esistenza è una ricerca continua che nasce da subito e si invola su un percorso che muove verso un punto lontano, disegnando, appunto, un segmento. In questo tragitto s’incontrano, con bisogno di lettura per un’efficace reazione, i fatti, le circostanze, gli imprevisti, l’esigenza di rapportarsi con l’ambiente. 
Anche per il lancio del disco, potremmo dire la stessa cosa: medesima circolazione iniziale e, per la tipologia d’attrezzo da scagliare, minor impatto con gli urti dell’ambiente che si va ad incontrare. 
Idem ancora, il lancio del peso nella versione più moderna del carico rotatorio. Di meno quello tradizionale (che ebbe nell’americano Randy Matson, per chi scrive, il più grande alfiere), con la svolta ad “U” in fase di frustata. Ambedue le tipologie però, non trovano sul terreno l’insieme di imprevisti e di letture, nella fattispecie il vento, che può frenare lo slancio verso la meta più lontana, esattamente come la vita. Nel lancio del giavellotto, se non leggi il vento o se fai un errore macroscopico nel gesto, l’attrezzo potrebbe impennarsi e cadere d’improvviso dopo 50 o 60 metri, pur avendo a monte una spallata con forza sufficiente per farne 80. Oppure potrebbe volare troppo basso in una giornata con vento a favore e, di conseguenza, cadere prima di quello che avresti voluto o potuto. In sostanza, per costruire un’ellisse perfetta, serve un insieme di letture che potremmo definirle tattiche, esattamente come nel nostro cammin d’esistenza. Non a caso, le giornate migliori sono quelle di vento contrario, ed anche qui sta l’abilità del lanciatore: incuneare l’attrezzo nel foro ideale, affinché l’aria contraria possa farlo permanere il più possibile in volo. La pressione del vento sulla punta del giavellotto, infatti, è poca cosa, mentre il flusso ventoso, scorrendo sotto la pancia dell’attrezzo, gli offre un involontario sostegno, come fosse un’ideale mano che lo sorregge. 
La vita non è questo? 
E poi la caduta, che potrebbe non lasciare la traccia, quindi il segno di ciò che si è fatto. 
Non è forse così, anche la morte? 
A volte non basta la volontà e l’ottima interpretazione del lancio per lasciare il segno sul terreno, sovente è questione di pura fortuna; in altre ancora, si traduce completamente un volere vissuto nel miglior modo, quando l’attrezzo era in volo, alto e ridente sui nostri sguardi. Ma quanti sono coloro che, tanto in vita quanto in morte, non ricevono il voluto e meritato, o sui cui gioca oltremisura un fattore odioso come la fortuna? 
No, niente, nella divina atletica, che tanta parte ricopre in chi ama lo sport, la cultura e l’arte che ne sono alla base, riesce ad essere più fulgida trasposizione dell’ideale quadro della nostra vita. 
Onore dunque ai dimenticati giavellottisti, da sempre bistrattati dalle telecamere degli artisti di servizio del dio danaro degli sponsor, che sono i registi TV. Una lacrima per loro e per tutti i lanciatori, sacrificati alle corse per il sapore velenoso del business e di quell’auditel, fatto e costruito dai drogati d’ignavia che non sanno di esserlo. 
Ecco perché una manifestazione d’atletica, senza il nostro quadro tradotto nel gesto ellittico del lancio del giavellotto, è come il Louvre senza la Gioconda.
La Finlandia, una terra fredda e densa di laghi, ricordata da noi italiani nella pochezza della nostra cultura sportiva, per i piloti ed i conseguenti motori su due e quattro ruote, è il museo naturale di quel lancio. 
E’ il luogo del pianeta su cui, visitandolo, ci si imbatte su dei bimbi che lanciano, ai margini delle strade e sui campi, dei giavellottini di plastica, sognando di diventare degli Jarvinen, dei Nevala, dei Kinnunen, dei Siitonen. Poi, questi piccini, con l’arrivo dell’età che si incrocia con la memoria delle letture, incontrano i fruscii del mito Janis Lusis, l’uomo che più di ogni altro ha simboleggiato, come un Leonardo o un Raffaello, il quadro sidereo piovuto su di noi, per dirci che nel lancio di quell’attrezzo c’è la nostra vita. 
Là, in quella che non è la sua terra di nascita, rimane scolpito il messaggio di Janis, come un totem sul quale gravitano gli echi, di una parte dei pensieri e delle riflessioni quotidiane. Là, in Finlandia, Lusis è raccontato come fonte d’ammirazione confondendosi coi grandi giavellottisti finnici e quella lanciatrice altrettanto finnica, dal volto che impreziosiva le giornate (e gli occhi di chi scrive), Tiina Lillak. Qua, in Italia, non si sa nemmeno chi sono costoro. 

....continua...
 
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#2
L'eco di Latvia 

“Ringrazio l’atletica e l’amore che mi ha trasmesso, perché m’ha fatto dimenticare l’odio verso i soldati russi che assassinarono vigliaccamente mio padre. M’è rimasto lo strozzante dolore di averlo perso quando ero ancora un bambino. Tutto quello che ho fatto lanciando, era per lui e la mia terra, la Lettonia, anche se la mia canottiera portava il simbolo dell’URSS. L’inno russo che ascoltavo sul podio delle mie vittorie, lo vivevo come un canto per l’atletica e quel giavellotto che è stato, e sarà sempre, un riferimento per me, mia moglie e, spero, per i nostri figli”. 
Con queste parole Janis Lusis, riassunse i significati della sua storia d’atleta vincente come pochi, ed epigone del lancio del giavellotto. 
Quand’era piccino, a soli sei anni, il 14 maggio 1945, cinque giorni dopo la dichiarazione di vittoria della Russia sulla Germania, suo padre Voldemars, venne ucciso da un soldato di Stalin. La sua colpa: essersi ribellato all’ordine di consegnare alle forze armate sovietiche presenti sul territorio lettone, i cavalli, i maiali e altri beni della fattoria di famiglia. Poco importò se a vantaggio del padre di Janis, vi fosse un onorato servizio d’appoggio alle popolazioni locali, nella costruzione di strade e ponti, dopo il passaggio del fronte. I soldi non c’erano, la fame era tanta e quei beni erano tutto per la famiglia Lusis. 
Il killer, con la divisa sempre orrenda d’un esercito, lo trucidò a freddo con un colpo di pistola alla nuca. Si dice che il piccolo Janis, abbia visto tutto e abbia sempre contenuto con una forza interiore immane, l’odio verso quel popolo che, attraverso la pistola di un imbecille chiamato da criminali ordini, aveva straziato la sua famiglia. Lo fece anche quando, per il talento atletico che possedeva, fu deportato in Russia, in una delle tante scuole di avviamento allo sport, create appositamente dal comunismo per cercare i migliori trionfi di stato. 

Divenuto ragazzo ben messo, ma mai robusto come un pesista, il giovane Janis fu indirizzato, proprio da quelle scuole, verso il lancio del giavellotto, specialità nella quale riusciva ad esaltare pure la dote di una evidente velocità. La sua spalla destra era adattissima alla frustata che, da sempre, richiede il lancio di quell’attrezzo. In più, Janis, aveva dentro se stesso, da buon lettone, i cromosomi di realtà culturali più distanti da quelle classiche di vaste zone dell’impero sovietico, un distinguo che veniva dal Baltico, là, nelle terre più vicine alla Finlandia. Era un predestinato al giavellotto. Non a caso, se sfogliamo la storia della specialità, troviamo tanti lettoni oltre a Lusis, da Inese Jaunzeme (Oro Olimpico a Melbourne nel 1956) a Elvira Ozolina (Oro a Roma nel ’69), fino a Dainis Kula (vincitore dell’Oro a Mosca nel 1980).

[Immagine: lusis_ea.jpg&w=320&h=385&zc=1&hash=9e0a6...01cc22492e]

La crescita di Janis fu palpabile, ma a ventun anni era ancora grezzo per superare le fortissime selezioni sovietiche: una specie di olimpiade propedeutica ai veri Giochi, ed a Roma non andò. L’esplosione del grande talento di Latvia, avvenne nel 1962, quando a Belgrado vinse i Campionati Europei, con un lancio di 82,04 metri, ma la sua serie, tutta su quegli 80 metri che allora significavano l’eccellenza, fece capire che il ragazzone lettone aveva qualcosa in più del comune. Finì l’anno imbattuto (fu per diciotto volte in competizione) ed a Tashkent, un mese dopo gli Europei, con un lancio di 85,04 avvicinò imperiosamente il record mondiale dell’italiano Carlo Lievore. 
Stupiva il suo modo di interpretare la gara, con lo sguardo rivolto al cielo, quasi a voler riconoscere nell’invisibilità dell’aria, le spinte migliori del vento o della semplice brezza. Anche la prova sulla direzione della spinta ventosa, attraverso il semplice lancio di un oggetto di piccolo peso, già al tempo tanto comune, non distoglieva più di tanto il suo rito col volto all’insù, alla ricerca dell’ideale percorso ove avrebbe fatto passare la sua lancia, il suo messaggio terreno. 
Era appena arrivato ad un grande successo e già qualcuno lo eleggeva a mito, proprio per la sua originalità, quasi parlasse con l’attrezzo e fosse con lui in volo. Le penne dell’epoca, iniziarono anch’esse ad indirizzare la propria grafia verso una lettura che appariva affascinante, pronta a spingersi lei stessa, verso un’altra versione del pensiero ellittico di Janis. Grazie a quegli uomini che oggi non ci son più, leggere di Lusis, rappresentava un tassello luminoso del quadro che il lanciatore dipingeva nei cieli. Era come sentirlo pittore, ai margini del campo dove in tanti provavamo testimoniare qualcosa. Che tempi! 

Anche nelle venti gare a cui partecipò nel 1963, Janis lanciò meglio di chiunque altro, il suo giavellotto vibrava sull’aria, lasciando un fruscio leggero più simile ad una musica che mai avresti voluto sentire conclusa. E poi, quel sorriso che ti sforzavi di leggere come un’espressione di felicità, quando era invece una forma di ringraziamento alla sua arte e al ricordo di quel padre che lo aspettava lassù. Lo disse il buon Janis, lo disse da vecchio atleta, quando ancora non era arrivata la perestrojka, ma lui era troppo per il mondo, per essere tartassato dagli strali della Gabbia Stato sovietica. 
Arrivò l’anno olimpico e dopo quasi tre anni di imbattibilità conobbe il volto della sconfitta: nell’impero dell’URSS, dietro di lui, crescevano avversari pronti a copiare il suo meraviglioso gesto tecnico. Aksyonov, Kusnyetsov (due volte) e il polacco Sidlo, riuscirono a batterlo, ma a Tokyo giunse da favorito: era già troppo grande per non esserlo. 
Sulla pedana olimpica giapponese il venticinquenne lettone però, sbagliò l’unica gara della sua vita. Oddio, lanciò per sempre molto bene, ma le particolari condizioni di quella giornata, non gli furono amiche e lui non riuscì ad essere completamente se stesso. Arrivò al bronzo, dietro due grandissimi alfieri della specialità, l’ungherese Gerghely Kulcsar (argento), ed al figlio più aspettato della terra del giavellotto, Pauli Nevala. 
Una battuta d’arresto che non piegò l’amore viscerale di Janis verso quel gesto che, ormai, veniva confuso col suo cognome. Riprese la sua marcia nel ’65, vincendo 18 delle 21 gare a cui prese parte, le tre sconfitte vennero da Kulcsar (due volte) e dal polacco Sidlo. Nessuno però, lo avvicinò nella competizione più importante, la finale di Coppa Europa dove Lusis vinse, lanciando ad 82,56 metri. Tornò imbattuto nel 1966 e, sui cieli di Budapest, in casa di quell’avversario che lo aveva battuto a Tokyo, si prese una sonora rivincita, facendo volare il suo giavellotto ad 84,48 metri, conquistando così il suo secondo Titolo Europeo consecutivo. A fine anno in previsione dei futuri Giochi di Città del Messico, gareggiò nella capitale messicana venendo a capo facilmente di un cast da finale olimpica.
Un leggero infortunio, lo frenò un poco nei mesi centrali del 1967, dove fu sconfitto dapprima dal tedesco dell’Est, quasi omonimo di un celebre tennista australiano del tempo, Manfred Stolle, quindi, per tre volte, da un connazionale di origine estone Mart Paama. Ma erano eccezioni, come sempre, e nella gara più importante dell’anno, a Kiev, nella finale di Coppa Europa, ancora una volta, Lusis, apparve un imbattibile innamorato di quell’attrezzo, del vento e della poesia di quel lancio. A fine stagione tornò nella capitale messicana, firmando un ulteriore successo con una prestazione di grandissimo rilievo metrico. 

Agli albori della stagione ’68, il grandissimo lettone che aveva impreziosito il monumento della sua specialità, era in cima ai pensieri di chi amava l’atletica: su 130 gare disputate ne aveva perse solo12, mentre sulle cinque grandi finali disputate, aveva perso solo all’Olimpiade di Tokyo. Era per tutti il maestro, ma non aveva ancora firmato un primato mondiale e gli mancava l’oro olimpico. La stagione alle porte doveva dargli quelle due risposte, anche se l’osservatorio non ne faceva un cruccio, tale era l’oggettività della sua superiorità. Non era così per Janis, uomo di poche parole, ma col cuore pulsante; atleta che non si distaccava dalla vita, dall’onda nuova che stava percorrendo il mondo e il suo forzato paese. In silenzio, come sempre, si preparò a rispondere nell’unico modo che conosceva profondo, lanciando più lontano nei cieli il suo messaggio, il suo istinto di libertà. Su quel giavellotto in volo c’era lui. 
L’anno si aprì con una serie di vittorie ancor più nette. A metà stagione andò in Finlandia, nella terra sacra della sua disciplina, doveva e voleva raccogliere la sfida dei tanti grandi lanciatori di quel luogo. Ad aspettarlo c’era l’olimpionico uscente Pauli Nevala, l’astro Jorma Kinnunen, i fortissimi Vaino Kuisma ed Esko Kuutti, assieme a loro, quelle tante altre star che vedevano la terra finlandese anche come un naturale luogo d’allenamento, per non dire di culto. 
Si presentò a Tampere, il 19 giugno, davanti ad uno stadio stracolmo, con tanti appassionati appesi alle reti dell’impianto o negli alberi adiacenti pur di poter vedere i giavellottisti. Qui, in un clima così particolare, Janis superò bellamente tutti gli avversari e sfiorò il mondiale lanciando a 90,92 metri. Vinse poi a Keuruu, lanciando ad 87,58, ma il primato mondiale era nell’aria. Ed il record arrivò due giorni dopo, a Saarijärvi, dove il lettone scagliò l’attrezzo a 91,98 metri! Il primo obiettivo di stagione era stato raggiunto. Anche ad Helsinki, quattro giorni dopo, nell’ultima gara finnica, il suo giavellotto volò più lontano. Nessuno poteva resistergli e la sua imbattibilità continuò per altre 15 gare fino alle Olimpiadi. 

Mexico City, città già a quei giorni densa di smog e con l’aria più rarefatta per i suoi 2500 metri sul livello del mare, non si prestava a facili letture e a grandi misure. Janis Lusis doveva e voleva vincere, niente lo avrebbe fermato. Gli avversari si auguravano in un’altra giornataccia come quella di Tokyo, ma il grande lanciatore di Jelgava, non si fece intimorire dagli spettri di quell’unica sconfitta importante e, nel tardo pomeriggio messicano di quel 16 ottobre, a far da eco e da colonna sonora all’impresa di Tommie Smith sui 200 metri, ci pensò il suo giavellotto. Il cielo della città che non aveva mai visto una cometa così da vicino, salutò quel segmento grigio donandogli la riconoscenza di una luce particolare, raccolta a salutare una leggenda che si era dischiusa. 
Qualche minuto dopo quel raggio luminoso, Janis Lusis sorrise al mondo: aveva dimostrato le sue stimmate anche agli scettici incalliti, donando agli sguardi un’ellisse di 90,10 metri, nell’aria più impossibile per superare quella soglia. Salutò il pubblico e volse lo sguardo alla pista, dove un collega con la pelle scura, col medesimo intrinseco bisogno di testimoniarsi, si accingeva a segnare un altro lampo di storia: Tommie “Jet” Smith. Per chi racconta, allora piccolo ragazzino aldiquà dell’oceano, quel tardo pomeriggio messicano, vissuto dietro uno schermo televisivo apparso più grande dell’intero orizzonte, si condensò un “uno-due” indelebile.

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#3
Janis Lusis aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, ma il suo amore verso l’atletica, nelle forme di un quadro di vita impresso sulla cornice dei cieli, continuò immutato. Anche il 1969, si piegò immacolato al suo percorso: diciotto gare e altrettanti successi. A Tampere però, nella sua terra, Jorma Kinnunen, il grande finlandese che mai era riuscito a batterlo e che era giunto all’argento nei Giochi messicani, con un lancio di 92,70 gli soffiò il record mondiale. Janis, quel giorno era ad Odessa, sul Mar Nero, in allenamento per gli Europei di Atene, ed accolse la notizia senza dolore. 
Sapeva troppo bene quanto il lancio del giavellotto potesse riservare ogni tanto misure oltre la media delle prestazioni. Quel che contava, per lui, era il massimo del possibile ad ogni uscita in pedana. Si sentiva forte ed integro, nonostante i 30 anni e le tante gare a cui era stato chiamato (un numero irraggiungibile per i lanciatori moderni), spesso per assecondare i voleri di Stato. E poi, come ebbe a dire qualche anno più tardi, se il record doveva perderlo, l’ideale era proprio per opera di un finlandese, tanto più un amico come Kinnunen. Agli Europei di Atene, che si tennero a metà settembre, Janis Lusis dettò ancora una volta la sua legge, vincendo con un lancio di 91,52 metri. 
Non era un giorno adatto a grandi misure ed infatti, a parte Nevala, che gli giunse ad un paio di metri, il terzo, il polacco Janusz Sidlo, lanciò ad una decina di metri in meno, un abisso!

Nel 1970, dopo un infortunio che lo allontanò dalle pedane per tre mesi, arrivarono per Lusis tre sconfitte, di cui una ad opera del polacco Wladislaw Nikiciuk, nella finale di Coppa Europa a Stoccolma. La misura di Janis però, solo 81,74 metri, stava a dimostrare che le sue condizioni non erano delle migliori. Si rifece nel finale di stagione, vincendo sei meeting. 
L’anno seguente partì in sordina, il suo motore non era più reattivo come un tempo ed il connazionale Janis Donins, lettone come lui, lo batté in quattro occasioni, ma con un Janis a misure modeste per la sua statura. L’obiettivo di Lusis, era il poker ai Campionati Europei, che si sarebbero svolti a metà agosto nella terra del giavellotto, ad Helsinki. Dopo le sconfitte, nelle successive tappe di avvicinamento alla rassegna continentale Janis riprese la sua striscia immacolata, superando più volte il connazionale e, con un lancio di 90,68, si laureò per la quarta volta, in altrettante partecipazioni, campione d’Europa. Anche in quella occasione lasciò il connazionale e i grandi avversari a più di cinque metri. 
La sua leggenda senza fine non ne voleva sapere di lasciarsi al tributo solo delle penne e dei ricordi. Inanellò così un’altra serie di successi, ed a Stoccolma, il 6 luglio 1972, si riprese il record mondiale lanciando l’attrezzo alla fantastica misura di 93,80! A due mesi dalle Olimpiadi di Monaco il suo trono sembrava inattaccabile, anche per il rampante tedesco federale Klauss Wolfermann. Le stesse tappe di avvicinamento ai Giochi, in quel di Mosca e Podolsk, confermarono l’integra grandiosità di Janis. 

Le Olimpiadi tedesche del dopoguerra però, aldilà dei fatti di sangue che le macchiarono, si tramutarono per il grande lettone in una delusione che, tutt’oggi, assume i contorni del sospetto e del dubbio. In uno stadio che mostrò nell’atletica i connotati tipici del tifo calcistico, anche per la rivalità feroce fra le due Germanie, Wolfermann fu spinto non poco ad una battaglia, anche superiore ai confini della rivalità sportiva. Fra gli avversari del beniamino di casa, oltre a Lusis, c’era anche il tedesco dell’Est Wolfagang Hanisch, un lanciatore dalla forza immane che, l’anno prima, agli Europei, giungendo terzo, aveva battuto sonoramente il collega dell’Ovest. 

Il clima rovente diede una forza nuova all’atleta di casa, il quale riuscì a portarsi in testa con la grande misura di 90,48 metri. Janis, saldamente sull’argento, grazie ad una serie come suo solito regolarissima, trovò l’acuto all’ultimo lancio. Il pubblico seguì l’ellisse col fiato sospeso e quando l’attrezzo atterrò, nei settantamila presenti, cominciò a serpeggiare la delusione. Dallo stadio, quanto dalla TV, s’ebbe la netta sensazione, guardando la linea dei 90 metri, che il giavellotto di Lusis fosse caduto un poco più lontano di quello di Wolfermann. Le misurazioni furono veloci, soprattutto in considerazione di quella che poi fu la risultanza inserita nel tabellone: 90,46 metri, due centimetri in meno dell’oro, ovvero la differenza minima prevista dal regolamento IAAF per i lanci lunghi. Mentre il pubblico esplose per lo scampato pericolo, Janis pensò ad un’altra misurazione, in fondo lo chiedeva la logica, ma non fu così, ed il grande lettone con un sorriso amaro accettò quel verdetto. La parte neutrale dello stadio e l’osservatorio, registrarono, con eguale amarezza, una pagina poco chiara della storia dell’atletica. 

Ancora oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, c’è chi è convintissimo che a Lusis, fossero stati tolti quegli otto-dieci centimetri che gli avrebbero donato il secondo oro olimpico. Un’impressione che ebbe lo stesso lettone, ma da signore quale è sempre stato, non commentò mai al veleno quel triste tre settembre 1972. Si tenne l’argento, completando così, nelle tre Olimpiadi disputate l’intero podio, ma da quel giorno, come nel giavellotto, la sua ellisse cominciò ad avviarsi verso la terra. 

Il suo, fu un tramonto degno della leggenda di imbattibile, perché continuò a superare i più forti, compreso Wolfermann. Nel ’73 perse solo tre gare fra le venti disputate, ma nel ’74 e nel ’75, la sua flessione fu più palpabile e quelli che per una dozzina d’anni erano stati successi, si trasformarono, sovente, in podi sui gradini più bassi. Ciononostante, si diede l’obiettivo di superare le selezioni sovietiche per l’Olimpiade di Montreal, impresa non facile, in virtù della qualità dei lanciatori dell’immensa Gabbia Stato. Vi riuscì al punto di trovare la forza per mettere in fila ancora una volta tutti, sia a Mosca che a Kiev. Arrivò ai Giochi canadesi con lo scopo della finale, ed anche stavolta non mancò l’obiettivo, anche se poi fu costretto ad accontentarsi dell’ottavo posto. Due mesi dopo, tornò in pedana a Jurmala, per il suo ultimo lancio. Vinse in mezzo all’ovazione di un pubblico che per più di dieci minuti si levò in piedi ad applaudirlo. Erano sportivi che ben avevano conosciuto la sua immensità. A trentasette anni, con 303 gare ufficiali svolte, di cui 265 vinte, passò ad insegnare la conoscenza del vento ai giovani.

[Immagine: 506_@_janis2009saarijarvi.jpg]

Con la caduta dell’URSS divenne poi uno dei principali riferimenti del ministero dello sport lettone, ed ha allenato con immutata passione. Sposatosi con la connazionale Elvira Ozolina, oro nel giavellotto a Roma ’60, uno dei loro figli, Voldemars, ha tentato di ripercorrere un poco la carriera dei genitori, ma pur riuscendo a partecipare alle Olimpiadi di Sydney ed a quelle di Atene, il suo attrezzo, non ha ancora solcato il cielo con un volo di nota. Il vecchio Janis, ha sempre seguito le evoluzioni del figlio, ed ha a lungo sperato di ritornare, grazie a questi, ad accarezzare il vento. I suoi occhi, come un tempo, hanno guardato in alto, mentre la sua leggenda, ha continuato a scorrere indelebile come un sussurro, sugli orizzonti di Latvia. 
La scheda di Janis Lusis. 

Nato a Jelgava (Lettonia) il 19 maggio 1939. 
Altezza: 1,80 
Peso: 84 kg 
Specialità: Lancio del Giavellotto 
Primato personale: 93,80 metri. 
Palmares: Oro, Argento e Bronzo rispettivamente alle Olimpiadi di Città del Messico, Monaco di Baviera e Tokyo. Campione Europeo, nel ’62-’66-’69-’71. Vincitore in Coppa Europa, nel ’65 e nel ’67. Due volte Primatista Mondiale (1968-1972). Dodici volte Campione Sovietico. Imbattuto nel ’62-’63-’66-’68-’69. 

Maurizio Ricci detto  Morris
 
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