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Luis Cubilla: la “farfalla” uruguagia.
#1
Non sarà stato né Garrincha e neppure Julinho, ma una traccia, anzi un solco, nel calcio sudamericano l’ha lasciato, ed è un peccato che a quei tempi i trasferimenti in Europa non fossero facili, perché una sua permanenza maggiore nel football del vecchio continente, avrebbe alimentato fantasie e creato tanti processi imitativi nei ragazzi del mio tempo. Qua, venne ugualmente, ma si fermò poco, solo un paio d’anni nella contorta Barcellona, facendo gustare ai palati fini le sue finte e quelle piroette quasi delle veroniche, con palla al piede che facevano sedere i difensori, donando al palcoscenico il suo sorriso d’apparente baronetto gentiluomo, piovuto per caso sulle rive della Plata. Il suo nome, già il suo nome, ci appare quasi superfluo alla pronuncia del nostro immaginario, perché è vivo il ricordo, anche se lontano il segmento di quei giorni in cui dipingeva, ma è pur vero che tanti non posson ricordare per la semplice “sventura” d’essere venuti dopo.
Lui era, Luis Cubilla di Payasandù in Uruguay, un paesino tanto povero quanto luccicante d’humus sudamericano, sito alle porte di Montevideo. Un territorio dove la vita è un bene che si dispone al rischio facile del non percepibile, perché non c’è tempo di fare confronti. Dove i volti sono segnati dalle rughe create da quel sole, spesso salutato come unica risorsa e dove gli occhi ti guardano intensi con quel velo di tristezza che spesso si scioglie nello stupore, che non si vuol far vedere per orgoglio. Lì, fra quella gente è nato Luis, senza mai dimenticarlo, senza mai sentirsi diverso o distinto. Un ragazzino come tanti, più gracile e più piccolo della media del tempo e del credo assurdo che ne abbiamo oggi. Un bimbo con le gambette sottili, un corpo che s’annunciava comunque proporzionato, ed un volto spesso possessore di un sorriso strano, gentile e radioso, su una morfologia d’origine zigana. Un giovincello ispano, per lingua, neri capelli, tratti ed echi anagrafici. Mani in bocca ogni tanto, come a voler donare un’eco a quella tenerissima fanciullezza dove la cavità orale, è di noi tutti il contatto più sincero ed istintivo col mondo che ci si presenta e che si vive.
Un fringuello che non tardò a farsi notare quando ancora il pallone di stracci era un pomo di gioia, un segno del bisogno di vivere puri attraverso le crepe di quella povertà che sa insegnare tanto e che un giorno lontano duemiladieci anni fece dire ad un grande rivoluzionario quanto questo sia l’unico vero e sacro stile di vita.
Il piccolo Luis Cubilla divenne calciatore per l’abilità che spesso accompagna chi non ha la forza del fisico e continuò a crescere su quegli istmi e quegl’istinti, anche quando le folle cominciarono a gridare per lui. Aveva solo tredici anni quando il Payasandù lo concesse al Colon: una squadra già di rango perché giocasse coi più grandi non solo di corpo, ma d’età. Luis era già una stellina quando il leggendario Penarol lo acquistò per farlo giocare praticamente da subito nella massima divisione uruguagia, ma aveva solo diciassette anni. Eppure le sue finte, i suoi dribbling asfissianti, anche la sua non eccelsa velocità, già facevano impazzire i rudi terzini della Plata. A diciotto anni la stellina s’era trasformata in stella, un’attrazione, un riferimento del club e della sua gente, un’ossessione per chi lo doveva marcare e lui ripagò tutti, guidando il Penarol alla vittoria in Campionato. Un leader silenzioso e sorridente, furbo anche nei tackle, irridente quando, palla al piede, dopo aver fatto sedere i terzini, dettava l’ultimo, spesso decisivo, passaggio. Un folletto “testanera” che puliva la riga della fascia destra come fosse lo spazio sul quale far correre per brevi tratti il pallone, o far usare, come una scopa, i pantaloncini degli avversari, mentre lui s’allontanava per crossare o puntare dritto verso la porta. A quei tempi non c’era ancora la Coppa Libertadores, ed anche se dovette aspettare il 1960 per giocarsela, lui si “consolò” coi titoli uruguaiani. Certo, perché anche nel 1959 e ’60, la musica del Penarol, con Cubilla come stella, si fregiò dello scudetto. A vent’anni già tre campionati vinti e quella Coppa dei Campioni sudamericani, chiamata appunto Libertadores, finita nel suo palmares al primo colpo. Luis e il Penarol si ripeterono anche nel ’61, ma stavolta aggiunsero la prima edizione di quella che era allora un vero e proprio campionato mondiale per club: la Coppa Intercontinentale. Agli uruguagi s’inchinarono i portoghesi del Benefica, delle stelle Coruna e Simoes e di quella nascente di Eusebio.
La vittoria in quello che allora, più di oggi, era paradossalmente considerato il campionato mondiale di calcio per club, spinse la stella Cubilla verso l’Europa e, nel 1962, finì al Barcellona. La squadra catalana però, doveva fare i conti col grande Real Madrid e non aveva più nelle sue fila l’allenatore Helenio Herrera e il fuoriclasse Luisito Suarez. I due erano approdati all’Inter di Milano ed i bleugrana non erano una grandissima formazione.
Luis giocò bene, ma non poté far decollare una squadra ben più debole del suo vecchio Penarol. In più, pur essendo finito nella terra dei suoi avi, lui era troppo legato al suo continente, alla sua gente, al calore magari contraddittorio del Sudamerica.
“Non ho mai avuto molto in comune con l’europeo – eb-be a dire tanti anni dopo – la mia parentesi al Barcellona doveva essere per forza di cose di breve periodo e quei due anni furono ugualmente per me lunghissimi. Se non mi avesse acquistato il River Plate, sarebbe stato un colpo al cuore. Il Sudamerica calcistico potrà essere litigioso fra uno stato e l’altro, ma dappertutto si vede il calcio in maniera opposta all’Europa. In Uruguay, Argentina, Paraguay, Brasile, Cile e Perù il calcio è gioia. Sapersi forti di fronte al mondo, per noi è un’occasione di rivincita sul saccheggio che, da secoli, gli stati forti del mondo, svolgono sulle nostre terre”.
Luis Cubilla, comunque, anche in terra iberica, riuscì a lasciare il segno ed il suo Barcellona, nel 1963, vinse la Coppa del Re, un torneo a quei tempi non molto distante per valore a quello del campionato.
Nel 1964, avvenne, il suo tanto sperato ritorno in Sudamerica nelle file del River Plate, già allora club vittorioso, ma incapace, in quegli anni, di stare al passo col fortissimo Independiente e con quel Racing che, poi, di lì a poco, diverrà la prima squadra argentina a laurearsi campione mondiale. Il River degli anni di Cubilla era una squadra che dava spettacolo e nelle cui file per un paio d’anni, assieme all’uruguagio, militò colui che poi diverrà un suo grande amico, ed uno dei più grandi goleador di tutti i tempi: l’argentino Luis Artime. Buenos Aires divenne per un lustro la dimora e la città di Cubilla. Cinque anni tutti molto belli e significativi, ma non arrivò nessun titolo, anche perché la competitività e le difficoltà di quel campionato, negli anni sessanta, non aveva rivali a livello mondiale.
Nel 1969, quando tutti gli osservatori consideravano Luis, nel frattempo irrobustitosi non certo a livello muscolare, un giocatore logoro e al tramonto, avvenne il ritorno in patria, ma stavolta nelle file non del Penarol, bensì quelle degli acerrimi rivali del Nacional.
La grande ala destra uruguagia, nonostante una dozzina d’anni di vertice e di corse a perdifiato sulla sua fascia, c’era ancora. Nel nuovo club ritrovò l’amico Artime, ed insieme portarono il Nacional a divenire un club da collocarsi fra i primissimi del mondo. La crescita del sodalizio di Montevideo fu incredibile, da squadra che aveva lasciato ai rivali di sempre ogni dominio, si ricompose vincente, grazie alle prestazioni di giocatori considerati nella fase discendente non solo a livello anagrafico, e furono proprio questi a guidare i più giovani verso una striscia di vittorie che incisero fortemente la storia del calcio. Giocatori come Artime e Cubilla, dimenticati nella pomposa Europa che si avviava a scoprire la rivoluzione della grande Olanda, lanciarono dei nuovi echi e si testimoniarono con compiutezza nelle risultanze e nelle giocate dense di virtuosismi. Il Nacional vinse i campionati uruguagi nel 1969-’70-’71-’72 e, nel 1971, vinse la Libertadores, affossando tutte le squadre brasiliane infoltite di quei giocatori che avevano portato in terra verdeoro, a titolo definitivo, la Coppa Rimet. Sull’onda di quel successo, fece sua anche quella Coppa Intercontinentale che l’Ajax aveva lasciato giocare al Panatinaikos, finalista in Coppa Campioni, c’è chi dice per paura di far brutte figure rispetto al continente sudamericano. Il Nacional pareggiando in Grecia e vincendo a Montevideo, era dunque diventato Campione del Mondo. A trentun anni anagrafici, ma a tanti di più a livello calcistico, due lustri dopo il trionfo col Penarol, Luis Cubilla, ritornava sul tetto del calcio mondiale. Un anno prima, ai Mondiali messicani, con la non certo fortissima formazione celeste, assieme al leggendario portiere Ladislao Mazurkiewicz, aveva messo paura al Brasile in semifinale, segnando un gol dopo aver irriso la difesa verdeoro. Il rotondetto Cubilla c’era ancora, ed in quella partita se avesse potuto avere al suo fianco l’amico di club, ma argentino di nazionalità, Luis Artime, per Pelè e compagni lo spettro della sconfitta si sarebbe fatto concreto. Rivedendo i filmati di quella partita, con saracinesca “Mazurka” in porta, i colpi di testa del “gaucho giramondo” sui cross del Luis di Paysandú, avrebbero irriso le poche consistenze di gente come Brito e Piazza e le uscite paranoiche di Felix. È un volo di fantasia, per dire che a volte non bastano le stelle per vincere, se queste sono sbilanciate. L’Uruguay aveva il miglior portiere del mondo, ed una difesa molto forte, in grado di sopportare tanto delle star avanzate del Brasile, ma in attacco, oltre a Cubilla, non c’era nulla. Sarebbe bastato Artime, il più grande centravanti d’area di quei tempi al mondo, ed il Brasile non avrebbe giocato la finale della Coppa Rimet con l’Italia. Sono passati oltre quaranta anni, ma chi scrive, ne è ancora convinto. E dire che il miglior giocatore uruguagio di centrocampo, Pedro Rocha, non fu del match, come di tutto il mondiale.
Luis Cubilla, continuò a giocare fino al 1975 e partecipò anche ai mondiali di Germania. Qui, si dimostrò ancora capace di luminosità improvvise, anche se sembrava una piccola botticella. Anch’egli subì l’umiliazione di gioco contro la “grande Olanda”, ma fu l’unico, assieme a Pedro Rocha, in grado di mettere qualche piccola apprensione ai folletti orange. Fu una partita che segnò la fine di una generazione e l’inizio di un nuovo calcio, anche a livello di nazionali. Finì due a zero per gli olandesi, solo perché Mazurkiewicz era un portiere nato su Marte, ma il risultato ai punti poteva assorbire uno scarto di almeno otto gol. Finito il campionato col Nacional nel 1975, la grande ala destra di Paysandú, lasciò il calcio giocato per passare a quello di tecnico.
Anche qui, allenando qua e là in Sudamerica s’è distinto vincendo titoli nazionali, due coppe Libertadores, nel 1979 e nel 1990 con l’Olimpia di Asuncion. Con la medesima formazione paraguaiana, nel 1979, vinse anche la Coppa Intercontinentale. Insomma un uomo che nel calcio ha vinto tantissimo e che ha saputo toccare punte di qualità che sono possesso solo di chi ha sangue blu. Morì ad Asuncion il 3 marzo 2013.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Un altro pezzo bellissimo su un altro grande campione uscito da quello strano paese in cui calcisticamente penso che si respiri un'aria diversa, c'è qualcosa di speciale se da una nazione di meno di 4 milioni di abitanti (poco più della sola Buenos Aires, capitale della vicina Argentina) ha dato così tanto alla storia del calcio.

Campioni oggi poco reclamizzati, di un periodo in cui giocare in Europa non era fondamentale come oggi: a tal proposito mi hanno sempre fatto ridere le critiche anche ad un fuoriclasse come Pelé di non essere il più forte di sempre perché non si é mai confrontato con il calcio del Vecchio Continente.

Ti chiedo se hai qualcosa anche di un altro giocatore eccezionale, Elias Figueroa, che pur essendo cileno é legato all'Uruguay e al Penarol in particolare. Da appassionato di storia del calcio (anche più che del calcio attuale) é una figura che mi ha sempre affascinato.
 
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#3
Elias Figueroa, ovvero un predestinato ad una vita distorta fra handicap e povertà accecante che si elegge cigno del calcio, capace dalla difesa di scolpirsi statuario atleta di classe che non disdegna il gol per rendere numero due chi aveva avuto tutto: Franz Beckenbauer. Un monumento, Elias, che è passato troppo silenzioso per le penne del vecchio continente che stavan divenendo decadenti, ma con un romanzo di vita,ed un saper dipingere calcio,da farne una favola. Già, perché lo straordinario, oggi, nel gergo di un uomo sempre più freddo come quei numeri che ama sì tanto, diviene favola, intendendola unicamente come tentacolare bugia, sol perché non sa riconoscere l’arte e quei percorsi che non si possono tradurre con la matematica.
Ho scritto di questo grande cileno, che vide il suo primo luminoso proscenio nel Penarol di Montevideo, così come ho ritratto i suoi tre leggendari compagni in giallo nero, ovvero l’ecuadoregno, ma uruguauiano di fama e di gol, Alberto Spencer e gli uruguagi Pedro Rocha ed il personale idolo-arquero Ladislao Mazurkiewicz. Solo di quest’ultimo però, o di Julio Cesar Abbadia, giusto per citare un altro “celeste”, posso postare qualche spezzone. Magari fra qualche mese….li pubblicherò tutti.  
 
Ciao!
 
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#4
El Pardo Abbadie lo porto nel cuore, è stato protagonista di vari racconti da parte dei nonni genoani (che mi hanno trasmesso questa "malattia").

Momento toccante quella volta che venne invitato allo stadio nel 2004, con tutti i tifosi a tributargli un lunghissimo applauso.
 
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