26-01-2022, 03:25 AM
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 26-01-2022, 03:39 AM da Spalloni.)
Ecco la traduzione di cui avevo parlato, ovviamente è fatta da un testo già tradotto e questo non è il massimo, e poi io non sono proprio dotato di una prosa pirandelliana, ma spero che al meno si intuisca l'anima di ciò che 'We were Young and carefree' vuole trasmettere, e magari leggendo questa a qualcuno verrà voglia di comprare il libro
Non avevamo paura di nulla.
Queste poche parole, blasfeme, sconcertanti, forse irragionevoli. Ho scelto di iniziare con questa frase con molto anticipo, ma quando è arrivato il momento di metterla su carta, ho esitato. Non ero sicuro di volere che tutti le leggessero. Forse esse potrebbero essere viste come una prova contro di me piuttosto per quello che sono davvero: parole che testimoniano come stavano le cose, come era il mio tempo. Questa è la verità, non avevamo paura di nulla, ma allo stesso tempo sapevamo cosa fosse importante.
Questa è la mia vita, ma anche un viaggio attraverso un mondo più ampio, un mondo perduto che formava uomini completi, non semplici sportivi: in me, l'uomo ha sempre avuto il controllo sul ciclista.
Il desiderio per il tumulto, le tempeste e le battaglie è sempre stato vivo in me, nasce dal più piccolo accenno di un'idea e guarda con gli occhi spalancati al mondo. Ho sempre voluto prendere la vita in mano, altrimenti quale è il senso di essere al mondo? E' forse orgoglio preferire l'impeto dell'azione al facile compiacimento? E' forse vanità volersi sorprendere ancora ed ancora? E' forse un crimine avere un'anima competitiva e le scommesse nel sangue?
Il ciclismo è un'arte viva, i ciclisti che lo dimenticano sono sulla buona strada per diventare delle amebe. Non è meglio rischiare per una vittoria che assicurarsi una facile sconfitta? Non volevo che la mia vita fosse da qualche altra parte e in qualche altro tempo. Volevo che la mia vita fosse piena in ogni suo istante, volevo che ricominciasse ogni giorno, che fosse completa e ricca di sorprese.
Potreste dire che sono stato un uomo fortunato. Tra la fine e l'inizio degli anni '80, durante la transizione tra due mondi del ciclismo completamente differenti, la mia carriera ha visto la fine dell'ultima era senza problemi del ciclismo. Noi uomini di quel tempo ci guardavamo ancora negli occhi e non scappavamo quando le cose si facevano serie: preferivamo solenni inni a gentili canzoncine. E non avevamo paura di scottarci quando era necessario. Un vero ciclista deve finire a terra prima che possa raggiungere le stelle.
Vincere, sopravvivere, resistere.
E' una corsa contro l'oblio, una corsa contro il tempo, una corsa contro se stessi: una carriera, una vita.
Il carattere di un uomo può essere rappresentato dal modo in cui corre in bicicletta? E nel caso, il ciclismo ha detto tutto ciò che c'è da dire su di me?
Non sono sicuro di cosa rappresenti la mia era, ma senza saperlo, ho vissuto in un'era d'oro. Magari questo potrà suonare pretenzioso, ma lo sostengo poiché quello fu l'ultimo periodo in cui il ciclismo era qualcosa di nobile. In ogni caso, non ci sarà nostalgia qui, al massimo un pizzico di malinconia. Potrei anche girare attorno a qualche sensazione, fatto o avvenimento, come per mantenere i momenti salienti intatti.
Lo devo dire: non ho mai pensato che fosse meglio al mio tempo, solo differente ,come lo sono tutti i periodi distinti.
Ma anche così, penso di aver vissuto l'equivalente ciclistico dei ruggenti anni '60 , e credo anche di essere stato uno di coloro che battevano il sentiero. Alcuni mi hanno paragonato al 'Leader of the Pack' [ é una canzone degli anni 60]. Qualche capo. Qualche gruppo.
Quantomeno non accettammo mai compromessi nel nostro approccio alla vita. Diciamo che eravamo ribelli piuttosto che servi. Eravamo sempre vivi, anche se non sempre in piena salute: non fummo mai dei robot. Eravamo pazzi, ma avevamo anche una certa dignità. Eravamo molto giovani, ma in un certo senso anche molto maturi.
A volte le persone mi chiedono: 'In che se senso era tutto così diverso?' e le stesse persone poi aggiungono: 'Quando è stato il punto di non ritorno? Quando tutto ha iniziato ha cambiare?' Ho sentimenti contrastanti quando cerco nelle mie memorie per trovare dettagli e scene chiave, ma posso dire abbastanza precisamente quando è arrivato il cambiamento: il punto di non ritorno è stato l'ultimo giorno del Tour de France 1989. Un giorno di incredibile tristezza. Un giorno di mostruosa sconfitta. L'unico giorno della mia vita in cui pochi secondi mi sembrarono un'eternità. Molte persone sentono che questo è il giorno che divide due tipi di ciclismo molto differenti. E' così sorprendente? Gli artigiani furono sconfitti dalla produzione di massa. Le cose fatte a mano furono surclassate da quelle prodotte in fabbrica. Gli individui furono sommersi dalla massa. Gli eroi del gente furono strangolati e la gloria dei Giganti della strada iniziò a sgretolarsi.
Queste poche parole, blasfeme, sconcertanti, forse irragionevoli. Ho scelto di iniziare con questa frase con molto anticipo, ma quando è arrivato il momento di metterla su carta, ho esitato. Non ero sicuro di volere che tutti le leggessero. Forse esse potrebbero essere viste come una prova contro di me piuttosto per quello che sono davvero: parole che testimoniano come stavano le cose, come era il mio tempo. Questa è la verità, non avevamo paura di nulla, ma allo stesso tempo sapevamo cosa fosse importante.
Questa è la mia vita, ma anche un viaggio attraverso un mondo più ampio, un mondo perduto che formava uomini completi, non semplici sportivi: in me, l'uomo ha sempre avuto il controllo sul ciclista.
Il desiderio per il tumulto, le tempeste e le battaglie è sempre stato vivo in me, nasce dal più piccolo accenno di un'idea e guarda con gli occhi spalancati al mondo. Ho sempre voluto prendere la vita in mano, altrimenti quale è il senso di essere al mondo? E' forse orgoglio preferire l'impeto dell'azione al facile compiacimento? E' forse vanità volersi sorprendere ancora ed ancora? E' forse un crimine avere un'anima competitiva e le scommesse nel sangue?
Il ciclismo è un'arte viva, i ciclisti che lo dimenticano sono sulla buona strada per diventare delle amebe. Non è meglio rischiare per una vittoria che assicurarsi una facile sconfitta? Non volevo che la mia vita fosse da qualche altra parte e in qualche altro tempo. Volevo che la mia vita fosse piena in ogni suo istante, volevo che ricominciasse ogni giorno, che fosse completa e ricca di sorprese.
Potreste dire che sono stato un uomo fortunato. Tra la fine e l'inizio degli anni '80, durante la transizione tra due mondi del ciclismo completamente differenti, la mia carriera ha visto la fine dell'ultima era senza problemi del ciclismo. Noi uomini di quel tempo ci guardavamo ancora negli occhi e non scappavamo quando le cose si facevano serie: preferivamo solenni inni a gentili canzoncine. E non avevamo paura di scottarci quando era necessario. Un vero ciclista deve finire a terra prima che possa raggiungere le stelle.
Vincere, sopravvivere, resistere.
E' una corsa contro l'oblio, una corsa contro il tempo, una corsa contro se stessi: una carriera, una vita.
Il carattere di un uomo può essere rappresentato dal modo in cui corre in bicicletta? E nel caso, il ciclismo ha detto tutto ciò che c'è da dire su di me?
Non sono sicuro di cosa rappresenti la mia era, ma senza saperlo, ho vissuto in un'era d'oro. Magari questo potrà suonare pretenzioso, ma lo sostengo poiché quello fu l'ultimo periodo in cui il ciclismo era qualcosa di nobile. In ogni caso, non ci sarà nostalgia qui, al massimo un pizzico di malinconia. Potrei anche girare attorno a qualche sensazione, fatto o avvenimento, come per mantenere i momenti salienti intatti.
Lo devo dire: non ho mai pensato che fosse meglio al mio tempo, solo differente ,come lo sono tutti i periodi distinti.
Ma anche così, penso di aver vissuto l'equivalente ciclistico dei ruggenti anni '60 , e credo anche di essere stato uno di coloro che battevano il sentiero. Alcuni mi hanno paragonato al 'Leader of the Pack' [ é una canzone degli anni 60]. Qualche capo. Qualche gruppo.
Quantomeno non accettammo mai compromessi nel nostro approccio alla vita. Diciamo che eravamo ribelli piuttosto che servi. Eravamo sempre vivi, anche se non sempre in piena salute: non fummo mai dei robot. Eravamo pazzi, ma avevamo anche una certa dignità. Eravamo molto giovani, ma in un certo senso anche molto maturi.
A volte le persone mi chiedono: 'In che se senso era tutto così diverso?' e le stesse persone poi aggiungono: 'Quando è stato il punto di non ritorno? Quando tutto ha iniziato ha cambiare?' Ho sentimenti contrastanti quando cerco nelle mie memorie per trovare dettagli e scene chiave, ma posso dire abbastanza precisamente quando è arrivato il cambiamento: il punto di non ritorno è stato l'ultimo giorno del Tour de France 1989. Un giorno di incredibile tristezza. Un giorno di mostruosa sconfitta. L'unico giorno della mia vita in cui pochi secondi mi sembrarono un'eternità. Molte persone sentono che questo è il giorno che divide due tipi di ciclismo molto differenti. E' così sorprendente? Gli artigiani furono sconfitti dalla produzione di massa. Le cose fatte a mano furono surclassate da quelle prodotte in fabbrica. Gli individui furono sommersi dalla massa. Gli eroi del gente furono strangolati e la gloria dei Giganti della strada iniziò a sgretolarsi.