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Storia / Inediti sulla vittoriosa spedizione azzurra a Melbourne '56.
#1
....Ieri ai funerali del Treno di Forlì, qualche vecchio corridore presente, mi ha chiesto di raccontare qualche passo della carriera degli amici Baldini e Pambianco. Uno lo voglio riportare qui.....

…dal mio libro “Arnaldo Pambianco, il campione e l’uomo” (2011- Gegraf Editore)

[Immagine: Pambianco-cop549.jpg]

.......Dopo l’appuntamento iridato, l’orizzonte azzurro di Proietti e dei suoi corridori, era atteso dalla data più importante: l’Olimpiade di Melbourne. Si trattava di un appuntamento che il calendario aveva reso anomalo e, di conseguenza, pieno di incognite. L’estate australiana, infatti, combaciava con l’inverno europeo e lo stesso trasferimento coi mezzi d’allora, non era certo una passeggiata. Andare agli antipodi a correre nel mese di dicembre, obbligava il ciclismo del vecchio continente, a modificare assai la normalità nell’avvicinamento e nella preparazione ad un simile evento. A ciò, andava ad aggiungersi la consapevolezza che i migliori corridori venivano da una stagione intensa e che non tutti erano in grado di prolungare l’attività di due mesi, o di fermarsi il giusto a riposare e poi ripartire con una preparazione forte, in grado di portare alla forma in poco tempo. Un cruccio che ovviamente animava anche Proietti, il quale però, aveva lasciato e, di conseguenza, preparato, il suo asso nella manica, con un avvicinamento totalmente diverso da quello di tutti gli altri. Un asso che si chiamava Ercole Baldini, nell’anno letteralmente esploso a rango mondale assoluto, ma su prove che non avevano niente a che vedere col macinare chilometri e chilometri per mesi e mesi su strada.
All'inizio del 1956, il forlivese aveva ultimato il servizio militare e Proietti si era assunto il compito di fargli esprimere compiutamente le grandi potenzialità, la sua magica e potente pedalata. Lo schierò neofita al Campionato Italiano dell’inseguimento, e questi lo vinse, al
cospetto di un Leandro Faggin, iridato nel 1954 e terzo nel ‘55. Nell’occasione, il ragazzone di Forlì, senza forzare nel finale, aveva sfiorato il record mondiale. Due mesi dopo, sul velodromo di Ordrup, a Copenaghen, Baldini e Faggin si rincontrarono nella finale iridata, ed ancora una volta il romagnolo si impose, divenendo così Campione del Mondo della specialità. Sempre più convinto di aver scoperto un fenomeno, Proietti preparò Ercole al Vigorelli di Milano, con l’intento di fargli abbattere il Record dell’Ora assoluto che, nel frattempo, il francese Jacques Anquetil aveva strappato al Campionissimo Fausto Coppi. Nell’avvicinamento al tentativo sull’ora, il ventitreenne forlivese fece suoi i Primati Mondiali sui 10 e 20 chilometri. Pochi giorni dopo, il 13 settembre, sul magico anello milanese, Ercole Baldini stabilì il più prestigioso dei Record, percorrendo nell’Ora 46,393 km. Era il primo, e ancora oggi l’unico, a stabilire una simile performance assoluta, ancor dilettante.
La prestazione pose il corridore sulla primaria ribalta internazionale e Proietti, nella non facile convivenza col collega Guido Costa, CT della pista azzurra. Costui, contava su Ercole in chiave olimpica, relativamente alla prova dell’inseguimento a squadre (allora nel programma dei Giochi, non era ancora presente la prova individuale). Proietti però, che aveva sempre seguito Baldini e che non voleva privarsi delle sue prestazioni anche su strada, trovò nel Record dell’Ora, che è sempre stato un test peculiare anche per stabilire certi valori sull’asfalto, la chiave di volta per tenersi il ragazzone forlivese con sé, anticipando che sarebbe stato l’uomo di punta per la prova olimpica su strada. In realtà, aldilà dell’apparente egoismo professionale del tecnico laziale, egli aveva veramente calcolato e programmato come concreta questa opportunità. In fondo, a differenza degli altri azzurri, Ercole sarebbe potuto arrivare più fresco e meno appesantito dallo stress di una lunga stagione, a quell’appuntamento che, per quanto importantissimo, nella collocazione di calendario sembrava un’appendice. In più, dalle notizie raccolte dai suoi collaboratori in Australia, il percorso di Melbourne, considerato comunque duro, si addiceva ugualmente ad un poderoso passista come Baldini. In questo quadro, Arnaldo Pambianco, divenne la più giovane e peculiare delle pedine. La conoscenza che Proietti aveva del bertinorese e le risposte sulle strade degli allenamenti collegiali che il ragazzo mostrò, posero Gabanì nelle condizioni di essere un ideale riferimento per la disegnata punta dello scacchiere azzurro per i Giochi Olimpici. Tanto più alla luce dell’amicizia e della contestuale ammirazione che Arnaldo provava verso Ercole. Il tecnico laziale, che la sapeva lunga come pochi, di annessi e connessi la vita di un atleta, sapeva che Pambianco, a dispetto dell’età, era uno di cui ci si poteva fidare ciecamente. Come d’altronde sapeva che il problema più difficile da risolvere, o col quale convivere, in Baldini, consisteva nella sua fame a tavola, al punto di stravolgere, se non si prestava attenzione, ogni regola della corretta alimentazione di un atleta. Il fenomeno, già  assunto a “Treno di Forlì”,aveva sì un motore infinito, ma non andava abusato. Così, si fece pian piano strada, nella vulcanica mente di Proietti, un ruolo tentacolare di Gabanì per quella Olimpiade: doveva essere peculiare in corsa nella eventualità di titolarità, ma prima, altrettanto decisivo, nello sfruttare amicizia e confidenza al fine di controllare Baldini nelle sue possibilissime disattenzioni alimentari. Ovviamente il giovane bertinorese, fu scelto come compagno di camera del forlivese.
 
I Giochi Olimpici dunque, partirono per Gabanì molto prima dello start, con un impegno che si sublimava su più versioni del ciclismo: da una parte il suo “se stesso atletico” che doveva conquistarsi la prova a cinque cerchi sulla strada, al posto dei compiti riservati alla riserva viaggiante e, dall’altra, il particolare controllo verso l’amico Ercole, che aveva ricevuto il nome più sincronico a quello che poi diventò, affinché questi non andasse oltre i limiti che si impongono agli atleti. Arnaldo, da parte sua, era al settimo cielo, per essere stato non solo il dilettante italiano primo nella classifica di rendimento nazionale della stagione conclusa, nonché per la possibilità di vivere il sogno fin lì più importante e luminoso della sua vita: partecipare alle Olimpiadi, guarda caso proprio nella fascinosa, perché ancor pochissimo conosciuta, grande isola australiana. In quel mondo che, appena saputa la notizia della convocazione di Gabanì, immediatamente fece fantasticare e parlare tutte le bocche del colle di Bertinoro, di cui tanti, sapevano appena l’esistenza. Inoltre, in Gabanì, insisteva la convinzione che l’innesto fra gli azzurri su strada di Baldini, che vedeva davvero come un “Treno”, potesse consentire all’Italia di fregiarsi di metallo pregiato, sia nella prova individuale, che in quella a squadre, allora basata sui piazzamenti dei primi tre singoli di ogni nazionale. Tutto era pronto per dare gambe al progetto azzurro verso Melbourne. Proietti, decise di anticipare la trasferta australiana di ben quaranta giorni rispetto alla gara, al fine di dare agli azzurri la possibilità di acclimatarsi a dovere e conoscere ogni punto, anche il più banale, del circuito olimpico. Furono convocati per la trasferta a cinque cerchi, i romagnoli Baldini e Pambianco, il ferrarese Dino Bruni, il trevigiano Aurelio Cestari e il pavese Pietro Chiodini. Uno di questi non avrebbe corso, ma svolto il ruolo di riserva.
 
Per raggiungere l’Australia la comitiva azzurra impiegò tre giorni e dopo quell’estenuante viaggio, ad aspettare i corridori, s’elevarono due novità non proprio gradevoli: il gran caldo e la cupidigia di Proietti nell’imporre allenamenti ipe-ripetuti sul circuito olimpico. La temperatura, che non poteva essere dribblata, avrebbe pesato diversamente se i percorsi del rodaggio e della rifinitura, fossero stati più vari: in fondo s’era in una terra nuova per tutti, con un’ambientazione che si muoveva, relativamente al circuito, su un percorso assolato ed una campagna arida, priva di occasioni d’ombra. In lontananza però, si scorgevano zone alberate, probabilmente selvagge, che stuzzicavano assai la volontà di osservare. Ma il ferreo CT, non ne voleva sapere di modificare il suo piano, di fronte alle comunque timide lamentele degli azzurri. Per quattro di loro, ovvero Pambianco, Cestari Chiodini e Bruni, quel trend monotono, s’aggravava dell’impegno suppletivo di dover convincere, con una progressiva condizione, il Proietti a schierarli. Costui, infatti, aveva da subito dichiarato che il sicuro titolare era il solo Baldini e la riserva sarebbe stata scelta fra di loro. L’incertezza, rese quegli allenamenti di una durezza incredibile, perché fra i quattro insisteva l’obbligo di dimostrare, ed in Ercole stesso, non poteva che sorgere l’esigenza di non dimostrarsi inferiore, per non mettere eventuali dubbi al CT.
Dopo quasi due settimane, a soccorrere i corridori nella stressante monotonia di quel trend, si animò un incontro che, in poco tempo, prese la forma, appunto, di un soccorso: ai margini della carreggiata della zona campana del circuito, giaceva una mucca morta. L’animale, rimase su quel punto per diversi giorni, senza che nessuno provvedesse a seppellire quel corpo che, in decomposizione, aumentava costantemente, tanto il suo volume, quanto quel fetore via via più asfissiante ed esteso. In altre parole, un’Australia allora totalmente diversa dal giardino che è oggi. L’aspetto, divenne così un motivo, visto che la mefite perdurava per centinaia di metri e rimaneva nel naso dei corridori, per trovare ben diversa forza nel chiedere al CT di cambiare percorso d’allenamento. In particolare, a spingere su quella richiesta, si distinse il ferrarese Bruni, ma il nocchiero azzurro, non ne volle sapere. La mattina dopo quel vano tentativo di convincimento, i cinque azzurri partirono per l’ennesimo allenamento consistente in almeno dieci tornate del circuito olimpico, come sempre senza l’auto di Proietti al seguito: il CT infatti, li raggiungeva sempre più avanti.
Dopo pochi minuti di pedalate, i corridori scorsero in lontananza un fumo che si elevava grigio ed altissimo. La posizione d’origine, sembrava proprio sorgere ai margini della carreggiata del circuito. Immediatamente sorse in loro la speranza che fosse un “qualcosa” in grado di costringere il Proietti a cambiare, almeno un poco, quel trend. Invece, quando s’avvicinarono al punto che originava quel fumo, capirono tutto: qualcuno aveva dato fuoco alla mucca morta da giorni e quel qualcuno era proprio il Commissario Tecnico Proietti, che li guardava gongolante!
 
La fase di avvicinamento alla corsa valevole per le due Medaglie d’Oro in palio, trovò dopo una settimana dall’ennesima “prova di forza” del CT e nella più piena costanza di quei ripetutissimi andamenti, un fatto che, nelle sue opposte punte emozionali, apparve come un segno di rottura di quelle quotidianità. Durante l’avvicinamento a quella che doveva essere la zona del traguardo, gli azzurri passarono di fronte ad una abitazione che, quel giorno, era presieduta da un paio di cani. Entrambi inseguirono i corridori, ed uno di questi azzannò il polpaccio destro di Chiodini, provocandogli una vistosa ferita. Per il pavese, l’Olimpiade finì lì, ma non quella sua permanenza in Australia che riuscì a coprire un ruolo che, nei giorni successivi, ebbe un peso importante nell’equilibro psicofisico dei colleghi. La costretta defezione dell’azzurro, pavese d’origine e reggiano di residenza, provocò in lui quella forte e comprensibile delusione che, di converso, rasserenò gli allenamenti degli altri, pur nella loro  monotona morfologia. Ma ci fu anche dell’altro. Chiodini ammazzò la delusone potendo mangiare senza l’assillo di dover stare alle regole e, da bravo componente la squadra azzurra e relativo spirito di gruppo, mentre il suo peso si evolveva all’insù, iniziò a prendersi ad ogni pasto qualche frutto di “scorta”, che poi andava a riporre, nascosto alla visione di chiunque, sopra l’armadio della sua camera adiacente l’infermeria. Inutile dire che andare a trovare Chodini, divenne per gli altri quattro, certo un modo per far compagnia allo sfortunato compagno, ma pure per rifocillarsi... E lì, Proietti non riuscì a scoprire la tresca!

Gli episodi buffi o tremendi delle giornate di avvicinamento all’Olimpiade però, non erano ancora finiti. Una mattina, il “torpedone italiano”, in pieno allenamento, si trovò a superare un tipo asiatico per fisionomia, che pedalava con una bicicletta rudimentale provvista di cestello. Costui, forse per divertimento, per prova, o per sfida, si agganciò al quartetto azzurro e non si staccò. Anzi. Quel “cinesino”, come lo chiamavano i quattro corridori, era un piccolo fenomeno, uno dei tanti sparsi per il mondo di cui la storia ciclistica mai ha voluto o potuto raccogliere pagine, riusciva a restare con gli azzurri anche quando Proietti, dall’auto, urlava di staccarlo e ridondava il tutto con coloriti aggettivi verso i propri corridori. Il cinesino rimaneva lì, ed a nulla servivano le progressioni dei quattro. Per staccarlo, sarebbero serviti degli scatti, probabilmente, ma la realtà era quella: con le progressioni e per un giro, fino a quando nella giornata del cinesino non c’era scritto di fermarsi presso un rudimentale negozio, lui restava un componente aggiunto della Nazionale Italiana!. Quel segmento d’incontro, si consumò per circa una settimana, ininterrottamente, rendendo quel giro una sofferenza per gli italiani reali, soprattutto per lo spirito così facile al lamento del buon Bruni. Poi, un giorno, quando i quattro azzurri incontrarono il solito punto di incontro col “cinesino”, di costui non vi fu traccia. Verso la fine dell’allenamento, mentre i corridori passavano di fronte ad una specie di anfiteatro videro su quei vuoti gradoni, il tipetto asiatico che li salutava a piene braccia. Bruni tirò un sospiro di sollievo.

E venne finalmente il sette dicembre, giorno dell’Olimpiade. Forse per festeggiare l’evento, il sole ed il caldo, si strinsero a braccetto come non mai. Per gli ottantotto concorrenti al via, che rappresentavano ventotto nazioni, s’annunciava così un motivo ulteriore per rendere
ancor più aspro l’impegnativo circuito di diciassette chilometri, da percorrere undici volte, per un totale di 187 chilometri. Gli azzurri erano attesi dai favori del pronostico, al pari di belgi e francesi, ma le condizioni ambientali così particolari, spinsero ancor più Proietti, verso il suo pesante piano, affinché le sorprese si riducessero al minimo. In sostanza, il vulcanico Commissario Tecnico chiese ai suoi ragazzi di imporre alla corsa un ritmo duro per portare in riserva il motore di molti nella seconda metà di gara, dove nel finale doveva entrare in scena Ercole Baldini, il predestinato capitano.
La corsa si mosse subito ad andatura di nota, ravvivata per diverse tornate da tentativi di corridori di secondo piano, con gli azzurri molto vigili a non fare entrare quelle sortite nel novero delle fughe importanti. Dopo settanta chilometri circa, quando il ritmo si era improvvisamente abbassato, aumentando, di conseguenza, il rischio di veder modificata la corsa che aveva in testa Proietti, proprio Arnaldo Pambianco, l’atleta che nei piani del Commissario Tecnico doveva fungere da asfissia dei più temibili avversari azzurri, entrò in scena, allungando decisamente.
Un tentativo, quello solitario di Gabanì, che, in effetti, mise alla frusta belgi e francesi e nei suoi quaranta chilometri di solitudine, il gruppo si dimezzò. La squadra belga in particolare si sciolse, al punto di uscire interamente dalle posizioni utili per emergere nella gara (il primo belga, alla fine, giungerà 23° a quasi sei minuti!). Tra l’altro, Arnaldo, che nel corso della sua azione raggiunse un vantaggio massimo di 1’30”, non fu ripreso, ma fu lui a rialzarsi, per tenere in serbo quel minimo di energie sufficienti a rendersi ancora utile a difendere la riuscita dell’attacco di Baldini e guadagnarsi allo sprint, una posizione che potesse portare fieno alla classifica a squadre. E quando, a poco più di due tornate dal termine, il “Treno d Forlì” si involò in un grandioso assolo vincente, Gabanì si distribuì sulle ruote degli inseguitori a rompere i cambi nella difesa dell’amico che stava andando verso l’Oro. Si vissero due spettacoli stupendi: davanti il Primatista dell’Ora, con la sua potente e magica pedalata, a segnare un altro traguardo di storia e, dietro, Pambianco a far imprecare in babilonese gli inseguitori.
Ercole Baldini come da piano perfettamente riuscito di Proietti, andò a vincere quell’Olimpiade che, nella prova su strada, in azzurro mancava da 24 anni, mentre lo stoico Gabanì, riuscì a trovare la forza, nel convulso finale, per fare una volata che gli valse il settimo posto, posizione che se la classifica a squadre fosse stata determinata sulla base dei primi due atleti di ogni nazione, sarebbe valsa all’Italia un’altra Medaglia d’Oro. Purtroppo, il terzo italiano, Dino Bruni, giunse troppo lontano, 28°, e ciò valse agli azzurri solo la “medaglia di legno”, dietro Francia, Gran Bretagna e Germania.
[Immagine: figura-2.jpeg]
Mentre Baldini saliva sul gradino più alto del podio e gli emigranti italiani intonarono quell’Inno di Mameli il cui disco l’organizzazione non riusciva a trovare, lo spossato Gabanì, visse due sentimenti contrastanti: da una parte la grande gioia per la vittoria colta dall’amico e dall’altra la delusione, per non aver colto quella medaglia a squadre, anche di metallo meno pregiato, che ad un certo punto sembrava non potesse sfuggire all’Italia. Lo avvicinò il Presidente del Coni Giulio Onesti che lo abbracciò e gli disse: “Se stato fantastico! Metà medaglia d’oro è moralmente tua, ma non potendotela assegnare, in qualche modo il Coni ti sarà riconoscente”.
 
Maurizio Ricci (Morris)
 
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