19-01-2022, 11:22 AM
Sport: sul viale dei Graffiti.
Si parte dalla passione
da quel richiamo che volge un universo
da un bisogno che non si respinge.
Si giunge ad una forma espressiva
dove il corpo appare più della guida mente
ma è un solo insieme.
Cos’è un condensato d’emozioni
cosa sono le gestualità
cos’è che muove un’azione.
Lo sport non è volgarità
non è modo per far parlare chi non pensa
è un quadro dell’interno nostro.
È scultura su un noi nascosto
è pittura del lontano che si tocca
sa essere poesia agli occhi di chi vede.
È arte che piove intensamente
ed è pure scienza per scoprire
è l’umiltà di interpretare.
Un segmento serio e luminoso della vita
vissuto sovente sempliciotto
dalle nostre immani imperfezioni.
Morris
Se il titolo di un libro è il summa riassuntivo di ciò che si vuol dire o raccontare, può essere inutile ogni tipo di introduzione. Certo, resta quella punta di vago o di enigmatico o di ermetico che ogni tentativo di concisione non elimina, ma è indubbio che una traccia forte la si lasci. Ecco allora che l’introduzione diviene sovente un modo per mettere il lettore nella condizione di apprezzare meglio i contenuti che sta per leggere. In altre occasioni il testo introduttivo serve per spiegare le fonti ed i fattori propulsivi che hanno spinto l’autore alla pubblicazione. In questo caso però, è doverosa l’evidenziazione di una filosofia che anima la vita di chi scrive: lo sport non solo come passione giunta al narratore praticamente all’atto di nascita, ma una tangibile e determinabile espressione di un tassello del caleidoscopico mosaico dell’arte. Ed in questo quadro si muovono gli atleti-artisti, che sono uomini con le loro storie di vita, le loro passioni, le inclinazioni e le imperfezioni di tutti. Protagonisti di una zolla artistica dimenticata, o non convenuta al pranzo imbandito e spesso saccente di chi s’è posto su un piedistallo che ha omesso il pensiero e la ricerca di quella verità, che è sì un miraggio in termini conclusivi o matematici, ma una dirompente fune di crescita nella conoscenza dell’uomo e del rapporto col suo intorno.
Bastano dunque queste poche righe, per far capire quanto la filosofia di chi scrive, si collochi in quella nicchia che, come tutte, possiede l’orgoglio della profonda convinzione, al punto di spingere ogni suo alfiere a dibattere in ogni contesto il proprio paradigma.
In un’era supertecnologica, chiedersi cosa sia l’arte, è come porsi la domanda di cosa sia il cielo, l’universo, o semplicemente la vita. E l’uomo, che ha disquisito negli ultimi due secoli sulle ali della fredda concezione matematica delle cose, partorendo un progresso spesso fine a se stesso, perché mai nemmeno sfiorato da una uguale crescita interiore, si perde nell’impotenza della grandezza del quesito e si rifugia, ancora una volta, nella razionalità della sua miopia. Ne conseguono ristrettezze, delimitazioni, aree che si vogliono in tutte le maniere recintare, magari richiamando il pragmatismo, ed un riassunto che prende nell’estetica, il pegno maggiore per mettere quel punto di cui sempre ha bisogno. Poco importa sapere (per chi si pone questa ragione della conoscenza), di possedere un cervello sviluppato per un ottavo del potenziale, al punto di spingere scienziati australiani a mapparlo, e, tanto meno, viene considerato come foriero d’interrogativi, un eventuale sconfinamento dell’azione umana oltre il parametro del conosciuto. Ogni fenomeno, o lettura, o considerazione, al di fiori della patacca del solito, viene dipinta e respinta con mezzi oggi ben più efficaci del passato, come un segno di oscurità sinistra, oppure come una banalità da deridere, o schernire, o da vendere come velleitaria, oppure come uno strumento di business. Da questo gioco che sfugge, perché pensare, sognare, operare senza aver sotto qualcosa di palpabile, soprattutto denaro o tornaconto, fa male, si perdono gran parte delle occasioni per recepire messaggi, idiomi, significativi enigmi, pronti a forgiarci nuove dimensioni ed una spiritualità maggiore.
Ecco dunque che la definizione di quell’enorme caleidoscopio interno l’uomo che è l’arte, viene ridotta a briciola, rispetto a ciò che potrebbe o dovrebbe essere.
Ecco allora che taluni intellettuali (da considerarsi tali, al più, solo per titolo didattico), eletti a critici di mestiere per interiorità enormemente più piccole degli artisti, partono per seminare altri steccati, porre barricate perfide, vendersi alla produzione di farse passate per valenze, con lo scopo della solita logica “tornacontista”.
È arte ogni forma espressiva che si basa sull’istinto, che cancella una parte del razionale o ne innalza le facce meno determinabili. È una fonte comunicativa di testimonianze di pensieri e valori che, da temporali, divengono eterni. È un linguaggio che si può slegare dalla cultura di chi la esprime, che si evidenzia ermetico per istintiva scelta dell’artista. È il totem interno che esce per donarsi agli altri, o agli stessi sdoppiamenti nebulosi del nostro io. L’arte convive in ognuno, attraverso il contatto diretto con chi la esprime e come possesso pulsante a vari livelli nel nostro interno. Siamo noi stessi critici, condensando in questo, un diritto al giudizio e alla considerazione, al messaggio, all’indicazione dei poli diffusi che aprono il nostro mondo interiore a stabilire tanto l’emozionalità, l’intensità, la sensibilità del gesto e della traiettoria artistica, quanto la sua disamina di svolgimento. L’arte non si definisce con la certezza della matematica: usare l’epigone della concezione numerica significa offenderla, ucciderla ancor prima di determinarne collocazione. Al matematico sarà sempre difficile da comprendere, vista la miopia che nasce con lui dal momento in cui fa dell’esattezza del suo piccolo universo un credo su cui misurare la vita. E nemmeno lo può svegliare la lettura che l’uomo s’è dato, nonostante tutto, nel non definire l’arte con una dimensione diretta all’interno di una cornice. Ne sono prove le numerose scienze che abbozzano a studiarla: dalla psicologia, all’es-tetica, dalla sociologia alla stessa storia dell’arte, dall’antropologia, alle scienze della comunicazione.
Ma dove si orienta o si dipana l’atto artistico?
Su tutto ciò che esiste nell’intorno e nei contorni, nei profondi emozionali, nelle sensibilità del mosaico del nostro segmento d’esistenza, nella proiezione del sogno che si traduce in qualcosa di più concreto che libera ulteriori sogni e significati. Si farebbe prima a dire dappertutto.
Il creativo non ha terreni, è. E dove non è immediato ci sono altri che lo riprendono assiomaticamente con altri idiomi, perché essi stessi genesi di altra arte, tanto nelle vesti critiche, quanto in quelle diretta-mente artistiche.
Non esistono stereotipi o “topos” definibili e ristetti sulla figura del creativo, ovvero di quel tipo, o quella somma di tipi che generano dal niente del percepibile o dall’esistente nascosto ai più, dalle fonti del-le sensazioni e delle emozioni. Ricondurre questo insieme poliforme alla sola estetica, significa prenderne uno spicchio, spesso il più limitato, sicuramente il più miope, perché fortemente intinto di matematica e razionalità, esattamente i terreni più lontani, o nemici dell’arte. L’artista non crea quel frutto sgorgante dai lati oscuri e misteriosi della sua mente, per generare il definito bello e il tornaconto, lo fa per esprimere prima di tutto se stesso, nelle forme che gli vengono dall’istinto, dall’intuito, ovvero le vie che portano all’intelligenza nella massima espressione possibile. La traduzione viene dopo, spesso gliela danno altri, ed altrettanto spesso lo fanno con quella mente matematica sì tanto-troppo esistente oggi, che sa leggere solo la faccia del vantaggio e degli obiettivi, ma c’è anche chi aggiunge arte all’arte di genesi.
Cosa serve per creare?
Un pennello, uno scalpello, un martello sono solo tre degli innumerevoli strumenti. A volte basta il corpo, lo sguardo, un segno, un pezzo di carta ed una penna, un gesto ecc. In altre parole troppo, per definire artisti solo coloro che usano il tradizionale consumato, narrato o venduto, sull’immaginario collettivo.
Lo sport è una forma di comunicazione, una forma espressiva, un messaggio e come tale entra di diritto come tassello dell’oceano artistico, in tutte le sue forme, perché anche là dove serve abilità fisica e mentale, si entra nella sfera di un’epigone dell’arte. Il traguardo, l’asticella, l’attrezzo, sono spesso segni convenzionali di determinazione, in parte più oggettivi, per una classificazione dell’arte trasmessa, ma anche quando insistono parametri più esclusivi di legame gemello ad una graduatoria, rimangono e permangono aspetti o segmenti non baciati da primaria risultanza, che lasciano ugualmente gli aloni, gli echi e gli istmi dell’arte. Sta a chi osserva, ad altri artisti, a quei critici che, di diritto, sono tutti, capire l’intensità, le consistenze e gli idiomi di questi passaggi sfuggiti alla stragrande maggioranza di chi si lascia addurre dal miope pensiero matematico.
Ecco dunque come sia giusto, possibile e legittimo definire artista evidente uno che ha vinto meno o poco, ma ugualmente capace di intingere gli sguardi e il percorso dei tratti altrui come un fuoco, una luce, un’ermeneutica.
Spesso, lo sportivo nel gesto in successione della sua attività porta apparente ripetitività, ma lascia sfumature, ed è proprio lì che dobbiamo far leva per capire che tutte fan parte di una copia unica, da riprendere se ha creato emozione, per rigenerare arte sulla creazione originaria. E come tutti gli artisti su cui insiste convinzione orizzontale, l’atleta-artista supremo, è di cristallo: puoi pungerlo con un aculeo, ma non lo scalfisci, non lo scomponi; puoi imprimere su di lui una gran forza, ma non lo spezzi quasi mai, ma se lo fai cadere o lo urti nel momento in cui s’esprime nell’essenza, lo distruggi in mille particelle che ne provocano la morte dell’interezza, ed anche se poi gli disponi tutto il collante possibile e le invenzioni più marcate, non sarà mai più lui.
D’accordo, dirà qualcuno, ma come si giustificano in una simile comparazione, esempi come “il traguardo tagliato per primo”, o, ancor più, il gesto innocuo e normale della “corsa a piedi”?
I due aspetti, a ben vedere, si fondono senza scalfire differenziazioni fra lo sport podistico e il mondo artistico. Prendiamo il maratoneta. Egli trasmette al corpo una leggerezza che è l’innalzamento di un insieme di istinti, che si dischiudono su un passo della corsa più redditizio, più bello, più armonioso. In quelle peculiarità, su aree di linguaggio diverse, ci stanno i corrispettivi delle tonalità del colore, del tratto, dei messaggi celati di un pittore. Su quei percorsi, sia il maratoneta che il pittore, sono artisti che si confrontano con altri e possono risultare più o meno bravi. La differenza, la si tocca solo nella lettura dei giudizi, che trovano nel traguardo del maratoneta, un parametro più oggettivo, ma anche lì restano margini per le soggettività. Non a caso, il sottoscritto, che nello sport non fa degli albi d’oro un credo esclusivo, giudica il belga Karel Lismont, uno dei più grandi in assoluto, anche se nel suo palmares, non è presente nessun oro olimpico, ma un solo titolo europeo.
Ma andiamo a scavare ancora.
Il pittore nella ricerca della tonalità del colore ha una meta. Il poeta che smonta e rimonta i versi cercando la soddisfazione ideale, vive questa come una linea liberatoria per dire che ha determinato al meglio il suo messaggio. Lo scultore nell’uso degli scalpelli ed altri strumenti, cerca la piega e la smorfia che vuole per irradiare di luminosità, un attimo che riassume un’essenza. Il maratoneta si diversifica per l’oggettività che il traguardo determina, ma eredita un valore anche in un piazzamento, nonché, continuamente, la trasmissione sull’osservatorio di uno stile e di un distinguo nel suo vivere e prepararsi agli eventi. Trattasi quindi di traguardi per tutti e non vale il discorso di un progetto a monte, perché in ogni tassello del pianeta dell’arte c’è, quindi anche nella maratona, come c’è il riconoscimento in danaro, anche se a vari livelli.
Ed i fattori di abilità che sono essi stessi una componente del mondo artistico, si ritrovano anche nella “corsa a piedi”. Nella maratona, il campione o meno vince o si piazza, ma trionfa sempre con se stesso, portando al traguardo un corpo che in quei 42 chilometri, ha fatto l’amore con la mente, tracciando, nello sforzo, un veloce ed intenso riassunto di ciò che è la vita. Correre di potenza pensando alla gara e poggiando troppe fibre sul terreno affloscia, perché s’entra prima nello stress e quando serve armonia s’eredita tosse. Come nel tratto d’esistenza, è la naturalità a pagare quasi sempre, dandoci esempio delle facoltà che possediamo e del bisogno di farne buon uso. Nel maratoneta, tutto questo si riassume, come detto, nella leggerezza della corsa. Riuscirci non è facile, perché bisogna risparmiare su ogni fronte, soprattutto sui centri nervosi e quando lo sforzo si fa intenso, perché s’intinge d’acido lattico, se si è consumato più del massimo traducibile in un ideale equilibrio, il rischio più palpabile è quello di fermarsi. Il segreto sta dunque nel trasmettere alle gambe la sensazione d’essere piuma, riposando la mente fino a “dormire” (è il verbo che usava Gelindo Bordin), col pilota automatico inserito nella ripetitività di una posizione di corsa, in cui gli stessi centri nervosi si riposano. Il compasso, a quel punto, deve accorciarsi di un tantino per raccogliersi in un metaforico letto, ed è determinante per abbassare ulteriormente i rischi di un risveglio precoce. In questo status, si devono consumare circa dieci chilometri, generalmente nel tratto che sta fra il 23esimo al 33esimo. Un passaggio che è fondamentale svolgerlo al meglio e per riuscirci servono facoltà che il solo allenamento non genera. In quel frangente l’uomo-atleta libera il suo messaggio, il suo caleidoscopio artistico ed impercettibile, ma esistente e palpabile se lo si guarda con l’attenzione migliore e se si ascoltano, più volte, le sue dichiarazioni. Ho detto, più volte, perché il campione, l’artista, è un uomo che, come tanti, non sa tradurre a voce quello che prova. Anzi, sovente, riassume la morfologia del suo gesto molto schematicamente, proprio perché è vinto nella bellezza di quell’istinto che azzera le spiegazioni nell’automaticità. Se nella maratona sbagli qualcosa, non ti sai leggere con suprema perfezione, i tuoi istinti sono sopraffatti dalla foga dettata da centri nervosi appannati e fai la fine di grandi campioni come Paula Radcliffe e Paul Tergat in occasione delle Olimpiadi di Atene.
E che dire, infine, quando il traguardo è dato da un atleta di uno sport di concorso, come ad esempio nella ginnastica artistica? Le figure disegnate in volo o sull’attrezzo, in che cosa si distinguono da una scultura, o una pittura?
Arte dunque. Dimenticata o sottostimata, ma arte, sempre.
Maurizio Ricci detto Morris
Si parte dalla passione
da quel richiamo che volge un universo
da un bisogno che non si respinge.
Si giunge ad una forma espressiva
dove il corpo appare più della guida mente
ma è un solo insieme.
Cos’è un condensato d’emozioni
cosa sono le gestualità
cos’è che muove un’azione.
Lo sport non è volgarità
non è modo per far parlare chi non pensa
è un quadro dell’interno nostro.
È scultura su un noi nascosto
è pittura del lontano che si tocca
sa essere poesia agli occhi di chi vede.
È arte che piove intensamente
ed è pure scienza per scoprire
è l’umiltà di interpretare.
Un segmento serio e luminoso della vita
vissuto sovente sempliciotto
dalle nostre immani imperfezioni.
Morris
Prefazione
Se il titolo di un libro è il summa riassuntivo di ciò che si vuol dire o raccontare, può essere inutile ogni tipo di introduzione. Certo, resta quella punta di vago o di enigmatico o di ermetico che ogni tentativo di concisione non elimina, ma è indubbio che una traccia forte la si lasci. Ecco allora che l’introduzione diviene sovente un modo per mettere il lettore nella condizione di apprezzare meglio i contenuti che sta per leggere. In altre occasioni il testo introduttivo serve per spiegare le fonti ed i fattori propulsivi che hanno spinto l’autore alla pubblicazione. In questo caso però, è doverosa l’evidenziazione di una filosofia che anima la vita di chi scrive: lo sport non solo come passione giunta al narratore praticamente all’atto di nascita, ma una tangibile e determinabile espressione di un tassello del caleidoscopico mosaico dell’arte. Ed in questo quadro si muovono gli atleti-artisti, che sono uomini con le loro storie di vita, le loro passioni, le inclinazioni e le imperfezioni di tutti. Protagonisti di una zolla artistica dimenticata, o non convenuta al pranzo imbandito e spesso saccente di chi s’è posto su un piedistallo che ha omesso il pensiero e la ricerca di quella verità, che è sì un miraggio in termini conclusivi o matematici, ma una dirompente fune di crescita nella conoscenza dell’uomo e del rapporto col suo intorno.
Bastano dunque queste poche righe, per far capire quanto la filosofia di chi scrive, si collochi in quella nicchia che, come tutte, possiede l’orgoglio della profonda convinzione, al punto di spingere ogni suo alfiere a dibattere in ogni contesto il proprio paradigma.
In un’era supertecnologica, chiedersi cosa sia l’arte, è come porsi la domanda di cosa sia il cielo, l’universo, o semplicemente la vita. E l’uomo, che ha disquisito negli ultimi due secoli sulle ali della fredda concezione matematica delle cose, partorendo un progresso spesso fine a se stesso, perché mai nemmeno sfiorato da una uguale crescita interiore, si perde nell’impotenza della grandezza del quesito e si rifugia, ancora una volta, nella razionalità della sua miopia. Ne conseguono ristrettezze, delimitazioni, aree che si vogliono in tutte le maniere recintare, magari richiamando il pragmatismo, ed un riassunto che prende nell’estetica, il pegno maggiore per mettere quel punto di cui sempre ha bisogno. Poco importa sapere (per chi si pone questa ragione della conoscenza), di possedere un cervello sviluppato per un ottavo del potenziale, al punto di spingere scienziati australiani a mapparlo, e, tanto meno, viene considerato come foriero d’interrogativi, un eventuale sconfinamento dell’azione umana oltre il parametro del conosciuto. Ogni fenomeno, o lettura, o considerazione, al di fiori della patacca del solito, viene dipinta e respinta con mezzi oggi ben più efficaci del passato, come un segno di oscurità sinistra, oppure come una banalità da deridere, o schernire, o da vendere come velleitaria, oppure come uno strumento di business. Da questo gioco che sfugge, perché pensare, sognare, operare senza aver sotto qualcosa di palpabile, soprattutto denaro o tornaconto, fa male, si perdono gran parte delle occasioni per recepire messaggi, idiomi, significativi enigmi, pronti a forgiarci nuove dimensioni ed una spiritualità maggiore.
Ecco dunque che la definizione di quell’enorme caleidoscopio interno l’uomo che è l’arte, viene ridotta a briciola, rispetto a ciò che potrebbe o dovrebbe essere.
Ecco allora che taluni intellettuali (da considerarsi tali, al più, solo per titolo didattico), eletti a critici di mestiere per interiorità enormemente più piccole degli artisti, partono per seminare altri steccati, porre barricate perfide, vendersi alla produzione di farse passate per valenze, con lo scopo della solita logica “tornacontista”.
È arte ogni forma espressiva che si basa sull’istinto, che cancella una parte del razionale o ne innalza le facce meno determinabili. È una fonte comunicativa di testimonianze di pensieri e valori che, da temporali, divengono eterni. È un linguaggio che si può slegare dalla cultura di chi la esprime, che si evidenzia ermetico per istintiva scelta dell’artista. È il totem interno che esce per donarsi agli altri, o agli stessi sdoppiamenti nebulosi del nostro io. L’arte convive in ognuno, attraverso il contatto diretto con chi la esprime e come possesso pulsante a vari livelli nel nostro interno. Siamo noi stessi critici, condensando in questo, un diritto al giudizio e alla considerazione, al messaggio, all’indicazione dei poli diffusi che aprono il nostro mondo interiore a stabilire tanto l’emozionalità, l’intensità, la sensibilità del gesto e della traiettoria artistica, quanto la sua disamina di svolgimento. L’arte non si definisce con la certezza della matematica: usare l’epigone della concezione numerica significa offenderla, ucciderla ancor prima di determinarne collocazione. Al matematico sarà sempre difficile da comprendere, vista la miopia che nasce con lui dal momento in cui fa dell’esattezza del suo piccolo universo un credo su cui misurare la vita. E nemmeno lo può svegliare la lettura che l’uomo s’è dato, nonostante tutto, nel non definire l’arte con una dimensione diretta all’interno di una cornice. Ne sono prove le numerose scienze che abbozzano a studiarla: dalla psicologia, all’es-tetica, dalla sociologia alla stessa storia dell’arte, dall’antropologia, alle scienze della comunicazione.
Ma dove si orienta o si dipana l’atto artistico?
Su tutto ciò che esiste nell’intorno e nei contorni, nei profondi emozionali, nelle sensibilità del mosaico del nostro segmento d’esistenza, nella proiezione del sogno che si traduce in qualcosa di più concreto che libera ulteriori sogni e significati. Si farebbe prima a dire dappertutto.
Il creativo non ha terreni, è. E dove non è immediato ci sono altri che lo riprendono assiomaticamente con altri idiomi, perché essi stessi genesi di altra arte, tanto nelle vesti critiche, quanto in quelle diretta-mente artistiche.
Non esistono stereotipi o “topos” definibili e ristetti sulla figura del creativo, ovvero di quel tipo, o quella somma di tipi che generano dal niente del percepibile o dall’esistente nascosto ai più, dalle fonti del-le sensazioni e delle emozioni. Ricondurre questo insieme poliforme alla sola estetica, significa prenderne uno spicchio, spesso il più limitato, sicuramente il più miope, perché fortemente intinto di matematica e razionalità, esattamente i terreni più lontani, o nemici dell’arte. L’artista non crea quel frutto sgorgante dai lati oscuri e misteriosi della sua mente, per generare il definito bello e il tornaconto, lo fa per esprimere prima di tutto se stesso, nelle forme che gli vengono dall’istinto, dall’intuito, ovvero le vie che portano all’intelligenza nella massima espressione possibile. La traduzione viene dopo, spesso gliela danno altri, ed altrettanto spesso lo fanno con quella mente matematica sì tanto-troppo esistente oggi, che sa leggere solo la faccia del vantaggio e degli obiettivi, ma c’è anche chi aggiunge arte all’arte di genesi.
Cosa serve per creare?
Un pennello, uno scalpello, un martello sono solo tre degli innumerevoli strumenti. A volte basta il corpo, lo sguardo, un segno, un pezzo di carta ed una penna, un gesto ecc. In altre parole troppo, per definire artisti solo coloro che usano il tradizionale consumato, narrato o venduto, sull’immaginario collettivo.
Lo sport è una forma di comunicazione, una forma espressiva, un messaggio e come tale entra di diritto come tassello dell’oceano artistico, in tutte le sue forme, perché anche là dove serve abilità fisica e mentale, si entra nella sfera di un’epigone dell’arte. Il traguardo, l’asticella, l’attrezzo, sono spesso segni convenzionali di determinazione, in parte più oggettivi, per una classificazione dell’arte trasmessa, ma anche quando insistono parametri più esclusivi di legame gemello ad una graduatoria, rimangono e permangono aspetti o segmenti non baciati da primaria risultanza, che lasciano ugualmente gli aloni, gli echi e gli istmi dell’arte. Sta a chi osserva, ad altri artisti, a quei critici che, di diritto, sono tutti, capire l’intensità, le consistenze e gli idiomi di questi passaggi sfuggiti alla stragrande maggioranza di chi si lascia addurre dal miope pensiero matematico.
Ecco dunque come sia giusto, possibile e legittimo definire artista evidente uno che ha vinto meno o poco, ma ugualmente capace di intingere gli sguardi e il percorso dei tratti altrui come un fuoco, una luce, un’ermeneutica.
Spesso, lo sportivo nel gesto in successione della sua attività porta apparente ripetitività, ma lascia sfumature, ed è proprio lì che dobbiamo far leva per capire che tutte fan parte di una copia unica, da riprendere se ha creato emozione, per rigenerare arte sulla creazione originaria. E come tutti gli artisti su cui insiste convinzione orizzontale, l’atleta-artista supremo, è di cristallo: puoi pungerlo con un aculeo, ma non lo scalfisci, non lo scomponi; puoi imprimere su di lui una gran forza, ma non lo spezzi quasi mai, ma se lo fai cadere o lo urti nel momento in cui s’esprime nell’essenza, lo distruggi in mille particelle che ne provocano la morte dell’interezza, ed anche se poi gli disponi tutto il collante possibile e le invenzioni più marcate, non sarà mai più lui.
D’accordo, dirà qualcuno, ma come si giustificano in una simile comparazione, esempi come “il traguardo tagliato per primo”, o, ancor più, il gesto innocuo e normale della “corsa a piedi”?
I due aspetti, a ben vedere, si fondono senza scalfire differenziazioni fra lo sport podistico e il mondo artistico. Prendiamo il maratoneta. Egli trasmette al corpo una leggerezza che è l’innalzamento di un insieme di istinti, che si dischiudono su un passo della corsa più redditizio, più bello, più armonioso. In quelle peculiarità, su aree di linguaggio diverse, ci stanno i corrispettivi delle tonalità del colore, del tratto, dei messaggi celati di un pittore. Su quei percorsi, sia il maratoneta che il pittore, sono artisti che si confrontano con altri e possono risultare più o meno bravi. La differenza, la si tocca solo nella lettura dei giudizi, che trovano nel traguardo del maratoneta, un parametro più oggettivo, ma anche lì restano margini per le soggettività. Non a caso, il sottoscritto, che nello sport non fa degli albi d’oro un credo esclusivo, giudica il belga Karel Lismont, uno dei più grandi in assoluto, anche se nel suo palmares, non è presente nessun oro olimpico, ma un solo titolo europeo.
Ma andiamo a scavare ancora.
Il pittore nella ricerca della tonalità del colore ha una meta. Il poeta che smonta e rimonta i versi cercando la soddisfazione ideale, vive questa come una linea liberatoria per dire che ha determinato al meglio il suo messaggio. Lo scultore nell’uso degli scalpelli ed altri strumenti, cerca la piega e la smorfia che vuole per irradiare di luminosità, un attimo che riassume un’essenza. Il maratoneta si diversifica per l’oggettività che il traguardo determina, ma eredita un valore anche in un piazzamento, nonché, continuamente, la trasmissione sull’osservatorio di uno stile e di un distinguo nel suo vivere e prepararsi agli eventi. Trattasi quindi di traguardi per tutti e non vale il discorso di un progetto a monte, perché in ogni tassello del pianeta dell’arte c’è, quindi anche nella maratona, come c’è il riconoscimento in danaro, anche se a vari livelli.
Ed i fattori di abilità che sono essi stessi una componente del mondo artistico, si ritrovano anche nella “corsa a piedi”. Nella maratona, il campione o meno vince o si piazza, ma trionfa sempre con se stesso, portando al traguardo un corpo che in quei 42 chilometri, ha fatto l’amore con la mente, tracciando, nello sforzo, un veloce ed intenso riassunto di ciò che è la vita. Correre di potenza pensando alla gara e poggiando troppe fibre sul terreno affloscia, perché s’entra prima nello stress e quando serve armonia s’eredita tosse. Come nel tratto d’esistenza, è la naturalità a pagare quasi sempre, dandoci esempio delle facoltà che possediamo e del bisogno di farne buon uso. Nel maratoneta, tutto questo si riassume, come detto, nella leggerezza della corsa. Riuscirci non è facile, perché bisogna risparmiare su ogni fronte, soprattutto sui centri nervosi e quando lo sforzo si fa intenso, perché s’intinge d’acido lattico, se si è consumato più del massimo traducibile in un ideale equilibrio, il rischio più palpabile è quello di fermarsi. Il segreto sta dunque nel trasmettere alle gambe la sensazione d’essere piuma, riposando la mente fino a “dormire” (è il verbo che usava Gelindo Bordin), col pilota automatico inserito nella ripetitività di una posizione di corsa, in cui gli stessi centri nervosi si riposano. Il compasso, a quel punto, deve accorciarsi di un tantino per raccogliersi in un metaforico letto, ed è determinante per abbassare ulteriormente i rischi di un risveglio precoce. In questo status, si devono consumare circa dieci chilometri, generalmente nel tratto che sta fra il 23esimo al 33esimo. Un passaggio che è fondamentale svolgerlo al meglio e per riuscirci servono facoltà che il solo allenamento non genera. In quel frangente l’uomo-atleta libera il suo messaggio, il suo caleidoscopio artistico ed impercettibile, ma esistente e palpabile se lo si guarda con l’attenzione migliore e se si ascoltano, più volte, le sue dichiarazioni. Ho detto, più volte, perché il campione, l’artista, è un uomo che, come tanti, non sa tradurre a voce quello che prova. Anzi, sovente, riassume la morfologia del suo gesto molto schematicamente, proprio perché è vinto nella bellezza di quell’istinto che azzera le spiegazioni nell’automaticità. Se nella maratona sbagli qualcosa, non ti sai leggere con suprema perfezione, i tuoi istinti sono sopraffatti dalla foga dettata da centri nervosi appannati e fai la fine di grandi campioni come Paula Radcliffe e Paul Tergat in occasione delle Olimpiadi di Atene.
E che dire, infine, quando il traguardo è dato da un atleta di uno sport di concorso, come ad esempio nella ginnastica artistica? Le figure disegnate in volo o sull’attrezzo, in che cosa si distinguono da una scultura, o una pittura?
Arte dunque. Dimenticata o sottostimata, ma arte, sempre.
Maurizio Ricci detto Morris