27-09-2021, 04:34 PM
È morto lo stesso giorno di Coppi, ed anch'egli per valori atletici, possibile di proposta per il titolo di campionissimo. Anche lui era modesto ed a modo, proprio all'inverso di quella che poteva apparire la visione del suo volto. Era l'arquero con divisa nera che inteneriva di voli l'uscio di una porta larga ben sette metri e trentadue centimetri, ed era un mito per me e per tutti coloro che, fin da bambini, han fatto della pelota o del pallone il pomo di una disfida con l'abilità e l'incanto. Era soprattutto una leggenda, un trofeo di fierezza ed orgoglio, per il popolo che, per le enormi risultanze nate in una nazione di soli 3 milioni di persone, va considerato come il più calcistico della Terra. Altro che Inghilterra!
Si chiamava Ladislao e di cognome accarezzava una sorta di scioglilingua, che recitava Mazurkiewicz. L’origine era chiaramente polacca, ma la terra di nascita e di vita era il minuscolo Uruguay. Faceva il portiere, ed è diventato uno degli sportivi che m’hanno reso fortunato, avendo quella età che m'ha consentito di vederli in diretta, senza quelle nebbie che sono sempre i filmati. Un atleta che il 2 gennaio 2013, all’atto del suo ingresso negli orizzonti dell’umano irreparabile, m’ha fatto ancora una volta emozionare fino alle lacrime, così diverse, purtroppo, da quelle che sorgevano nel vederlo volare da un palo all’altro.
Caro Mazurka, perdonami se nel raccontarti….. sarò ben lungi da ciò che meriteresti.
Ladislao Mazurkiewicz, l’Arquero.
Un angelo-ragno nero che si levava in volo come una molla, ed afferrava il pallone come un pegno d’amore per il suo innato senso di conquista, ignaro della corrispondenza a lui riservata da quella sfera di cuoio. I suoi guanti, apparivano come il terreno ideale dei sentimenti del pallone che lui, l’arquero, sapeva trovare negli angoli più sparuti del terreno e di quell’aria che, per la sua grandezza, si inteneriva gettando e tracciando indirizzi.
Gli occhi di ghiaccio di quell’uomo vestito di nero, ipnotizzavano i possessori parziali di quella miniatura di globo, fino a far di loro i protagonisti di una recita sullo sfondo di stadi consapevoli di quanto l’angelo-ragno fosse divino.
“Ho giocato contro tanti portieri, ma solo lui mi incuteva il timore di sbagliare. Non lo dovevi guardare perché ti impietriva, ti restava solo la possibilità di ragionare sui movimenti della sua ombra, perché se volevi vedere le sue intenzioni eri perduto. Era un ragazzino quando lo incontrai per la prima volta, parò a me e ai miei compagni del Santos tutto quello che si poteva giudicare possibile e fece diventare tale anche quello che per noi era impossibile. Quella sera, sconfitti e sconsolati, mentre ritornavamo negli spogliatoi mi avvicinò Zito e mi disse che quel ragazzo sarebbe diventato il più grande di tutti. Non mi fu difficile dargli ragione. Non eravamo stati sconfitti dal Penarol, ma da quel ragazzo. Per me nessuno è stato più bravo di Ladislao!”.
Le parole sono di colui che tanti ancor oggi considerano il più grande calciatore di tutti i tempi, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè. Ladislao, non era un polacco, anche se di quella fredda terra aveva le origini, ma un uruguaiano che di cognome si chiamava Mazurkiewicz.
“Quando gli facevi un gol – disse un giorno Luis Cesar Menotti, trainer dell’Argentina campione del mondo nel 1978 - te lo eri guadagnato davvero. Difficilmente sbagliava e quando capitava era solo per dirci che era un uomo. Ladislao, per quanto leggendario, non è stato stimato a sufficienza, perché non ha mai giocato in un grande club europeo e le sue squadre, Penarol a parte, non sono mai state di primissimo piano. Quando venne in Europa, lo fece nel Granada, una piccola squadra che salvò dalla retrocessione in entrambi gli anni in cui vi ha militato. Mi chiedo ancora oggi perché, un simile portiere, non sia mai stato acquistato da un grande club spagnolo, quando nelle loro porte c’erano tipi che non valevano nemmeno la metà di lui. Anche questo, se vogliamo, è uno dei tanti misteri del calcio.”
Parole verissime che testimoniano un velo d’amarezza, perché Ladislao Mazurkiewicz, “Mazurka” per i più, di doti supreme ne ha veramente avute tantissime, ed il raccolto di carriera è stato inferiore alla sua grandezza ed a quella leggenda che gli viene comunque riconosciuta. In lui, sotto quei pantaloncini e quei maglioni perennemente neri, si sono sublimate le qualità fisiche feline con quelle glaciali della mente, una rara capacità di infondere sicurezza, con l’istinto ardito di uscire dai pali per togliere i palloni più impensabili dalle teste di attaccanti che stavano mettendo in crisi i propri difensori. Lui volava, bloccava, deviava, respingeva dando sempre l’idea di aver fatto la cosa migliore, a volte quella ritenuta impossibile, perché quello era il suo tema, il suo mestiere, la sua arte. La forza delle sue dita era tale, da fermare all’istante come una calamita, i pesanti palloni dei suoi tempi. Era quello il modo che amava usare per parare: se poteva, non respingeva o deviava mai. Era davvero strepitoso, ed il suo stile scolpiva nell’aria una coreografia che anche il più miope avrebbe definita "figlia della perfezione".
Dell’era classica del ruolo di portiere, i miei occhi non han mai visto Combi, Planicka, Zamora, tanto famosi quanto unitari nella positiva critica dell’osservatorio, mentre di Jashin ricordo un portiere pieno di carisma e fenomenale, ben più alto di Ladislao e con la medesima capacità di incidere sugli avversari con lo sguardo. Uno che ha meritato ampiamente il Pallone d’Oro. Il russo è l’unico di quel lungo segmento che si chiuse coi nuovi palloni ed il cambio di regole coinvolgenti il portiere, che mi sento di accostare a “Mazurka”. È significativo in tal senso il gesto di Jashin al termine della sua partita d’addio al calcio allo Stadio Lenin di Mosca nel 1971, quando consegnò i suoi guanti proprio a Ladislao. Aspetto poco colto dalla stampa europea, che continuò a trattare davvero molto marginalmente l’arquero uruguayano. Ci giungono così tre certezze: la constatazione che di Mazurkiewicz s’è sempre saputo poco, che abbia pagato il fatto di aver militato a lungo in squadre di scarso spessore, o in via di smembramento come il Penarol, ed il peccato, spesso mortale, di non essere europeo. Di quest’ultimo aspetto, si ha un richiamo formidabile in quell’Inghilterra considerata terra di maestri, ma che ha vinto un mondiale solo (rubandolo tra l’altro), esprimendo sempre un calcio tra i più brutti fra i paesi evoluti in questo sport. Gli inglesi, infatti, sono dalla preistoria del football, chiacchieroni da tabloid, ma in assoluto posseggono la peggior percentuale di campioni reali, rispetto al tanto “can can” prodotto. Ha dunque ragione Menotti: se “Mazurka” fosse venuto al Real Madrid nel 1967, al posto dell’ormai fragile e rotto Araquistain, o del poco più che discreto Betancourt, come era nelle logiche, avrebbe diviso per tutti la fama col leggendario Lev Jashin.
“Ladislao era il portiere ideale – dice il grande goleador Luis Artime, uno che in carriera ha superato le mille reti – incuteva timore negli avversari e faceva giocare i suoi difensori sul velluto. Sai quante volte i suoi compagni lo dicevano a noi avversari. Ero forte di testa, ma quando giocavo contro il Penarol, sapevo che oltre al mio marcatore, dovevo battere quelle mani che arrivavano spesso a portarmi via il pallone dal capo. Quando gli facevi gol, la gioia era doppia perché lui non sbagliava mai e tu eri stato fantastico a batterlo. Un grande avversario ed il più grande portiere che abbia visto.”
Anche questa testimonianza eccellente viene a confermare come i più grandi giocatori del tempo, salutassero la presenza dell’angelo-ragno nero, come quella di un fenomeno, di un giocatore speciale. Ancor più particolareggiate sono le parole di colui che per tanti anni fu compagno di Mazurka nella nazionale celeste, il grande Luis Cubilla.
“Ladislao ragazzino, arrivò al Penarol quando io me ne ero già andato. Di lui ebbi grande conoscenza nel 1965, quando, a vent’anni, fu chiamato a sostituire l’infortunato Maidana nella semifinale di Libertadores contro il Santos e fu l’artefice principale dell’eliminazione di Pelè e compagni. Io giocavo nel River Plate e nella finalissima tutti noi platensi tifavamo per la mia vecchia squadra contro i nostri acerrimi rivali dell’Independiente. Mazurka fu bravissimo, ma non ci fu niente da fare ed i rossi di Avelaneda rivinsero la Coppa. L’anno dopo, ci ritrovammo insieme in nazionale e le nostre carriere si incrociarono nella finale di Coppa Libertadores. Per me era l’occasione per vincere finalmente un grande trofeo col River. Ma il Penarol fu più bravo e per me, Daniel Onega, Oscar Mas e Jorge Solari, ci fu poco da fare, pur segnando reti impossibili da parare, lui riuscì a gettarci nel panico perché per batterlo dovevi essere perfetto. I miei connazionali vinsero la Coppa nello spareggio di Santiago del Cile e lui, il Mazurka, a soli ventuno anni, ci aveva stregato. Negli spogliatoi gli dissi che per rifarsi del dispetto doveva stregare il Benfica di Eusebio nella finale dell’Intercontinentale e così fu. Ai Mondiali inglesi di quell’anno io non partecipai, perché mi infortunai proprio alla vigilia. Da casa come tutti gli uruguaiani fui orgoglioso di quel ragazzo che nella partita inaugurale aveva chiuso la porta a quelli che poi diverranno i campioni del mondo. Così giovane era stato il primo portiere della storia ad uscire inviolato da Wembley. Parò tutto, ricordo un tiro a filo d’erba di Bobby Charlton che tutti davamo per sicuro gol, ma alla fine arrivò la mano di Marzurkiewicz a deviare quel pallone in angolo. Una parata mostruosa. Giocammo insieme i Mondiali di Città del Messico ed anche lì si dimostrò il migliore di tutti noi. Perdemmo in semifinale col Brasile che seppe rimontare un mio gol. Alla fine della partita, Pelè, sempre gentile, mi avvicinò e mi disse che gli dispiaceva per me e per quello che lui considerava da anni il miglior portiere del mondo. In quella partita il loro duello fu da manuale del calcio. Alla fine del mondiale Ladislao fu eletto miglior portiere del mondo ed entrò nella formazione ideale della manifestazione. Giocai ancora con Mazurka in Germania nel 1974.
Noi eravamo vecchi e logori, salvo lui, che fu capace di renderci decorosi. Soprattutto nella nostra partita d’esordio contro i formidabili olandesi, ci consentì di uscire dal campo con un risultato negativo normale, due a zero, quando invece fummo dominati per tutta la gara. Ricordo Pedro Rocha, prima che fossi sostituito perché non ne potevo più, che ci urlava di tener duro, perché se trovavamo un golletto potevamo pareggiare, visto chi avevamo in porta. Infatti “Mazurka” fu immenso e solo allo scadere, se non ricordo male oltre l'ottantacinquesimo minuto, quei mostri furono capaci di segnare il secondo gol. In tutta la mia carriera non ho mai subito una lezione del genere, ma se uno guarda quel risultato non può capirlo, perché noi, in porta, avevamo un alieno. Un peccato per Ladislao, per dieci anni e più il migliore, senza poter vincere un mondiale con la nazionale. Mazuka mi raggiunse nell’81 quando io allenavo il Penarol, era stato in Cile ed in Colombia, ed era tornato nella squadra che ci aveva lanciati, per smettere. Noi avevamo Alvez in porta, una promessa. Dapprima lo convinsi a far da chioccia al titolare, mettendomi in imbarazzo perché lui era ancora migliore e poi l’anno dopo, lo convinsi a fare l’allenatore dei portieri. Ruolo che svolge ancora oggi per la Nazionale. Anche dopo il suo ritiro, di più bravi in giro per il mondo, non ne ho visti. Ladislao Marurkiewicz era davvero speciale!”.
Le parole di Cubilla, ci hanno riassunto gran parte della carriera dell’angelo-ragno nero, un uomo che ha continuato fino all'ultimo dei suoi giorni, a trasmettere ai più giovani i tratti della sua leggenda, attraverso quegli occhi di ghiaccio che tanto facevano paura agli attaccanti e quello stile che l’ha fatto arquero per eccellenza. Un uomo taciturno, ma gentile, disponibile, serio, il cui unico vizietto, volendo forzare, altri non è che un fatto abbastanza normale: la tavola.
Un mito uruguagio che si poteva trovare sui campi di Montevideo, a visionare ragazzini ed insegnare ai pretendenti di quella maglia che un giorno rese luminosa, accompagnato dall’inseparabile berrettino, ed un portamento imponente, che alimenta il rimpianto, per chi ebbe la fortuna di vederlo volare da un palo all’altro, dell’ineludibilità del tempo che scorre. Quella leggenda vivente, che si presentò negli ultimi anni ingrassata e col volto denso di rughe, ma con le mani in grado di stritolare il ferro come ai bei tempi. Già, quelle mani che potevano spaccare i palloni e che, protese, facevano tremare gli avversari.
Ladislao, ma ci sono ancora dei portieri come te?
“Ognuno ha la sua epoca – disse sorridendo, qualche anno fa, ad un amico chi mi suggerì di scrivere su di lui – io vorrei vedere i portieri odierni coi palloni di allora, come del resto mi sarebbe piaciuto provare, competitivo, i palloni di oggi. Io non so se sono stato più bravo di altri o meno, quello che posso dire è che ho sempre cercato di onorare le mie squadre.”
Ma perché sempre la maglia nera?
“Quando potevo, ma non sempre mi è capitato, usavo quelle maglie perché mi piace il nero, perché è il colore che incute più timore negli attaccanti, che fa più ombra, e poi, perché è la tinta che più si distingue da quella dei tuoi compagni. In una partita conta anche quella, almeno per me contava.”
Il portiere di oggi come deve essere?
“Le nuove regole hanno modificato il ruolo, ma non l’hanno snaturato. Diciamo che servono le medesime caratteristiche di un tempo, anche se oggi la velocità e la leggerezza dei palloni ti costringono ad uscire di meno. In più devi sapere giocare coi piedi e partecipare di più all’azione. Fra i pali devi cercare di pensare di meno a bloccare il pallone, ma a badare essenzialmente ad impedire alla palla di entrare in rete. Nonostante le diversità e gli ovvi rimpianti per essere ormai vecchietto, mi sarebbe piaciuto avere trent’anni di meno e cimentarmi nel calcio che hanno imposto ai portieri di oggi.”
Dei portieri che hai allenato nella tua scuola chi ti somiglia di più?
“Ognuno ha il suo stile. Alvez era sicuramente quello più simile, ma aveva quel grosso problema al ginocchio che poi gli ha tarpato la carriera. Carini? Beh lui è molto diverso, è forte fra i pali, meno nelle uscite, ma ha tanta volontà. Tanta come nessuno. Vedremo, è così giovane.”
Rimpianti?
“Mi han sempre detto che uno come me doveva parare per grandi club. Ma io ho giocato a lungo nel Penarol, un grande nome e fra la mia gente. Questo mi basta. E poi anche le altre squadre avevano la loro bella dignità. No, non sono questi i miei rimpianti. Semmai, ripeto, mi spiace essere nato trent’anni prima!”
Già, sarebbe stato bello anche per chi, oggi, si esalta per gente che non ha, e mai avrà mai, il tratto leggendario dell’angero-ragno nero. L’unico uomo che fra i pali ti faceva partire con un gol subito in meno degli altri. Almeno i miei occhi, mai lo potranno dimenticare.
La sua carriera in sintesi
Ladislao Mazurkiewicz, è nato a Piriapolis, una cittadina sull'Atlantico ad un centinaio di chilometri a sud est di Montevideo, il 14 gennaio del 1945. La sua famiglia era emigrata in Uruguay tre lustri prima. Sportivamente non s’è formato nel calcio bensì nella pallacanestro, disciplina lasciata a 13 anni dopo aver incontrato l’allenatore del Racing di Montevideo, squadra che allora militava nella quarta divisione calcistica uruguayana. Solo tre anni dopo, nel 1961, avvenne il suo esordio in prima squadra.
Il suo valore si dimostrò subito evidente al punto di divenire il protagonista di ben due promozioni consecutive. Nel 1963 entrò nella rappresentative giovanile uruguagia e, da titolare, vinse nel 1964 i campionati continentali di categoria in quel di Bogotà in Colombia. Sulle ali di questo successo e della fama che si era guadagnato, all’indomani della rassegna ad alla cifra record per un giovane, venne acquistato dal Penarol. Il titolare della principale compagine uruguayana era allora Luis Maidana, un solido portiere che col glorioso club aveva vinto sia la Coppa Libertadores che quella Intercontinentale qualche anno prima. Ma il giovane Ladislao si dimostrò subito più che un rincalzo al punto di sostituire sovente il titolare. E quando questi si infortunò, il giovane Ladislao fu chiamato a difendere la porta del Penarol nella grande sfida di semifinale della Coppa Libertadores col Santos di Pelè. Nelle due partite distanti fra loro pochi giorni una serie di veri e propri miracoli dell’arquero uruguagio impedirono ad “O Rey” e compagni di guadagnarsi la finalissima. Fu l’inizio della leggenda di Ladislao Mazurkiewicz. Pochi giorni dopo il 31 marzo il giovane di Piriapolis fece il suo esordio nella massima Selecion uruguagia. La finalissima di Libertadores poi vide il Penarol soccombere di fronte all’Independiente di Avelaneda squadra campione uscente. Nel 1966 la grande rivincita, grazie alle vittorie nella coppa continentale sul River Plate ed in quella Intercontinentale ai danni del Benefica di Eusebio, Coluna e Simoes. A ventun anni Ladislao Mazurkiewicz era già il portiere campione del mondo di Club. Ma il 1966 doveva riservare ancora soddisfazioni per lui in quanto al suo primo mondiale, allora chiamato Coppa Rimet, nella partita inaugurale di Wembley contro l’Inghilterra, fu
autore di una prestazione mostruosa che impedì agli inglesi di violare la sua porta. Finì zero a zero, e Mazurka, come già era chiamato, fu così il primo portiere della storia ad uscire imbattuto sul mitico stadio contro i “maestri del calcio”. Alla fine della rassegna, fu considerato dalla critica, il miglior portiere dopo il russo Jashin e l’inglese Banks. Nel 1970, in el Messico, con l’Uruguay giunse alle semifinali mondiali contro il Brasile del grande Pelè. In quella partita fu autore ancora di una prestazione eccezionale, ma non poté impedire la sconfitta. Stavolta fu considerato unanimemente come il miglior portiere del mondo (nessun uruguaiano dopo di lui è finito nella formazione ideale di un mondiale). Partecipò anche alla Coppa del Mondo di Germania nel 1974, ma l’Uruguay era poca cosa. Ciononostante le sue prestazioni si elevarono ed alla fine del torneo fu ancora sul podio dei portieri: terzo dopo Maier e Tomasewski. Ladislao Mazurkiewicz continuò a giocare fino al 1981.
La sua scheda
Alto 1,81 m. peso forma 75 chilogrammi.
Ha militato:
Racing di Montevideo dal 1961 al 1963
Penarol di Montevideo dal 1964 al 1970
Atletico Mineiro (Brasile) dal 1971 al 1973
Granata (Spagna) dal 1974 al 1975
Cobreola de Chile (Cile) dal 1976 al 1978
America de Calì (Colombia) dal 1979 al 1980
Penarol di Montevideo nel 1981
Palmares
Campione Sudamericano Under 21 nel 1964
Coppa Libertadores 1966
Coppa Intercontinentale 1966
Campionati Uruguayani nel 1965-1967-1968-1981
Record di imbattibilità 987’ nel 1967-‘68
Record Mondiale di minor gol subiti in una stagione: 5 nel 1968
Primo portiere della storia ad uscire imbattuto da Wembley, contro l’Inghilterra
Miglior portiere al mondo per la critica, dal 1967 al 1972.
Aneddoti o ricordi particolari.
La semifinale mondiale di Messico ’70 fra Brasile e Uruguay sarà ricordata a lungo per il duello fra Pelè, il miglior giocatore al mondo e Mazurkiewicz, miglior portiere mondiale. Fra i due c’erano conti in sospeso fin dalla semifinale di Coppa Libertadores del 1965, dove tutto il repertorio del grande giocatore carioca, non fu sufficiente a perforare l’intuito e la bravura del portiere uruguagio. I quella partita ci furono due episodi che misero in evidenza in maniera fulgida le divine capacità dei due gicatori. Il primo episodio ci porta ai primi minuti della ripresa col risultato sull’uno a uno. Mazurkiewicz, come nel miglior stile dei portieri sudamericani rinvia la palla di piede dai limiti dell’area, cercando di non guardare alla potenza, bensì di piazzarla su un compagno, in quel caso Mujica. Questi però, prima che il pallone tocchi terra, viene anticipato da Pelè, il quale, vedendo il portiere lontanissimo dai pali tenta il colpo ad effetto, calciando al volo con tutta la forza possibile. La sfera sibila in cielo mentre Mazurka se la vede arrivare come un ufo. Il grande numero uno uruguayano indietreggia come un felino ma non basta per arrivare al pallone. A quel punto s’inarca in uno spettacolare ed incredibile volo all’indietro ed in perfetto plastico arpiona il pallone facendolo suo senza perderlo nella pesante ricaduta a terra.
Pelè però, non ci sta e sul due a uno per il Brasile tenta nuovamente di fare un gol a Mazurka. Stavolta si getta in corsa su un perfetto lancio smarcante di Tostao, anche l’uruguagio capisce il pericolo e si getta verso il grande attaccante per chiudergli lo specchio della porta e per contrastarlo. Pelè in un istante vede che può anticipare Ladislao, ma non può batterlo con un tiro o con un dribbling normale, è chiuso e deve inventare qualcosa. Finta col corpo lo scarto a sinistra e con le punta del piede mette il pallone a destra mettendo così a terra Mazurka. Si getta su quella palla destinata al fondo come un felino e la raggiunge quando questa è quasi sulla linea e con una contorsione divina la indirizza verso la porta mancando per un centimetro un gol che sarebbe stato leggendario. I due si guardarono in faccia ancora una volta….il loro duello divino aveva vissuto un’altra puntata.
Un ricordo personale
Inghilterra – Uruguay ai mondiali del 966. Guardai quella partita in TV con mio fratello maggiore di me di ben 14 anni, tifosissimo del Bologna, con una venerazione per William Negri, portiere dell’ultimo scudetto rossoblu e per Lev Jashin, il leggendario guardiano della porta dell’URSS. In quella partita faceva un tifo sfrenato per l’Inghilterra per reazione a me, già simpatizzante, nonostante la mia giovanissima età verso tutte le squadre del continente sudamericano. Accompagnò le prime parate di Marurkiewicz, con un “madonna se è forte”, per finire, dopo una “paratona” su Bobby Charlton negli ultimi minuti di gara, ad una frase che non potrò mai dimenticare: “Caspita, oggi ho visto uno più forte di Negri e forse anche di Jashin, ma tu, Pestifero che sai tutto, quanto anni ha quel portiere?”
“Ventuno, dado!”
“Allora oggi ho visto il più grande numero uno del mondo!”
A Ladislao
Vola “Angelo Ragno Nero”
vola per il tuo popolo
per quei “Tupamaros”
che tanto m’affascinavano.
Vola per il tuo continente
saccheggiato dalle barbarie
di uomini siamesi
all’ipocrita bene del danaro.
Vola per chi ama
il volto voluto triste
delle qualità di chi è vero
perché non ha bisogno di sorrisi
per ergersi a migliore
nello spirito del prossimo.
Vola ancora nel ricordo
di chi come me
non dimentica il passato
e chi venera la povertà.
Il tuo volo è immortale, Mazurka.
Maurizio Ricci detto Morris
Si chiamava Ladislao e di cognome accarezzava una sorta di scioglilingua, che recitava Mazurkiewicz. L’origine era chiaramente polacca, ma la terra di nascita e di vita era il minuscolo Uruguay. Faceva il portiere, ed è diventato uno degli sportivi che m’hanno reso fortunato, avendo quella età che m'ha consentito di vederli in diretta, senza quelle nebbie che sono sempre i filmati. Un atleta che il 2 gennaio 2013, all’atto del suo ingresso negli orizzonti dell’umano irreparabile, m’ha fatto ancora una volta emozionare fino alle lacrime, così diverse, purtroppo, da quelle che sorgevano nel vederlo volare da un palo all’altro.
Caro Mazurka, perdonami se nel raccontarti….. sarò ben lungi da ciò che meriteresti.
Ladislao Mazurkiewicz, l’Arquero.
Un angelo-ragno nero che si levava in volo come una molla, ed afferrava il pallone come un pegno d’amore per il suo innato senso di conquista, ignaro della corrispondenza a lui riservata da quella sfera di cuoio. I suoi guanti, apparivano come il terreno ideale dei sentimenti del pallone che lui, l’arquero, sapeva trovare negli angoli più sparuti del terreno e di quell’aria che, per la sua grandezza, si inteneriva gettando e tracciando indirizzi.
Gli occhi di ghiaccio di quell’uomo vestito di nero, ipnotizzavano i possessori parziali di quella miniatura di globo, fino a far di loro i protagonisti di una recita sullo sfondo di stadi consapevoli di quanto l’angelo-ragno fosse divino.
“Ho giocato contro tanti portieri, ma solo lui mi incuteva il timore di sbagliare. Non lo dovevi guardare perché ti impietriva, ti restava solo la possibilità di ragionare sui movimenti della sua ombra, perché se volevi vedere le sue intenzioni eri perduto. Era un ragazzino quando lo incontrai per la prima volta, parò a me e ai miei compagni del Santos tutto quello che si poteva giudicare possibile e fece diventare tale anche quello che per noi era impossibile. Quella sera, sconfitti e sconsolati, mentre ritornavamo negli spogliatoi mi avvicinò Zito e mi disse che quel ragazzo sarebbe diventato il più grande di tutti. Non mi fu difficile dargli ragione. Non eravamo stati sconfitti dal Penarol, ma da quel ragazzo. Per me nessuno è stato più bravo di Ladislao!”.
Le parole sono di colui che tanti ancor oggi considerano il più grande calciatore di tutti i tempi, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè. Ladislao, non era un polacco, anche se di quella fredda terra aveva le origini, ma un uruguaiano che di cognome si chiamava Mazurkiewicz.
“Quando gli facevi un gol – disse un giorno Luis Cesar Menotti, trainer dell’Argentina campione del mondo nel 1978 - te lo eri guadagnato davvero. Difficilmente sbagliava e quando capitava era solo per dirci che era un uomo. Ladislao, per quanto leggendario, non è stato stimato a sufficienza, perché non ha mai giocato in un grande club europeo e le sue squadre, Penarol a parte, non sono mai state di primissimo piano. Quando venne in Europa, lo fece nel Granada, una piccola squadra che salvò dalla retrocessione in entrambi gli anni in cui vi ha militato. Mi chiedo ancora oggi perché, un simile portiere, non sia mai stato acquistato da un grande club spagnolo, quando nelle loro porte c’erano tipi che non valevano nemmeno la metà di lui. Anche questo, se vogliamo, è uno dei tanti misteri del calcio.”
Parole verissime che testimoniano un velo d’amarezza, perché Ladislao Mazurkiewicz, “Mazurka” per i più, di doti supreme ne ha veramente avute tantissime, ed il raccolto di carriera è stato inferiore alla sua grandezza ed a quella leggenda che gli viene comunque riconosciuta. In lui, sotto quei pantaloncini e quei maglioni perennemente neri, si sono sublimate le qualità fisiche feline con quelle glaciali della mente, una rara capacità di infondere sicurezza, con l’istinto ardito di uscire dai pali per togliere i palloni più impensabili dalle teste di attaccanti che stavano mettendo in crisi i propri difensori. Lui volava, bloccava, deviava, respingeva dando sempre l’idea di aver fatto la cosa migliore, a volte quella ritenuta impossibile, perché quello era il suo tema, il suo mestiere, la sua arte. La forza delle sue dita era tale, da fermare all’istante come una calamita, i pesanti palloni dei suoi tempi. Era quello il modo che amava usare per parare: se poteva, non respingeva o deviava mai. Era davvero strepitoso, ed il suo stile scolpiva nell’aria una coreografia che anche il più miope avrebbe definita "figlia della perfezione".
Dell’era classica del ruolo di portiere, i miei occhi non han mai visto Combi, Planicka, Zamora, tanto famosi quanto unitari nella positiva critica dell’osservatorio, mentre di Jashin ricordo un portiere pieno di carisma e fenomenale, ben più alto di Ladislao e con la medesima capacità di incidere sugli avversari con lo sguardo. Uno che ha meritato ampiamente il Pallone d’Oro. Il russo è l’unico di quel lungo segmento che si chiuse coi nuovi palloni ed il cambio di regole coinvolgenti il portiere, che mi sento di accostare a “Mazurka”. È significativo in tal senso il gesto di Jashin al termine della sua partita d’addio al calcio allo Stadio Lenin di Mosca nel 1971, quando consegnò i suoi guanti proprio a Ladislao. Aspetto poco colto dalla stampa europea, che continuò a trattare davvero molto marginalmente l’arquero uruguayano. Ci giungono così tre certezze: la constatazione che di Mazurkiewicz s’è sempre saputo poco, che abbia pagato il fatto di aver militato a lungo in squadre di scarso spessore, o in via di smembramento come il Penarol, ed il peccato, spesso mortale, di non essere europeo. Di quest’ultimo aspetto, si ha un richiamo formidabile in quell’Inghilterra considerata terra di maestri, ma che ha vinto un mondiale solo (rubandolo tra l’altro), esprimendo sempre un calcio tra i più brutti fra i paesi evoluti in questo sport. Gli inglesi, infatti, sono dalla preistoria del football, chiacchieroni da tabloid, ma in assoluto posseggono la peggior percentuale di campioni reali, rispetto al tanto “can can” prodotto. Ha dunque ragione Menotti: se “Mazurka” fosse venuto al Real Madrid nel 1967, al posto dell’ormai fragile e rotto Araquistain, o del poco più che discreto Betancourt, come era nelle logiche, avrebbe diviso per tutti la fama col leggendario Lev Jashin.
“Ladislao era il portiere ideale – dice il grande goleador Luis Artime, uno che in carriera ha superato le mille reti – incuteva timore negli avversari e faceva giocare i suoi difensori sul velluto. Sai quante volte i suoi compagni lo dicevano a noi avversari. Ero forte di testa, ma quando giocavo contro il Penarol, sapevo che oltre al mio marcatore, dovevo battere quelle mani che arrivavano spesso a portarmi via il pallone dal capo. Quando gli facevi gol, la gioia era doppia perché lui non sbagliava mai e tu eri stato fantastico a batterlo. Un grande avversario ed il più grande portiere che abbia visto.”
Anche questa testimonianza eccellente viene a confermare come i più grandi giocatori del tempo, salutassero la presenza dell’angelo-ragno nero, come quella di un fenomeno, di un giocatore speciale. Ancor più particolareggiate sono le parole di colui che per tanti anni fu compagno di Mazurka nella nazionale celeste, il grande Luis Cubilla.
“Ladislao ragazzino, arrivò al Penarol quando io me ne ero già andato. Di lui ebbi grande conoscenza nel 1965, quando, a vent’anni, fu chiamato a sostituire l’infortunato Maidana nella semifinale di Libertadores contro il Santos e fu l’artefice principale dell’eliminazione di Pelè e compagni. Io giocavo nel River Plate e nella finalissima tutti noi platensi tifavamo per la mia vecchia squadra contro i nostri acerrimi rivali dell’Independiente. Mazurka fu bravissimo, ma non ci fu niente da fare ed i rossi di Avelaneda rivinsero la Coppa. L’anno dopo, ci ritrovammo insieme in nazionale e le nostre carriere si incrociarono nella finale di Coppa Libertadores. Per me era l’occasione per vincere finalmente un grande trofeo col River. Ma il Penarol fu più bravo e per me, Daniel Onega, Oscar Mas e Jorge Solari, ci fu poco da fare, pur segnando reti impossibili da parare, lui riuscì a gettarci nel panico perché per batterlo dovevi essere perfetto. I miei connazionali vinsero la Coppa nello spareggio di Santiago del Cile e lui, il Mazurka, a soli ventuno anni, ci aveva stregato. Negli spogliatoi gli dissi che per rifarsi del dispetto doveva stregare il Benfica di Eusebio nella finale dell’Intercontinentale e così fu. Ai Mondiali inglesi di quell’anno io non partecipai, perché mi infortunai proprio alla vigilia. Da casa come tutti gli uruguaiani fui orgoglioso di quel ragazzo che nella partita inaugurale aveva chiuso la porta a quelli che poi diverranno i campioni del mondo. Così giovane era stato il primo portiere della storia ad uscire inviolato da Wembley. Parò tutto, ricordo un tiro a filo d’erba di Bobby Charlton che tutti davamo per sicuro gol, ma alla fine arrivò la mano di Marzurkiewicz a deviare quel pallone in angolo. Una parata mostruosa. Giocammo insieme i Mondiali di Città del Messico ed anche lì si dimostrò il migliore di tutti noi. Perdemmo in semifinale col Brasile che seppe rimontare un mio gol. Alla fine della partita, Pelè, sempre gentile, mi avvicinò e mi disse che gli dispiaceva per me e per quello che lui considerava da anni il miglior portiere del mondo. In quella partita il loro duello fu da manuale del calcio. Alla fine del mondiale Ladislao fu eletto miglior portiere del mondo ed entrò nella formazione ideale della manifestazione. Giocai ancora con Mazurka in Germania nel 1974.
Noi eravamo vecchi e logori, salvo lui, che fu capace di renderci decorosi. Soprattutto nella nostra partita d’esordio contro i formidabili olandesi, ci consentì di uscire dal campo con un risultato negativo normale, due a zero, quando invece fummo dominati per tutta la gara. Ricordo Pedro Rocha, prima che fossi sostituito perché non ne potevo più, che ci urlava di tener duro, perché se trovavamo un golletto potevamo pareggiare, visto chi avevamo in porta. Infatti “Mazurka” fu immenso e solo allo scadere, se non ricordo male oltre l'ottantacinquesimo minuto, quei mostri furono capaci di segnare il secondo gol. In tutta la mia carriera non ho mai subito una lezione del genere, ma se uno guarda quel risultato non può capirlo, perché noi, in porta, avevamo un alieno. Un peccato per Ladislao, per dieci anni e più il migliore, senza poter vincere un mondiale con la nazionale. Mazuka mi raggiunse nell’81 quando io allenavo il Penarol, era stato in Cile ed in Colombia, ed era tornato nella squadra che ci aveva lanciati, per smettere. Noi avevamo Alvez in porta, una promessa. Dapprima lo convinsi a far da chioccia al titolare, mettendomi in imbarazzo perché lui era ancora migliore e poi l’anno dopo, lo convinsi a fare l’allenatore dei portieri. Ruolo che svolge ancora oggi per la Nazionale. Anche dopo il suo ritiro, di più bravi in giro per il mondo, non ne ho visti. Ladislao Marurkiewicz era davvero speciale!”.
Le parole di Cubilla, ci hanno riassunto gran parte della carriera dell’angelo-ragno nero, un uomo che ha continuato fino all'ultimo dei suoi giorni, a trasmettere ai più giovani i tratti della sua leggenda, attraverso quegli occhi di ghiaccio che tanto facevano paura agli attaccanti e quello stile che l’ha fatto arquero per eccellenza. Un uomo taciturno, ma gentile, disponibile, serio, il cui unico vizietto, volendo forzare, altri non è che un fatto abbastanza normale: la tavola.
Un mito uruguagio che si poteva trovare sui campi di Montevideo, a visionare ragazzini ed insegnare ai pretendenti di quella maglia che un giorno rese luminosa, accompagnato dall’inseparabile berrettino, ed un portamento imponente, che alimenta il rimpianto, per chi ebbe la fortuna di vederlo volare da un palo all’altro, dell’ineludibilità del tempo che scorre. Quella leggenda vivente, che si presentò negli ultimi anni ingrassata e col volto denso di rughe, ma con le mani in grado di stritolare il ferro come ai bei tempi. Già, quelle mani che potevano spaccare i palloni e che, protese, facevano tremare gli avversari.
Ladislao, ma ci sono ancora dei portieri come te?
“Ognuno ha la sua epoca – disse sorridendo, qualche anno fa, ad un amico chi mi suggerì di scrivere su di lui – io vorrei vedere i portieri odierni coi palloni di allora, come del resto mi sarebbe piaciuto provare, competitivo, i palloni di oggi. Io non so se sono stato più bravo di altri o meno, quello che posso dire è che ho sempre cercato di onorare le mie squadre.”
Ma perché sempre la maglia nera?
“Quando potevo, ma non sempre mi è capitato, usavo quelle maglie perché mi piace il nero, perché è il colore che incute più timore negli attaccanti, che fa più ombra, e poi, perché è la tinta che più si distingue da quella dei tuoi compagni. In una partita conta anche quella, almeno per me contava.”
Il portiere di oggi come deve essere?
“Le nuove regole hanno modificato il ruolo, ma non l’hanno snaturato. Diciamo che servono le medesime caratteristiche di un tempo, anche se oggi la velocità e la leggerezza dei palloni ti costringono ad uscire di meno. In più devi sapere giocare coi piedi e partecipare di più all’azione. Fra i pali devi cercare di pensare di meno a bloccare il pallone, ma a badare essenzialmente ad impedire alla palla di entrare in rete. Nonostante le diversità e gli ovvi rimpianti per essere ormai vecchietto, mi sarebbe piaciuto avere trent’anni di meno e cimentarmi nel calcio che hanno imposto ai portieri di oggi.”
Dei portieri che hai allenato nella tua scuola chi ti somiglia di più?
“Ognuno ha il suo stile. Alvez era sicuramente quello più simile, ma aveva quel grosso problema al ginocchio che poi gli ha tarpato la carriera. Carini? Beh lui è molto diverso, è forte fra i pali, meno nelle uscite, ma ha tanta volontà. Tanta come nessuno. Vedremo, è così giovane.”
Rimpianti?
“Mi han sempre detto che uno come me doveva parare per grandi club. Ma io ho giocato a lungo nel Penarol, un grande nome e fra la mia gente. Questo mi basta. E poi anche le altre squadre avevano la loro bella dignità. No, non sono questi i miei rimpianti. Semmai, ripeto, mi spiace essere nato trent’anni prima!”
Già, sarebbe stato bello anche per chi, oggi, si esalta per gente che non ha, e mai avrà mai, il tratto leggendario dell’angero-ragno nero. L’unico uomo che fra i pali ti faceva partire con un gol subito in meno degli altri. Almeno i miei occhi, mai lo potranno dimenticare.
La sua carriera in sintesi
Ladislao Mazurkiewicz, è nato a Piriapolis, una cittadina sull'Atlantico ad un centinaio di chilometri a sud est di Montevideo, il 14 gennaio del 1945. La sua famiglia era emigrata in Uruguay tre lustri prima. Sportivamente non s’è formato nel calcio bensì nella pallacanestro, disciplina lasciata a 13 anni dopo aver incontrato l’allenatore del Racing di Montevideo, squadra che allora militava nella quarta divisione calcistica uruguayana. Solo tre anni dopo, nel 1961, avvenne il suo esordio in prima squadra.
Il suo valore si dimostrò subito evidente al punto di divenire il protagonista di ben due promozioni consecutive. Nel 1963 entrò nella rappresentative giovanile uruguagia e, da titolare, vinse nel 1964 i campionati continentali di categoria in quel di Bogotà in Colombia. Sulle ali di questo successo e della fama che si era guadagnato, all’indomani della rassegna ad alla cifra record per un giovane, venne acquistato dal Penarol. Il titolare della principale compagine uruguayana era allora Luis Maidana, un solido portiere che col glorioso club aveva vinto sia la Coppa Libertadores che quella Intercontinentale qualche anno prima. Ma il giovane Ladislao si dimostrò subito più che un rincalzo al punto di sostituire sovente il titolare. E quando questi si infortunò, il giovane Ladislao fu chiamato a difendere la porta del Penarol nella grande sfida di semifinale della Coppa Libertadores col Santos di Pelè. Nelle due partite distanti fra loro pochi giorni una serie di veri e propri miracoli dell’arquero uruguagio impedirono ad “O Rey” e compagni di guadagnarsi la finalissima. Fu l’inizio della leggenda di Ladislao Mazurkiewicz. Pochi giorni dopo il 31 marzo il giovane di Piriapolis fece il suo esordio nella massima Selecion uruguagia. La finalissima di Libertadores poi vide il Penarol soccombere di fronte all’Independiente di Avelaneda squadra campione uscente. Nel 1966 la grande rivincita, grazie alle vittorie nella coppa continentale sul River Plate ed in quella Intercontinentale ai danni del Benefica di Eusebio, Coluna e Simoes. A ventun anni Ladislao Mazurkiewicz era già il portiere campione del mondo di Club. Ma il 1966 doveva riservare ancora soddisfazioni per lui in quanto al suo primo mondiale, allora chiamato Coppa Rimet, nella partita inaugurale di Wembley contro l’Inghilterra, fu
autore di una prestazione mostruosa che impedì agli inglesi di violare la sua porta. Finì zero a zero, e Mazurka, come già era chiamato, fu così il primo portiere della storia ad uscire imbattuto sul mitico stadio contro i “maestri del calcio”. Alla fine della rassegna, fu considerato dalla critica, il miglior portiere dopo il russo Jashin e l’inglese Banks. Nel 1970, in el Messico, con l’Uruguay giunse alle semifinali mondiali contro il Brasile del grande Pelè. In quella partita fu autore ancora di una prestazione eccezionale, ma non poté impedire la sconfitta. Stavolta fu considerato unanimemente come il miglior portiere del mondo (nessun uruguaiano dopo di lui è finito nella formazione ideale di un mondiale). Partecipò anche alla Coppa del Mondo di Germania nel 1974, ma l’Uruguay era poca cosa. Ciononostante le sue prestazioni si elevarono ed alla fine del torneo fu ancora sul podio dei portieri: terzo dopo Maier e Tomasewski. Ladislao Mazurkiewicz continuò a giocare fino al 1981.
La sua scheda
Alto 1,81 m. peso forma 75 chilogrammi.
Ha militato:
Racing di Montevideo dal 1961 al 1963
Penarol di Montevideo dal 1964 al 1970
Atletico Mineiro (Brasile) dal 1971 al 1973
Granata (Spagna) dal 1974 al 1975
Cobreola de Chile (Cile) dal 1976 al 1978
America de Calì (Colombia) dal 1979 al 1980
Penarol di Montevideo nel 1981
Palmares
Campione Sudamericano Under 21 nel 1964
Coppa Libertadores 1966
Coppa Intercontinentale 1966
Campionati Uruguayani nel 1965-1967-1968-1981
Record di imbattibilità 987’ nel 1967-‘68
Record Mondiale di minor gol subiti in una stagione: 5 nel 1968
Primo portiere della storia ad uscire imbattuto da Wembley, contro l’Inghilterra
Miglior portiere al mondo per la critica, dal 1967 al 1972.
Aneddoti o ricordi particolari.
La semifinale mondiale di Messico ’70 fra Brasile e Uruguay sarà ricordata a lungo per il duello fra Pelè, il miglior giocatore al mondo e Mazurkiewicz, miglior portiere mondiale. Fra i due c’erano conti in sospeso fin dalla semifinale di Coppa Libertadores del 1965, dove tutto il repertorio del grande giocatore carioca, non fu sufficiente a perforare l’intuito e la bravura del portiere uruguagio. I quella partita ci furono due episodi che misero in evidenza in maniera fulgida le divine capacità dei due gicatori. Il primo episodio ci porta ai primi minuti della ripresa col risultato sull’uno a uno. Mazurkiewicz, come nel miglior stile dei portieri sudamericani rinvia la palla di piede dai limiti dell’area, cercando di non guardare alla potenza, bensì di piazzarla su un compagno, in quel caso Mujica. Questi però, prima che il pallone tocchi terra, viene anticipato da Pelè, il quale, vedendo il portiere lontanissimo dai pali tenta il colpo ad effetto, calciando al volo con tutta la forza possibile. La sfera sibila in cielo mentre Mazurka se la vede arrivare come un ufo. Il grande numero uno uruguayano indietreggia come un felino ma non basta per arrivare al pallone. A quel punto s’inarca in uno spettacolare ed incredibile volo all’indietro ed in perfetto plastico arpiona il pallone facendolo suo senza perderlo nella pesante ricaduta a terra.
Pelè però, non ci sta e sul due a uno per il Brasile tenta nuovamente di fare un gol a Mazurka. Stavolta si getta in corsa su un perfetto lancio smarcante di Tostao, anche l’uruguagio capisce il pericolo e si getta verso il grande attaccante per chiudergli lo specchio della porta e per contrastarlo. Pelè in un istante vede che può anticipare Ladislao, ma non può batterlo con un tiro o con un dribbling normale, è chiuso e deve inventare qualcosa. Finta col corpo lo scarto a sinistra e con le punta del piede mette il pallone a destra mettendo così a terra Mazurka. Si getta su quella palla destinata al fondo come un felino e la raggiunge quando questa è quasi sulla linea e con una contorsione divina la indirizza verso la porta mancando per un centimetro un gol che sarebbe stato leggendario. I due si guardarono in faccia ancora una volta….il loro duello divino aveva vissuto un’altra puntata.
Un ricordo personale
Inghilterra – Uruguay ai mondiali del 966. Guardai quella partita in TV con mio fratello maggiore di me di ben 14 anni, tifosissimo del Bologna, con una venerazione per William Negri, portiere dell’ultimo scudetto rossoblu e per Lev Jashin, il leggendario guardiano della porta dell’URSS. In quella partita faceva un tifo sfrenato per l’Inghilterra per reazione a me, già simpatizzante, nonostante la mia giovanissima età verso tutte le squadre del continente sudamericano. Accompagnò le prime parate di Marurkiewicz, con un “madonna se è forte”, per finire, dopo una “paratona” su Bobby Charlton negli ultimi minuti di gara, ad una frase che non potrò mai dimenticare: “Caspita, oggi ho visto uno più forte di Negri e forse anche di Jashin, ma tu, Pestifero che sai tutto, quanto anni ha quel portiere?”
“Ventuno, dado!”
“Allora oggi ho visto il più grande numero uno del mondo!”
A Ladislao
Vola “Angelo Ragno Nero”
vola per il tuo popolo
per quei “Tupamaros”
che tanto m’affascinavano.
Vola per il tuo continente
saccheggiato dalle barbarie
di uomini siamesi
all’ipocrita bene del danaro.
Vola per chi ama
il volto voluto triste
delle qualità di chi è vero
perché non ha bisogno di sorrisi
per ergersi a migliore
nello spirito del prossimo.
Vola ancora nel ricordo
di chi come me
non dimentica il passato
e chi venera la povertà.
Il tuo volo è immortale, Mazurka.
Maurizio Ricci detto Morris