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Sport: Sul Viale dei Graffiti
#1
Sport: sul viale dei Graffiti.

Si parte dalla passione
da quel richiamo che volge un universo
da un bisogno che non si respinge.
Si giunge ad una forma espressiva 
dove il corpo appare più della guida mente
ma è un solo insieme. 
Cos’è un condensato d’emozioni
cosa sono le gestualità
cos’è che muove un’azione.
Lo sport non è volgarità
non è modo per far parlare chi non pensa
è un quadro dell’interno nostro.
È scultura su un noi nascosto
è pittura del lontano che si tocca
sa essere poesia agli occhi di chi vede.
È arte che piove intensamente
ed è pure scienza per scoprire
è l’umiltà di interpretare. 
Un segmento serio e luminoso della vita
vissuto sovente sempliciotto 
dalle nostre immani imperfezioni.

Morris

[Immagine: pngtree-pencil-graffiti-sports-scene-and...130972.jpg]

Prefazione

Se il titolo di un libro è il summa riassuntivo di ciò che si vuol dire o raccontare, può essere inutile ogni tipo di introduzione. Certo, resta quella punta di vago o di enigmatico o di ermetico che ogni tentativo di concisione non elimina, ma è indubbio che una traccia forte la si lasci. Ecco allora che l’introduzione diviene sovente un modo per mettere il lettore nella condizione di apprezzare meglio i contenuti che sta per leggere. In altre occasioni il testo introduttivo serve per spiegare le fonti ed i fattori propulsivi che hanno spinto l’autore alla pubblicazione. In questo caso però, è doverosa l’evidenziazione di una filosofia che anima la vita di chi scrive: lo sport non solo come passione giunta al narratore praticamente all’atto di nascita, ma una tangibile e determinabile espressione di un tassello del caleidoscopico mosaico dell’arte. Ed in questo quadro si muovono gli atleti-artisti, che sono uomini con le loro storie di vita, le loro passioni, le inclinazioni e le imperfezioni di tutti. Protagonisti di una zolla artistica dimenticata, o non convenuta al pranzo imbandito e spesso saccente di chi s’è posto su un piedistallo che ha omesso il pensiero e la ricerca di quella verità, che è sì un miraggio in termini conclusivi o matematici, ma una dirompente fune di crescita nella conoscenza dell’uomo e del rapporto col suo intorno.
Bastano dunque queste poche righe, per far capire quanto la filosofia di chi scrive, si collochi in quella nicchia che, come tutte, possiede l’orgoglio della profonda convinzione, al punto di spingere ogni suo alfiere a dibattere in ogni contesto il proprio paradigma.
In un’era supertecnologica, chiedersi cosa sia l’arte, è come porsi la domanda di cosa sia il cielo, l’universo, o semplicemente la vita. E l’uomo, che ha disquisito negli ultimi due secoli sulle ali della fredda concezione matematica delle cose, partorendo un progresso spesso fine a se stesso, perché mai nemmeno sfiorato da una uguale crescita interiore, si perde nell’impotenza della grandezza del quesito e si rifugia, ancora una volta, nella razionalità della sua miopia. Ne conseguono ristrettezze, delimitazioni, aree che si vogliono in tutte le maniere recintare, magari richiamando il pragmatismo, ed un riassunto che prende nell’estetica, il pegno maggiore per mettere quel punto di cui sempre ha bisogno. Poco importa sapere (per chi si pone questa ragione della conoscenza), di possedere un cervello sviluppato per un ottavo del potenziale, al punto di spingere scienziati australiani a mapparlo, e, tanto meno, viene considerato come foriero d’interrogativi, un eventuale sconfinamento dell’azione umana oltre il parametro del conosciuto. Ogni fenomeno, o lettura, o considerazione, al di fiori della patacca del solito, viene dipinta e respinta con mezzi oggi ben più efficaci del passato, come un segno di oscurità sinistra, oppure come una banalità da deridere, o schernire, o da vendere come velleitaria, oppure come uno strumento di business. Da questo gioco che sfugge, perché pensare, sognare, operare senza aver sotto qualcosa di palpabile, soprattutto denaro o tornaconto, fa male, si perdono gran parte delle occasioni per recepire messaggi, idiomi, significativi enigmi, pronti a forgiarci nuove dimensioni ed una spiritualità maggiore. 
Ecco dunque che la definizione di quell’enorme caleidoscopio interno l’uomo che è l’arte, viene ridotta a briciola, rispetto a ciò che potrebbe o dovrebbe essere. 
Ecco allora che taluni intellettuali (da considerarsi tali, al più, solo per titolo didattico), eletti a critici di mestiere per interiorità enormemente più piccole degli artisti, partono per seminare altri steccati, porre barricate perfide, vendersi alla produzione di farse passate per valenze, con lo scopo della solita logica “tornacontista”. 
È arte ogni forma espressiva che si basa sull’istinto, che cancella una parte del razionale o ne innalza le facce meno determinabili. È una fonte comunicativa di testimonianze di pensieri e valori che, da temporali, divengono eterni. È un linguaggio che si può slegare dalla cultura di chi la esprime, che si evidenzia ermetico per istintiva scelta dell’artista. È il totem interno che esce per donarsi agli altri, o agli stessi sdoppiamenti nebulosi del nostro io. L’arte convive in ognuno, attraverso il contatto diretto con chi la esprime e come possesso pulsante a vari livelli nel nostro interno. Siamo noi stessi critici, condensando in questo, un diritto al giudizio e alla considerazione, al messaggio, all’indicazione dei poli diffusi che aprono il nostro mondo interiore a stabilire tanto l’emozionalità, l’intensità, la sensibilità del gesto e della traiettoria artistica, quanto la sua disamina di svolgimento. L’arte non si definisce con la certezza della matematica: usare l’epigone della concezione numerica significa offenderla, ucciderla ancor prima di determinarne collocazione. Al matematico sarà sempre difficile da comprendere, vista la miopia che nasce con lui dal momento in cui fa dell’esattezza del suo piccolo universo un credo su cui misurare la vita. E nemmeno lo può svegliare la lettura che l’uomo s’è dato, nonostante tutto, nel non definire l’arte con una dimensione diretta all’interno di una cornice. Ne sono prove le numerose scienze che abbozzano a studiarla: dalla psicologia, all’es-tetica, dalla sociologia alla stessa storia dell’arte, dall’antropologia, alle scienze della comunicazione. 
Ma dove si orienta o si dipana l’atto artistico?
[Immagine: graffiti-sport-background.jpg]
Su tutto ciò che esiste nell’intorno e nei contorni, nei profondi emozionali, nelle sensibilità del mosaico del nostro segmento d’esistenza, nella proiezione del sogno che si traduce in qualcosa di più concreto che libera ulteriori sogni e significati. Si farebbe prima a dire dappertutto.
Il creativo non ha terreni, è. E dove non è immediato ci sono altri che lo riprendono assiomaticamente con altri idiomi, perché essi stessi genesi di altra arte, tanto nelle vesti critiche, quanto in quelle diretta-mente artistiche. 
Non esistono stereotipi o “topos” definibili e ristetti sulla figura del creativo, ovvero di quel tipo, o quella somma di tipi che generano dal niente del percepibile o dall’esistente nascosto ai più, dalle fonti del-le sensazioni e delle emozioni. Ricondurre questo insieme poliforme alla sola estetica, significa prenderne uno spicchio, spesso il più limitato, sicuramente il più miope, perché fortemente intinto di matematica e razionalità, esattamente i terreni più lontani, o nemici dell’arte. L’artista non crea quel frutto sgorgante dai lati oscuri e misteriosi della sua mente, per generare il definito bello e il tornaconto, lo fa per esprimere prima di tutto se stesso, nelle forme che gli vengono dall’istinto, dall’intuito, ovvero le vie che portano all’intelligenza nella massima espressione possibile. La traduzione viene dopo, spesso gliela danno altri, ed altrettanto spesso lo fanno con quella mente matematica sì tanto-troppo esistente oggi, che sa leggere solo la faccia del vantaggio e degli obiettivi, ma c’è anche chi aggiunge arte all’arte di genesi. 
Cosa serve per creare?
Un pennello, uno scalpello, un martello sono solo tre degli innumerevoli strumenti. A volte basta il corpo, lo sguardo, un segno, un pezzo di carta ed una penna, un gesto ecc. In altre parole troppo, per definire artisti solo coloro che usano il tradizionale consumato, narrato o venduto, sull’immaginario collettivo. 
Lo sport è una forma di comunicazione, una forma espressiva, un messaggio e come tale entra di diritto come tassello dell’oceano artistico, in tutte le sue forme, perché anche là dove serve abilità fisica e mentale, si entra nella sfera di un’epigone dell’arte. Il traguardo, l’asticella, l’attrezzo, sono spesso segni convenzionali di determinazione, in parte più oggettivi, per una classificazione dell’arte trasmessa, ma anche quando insistono parametri più esclusivi di legame gemello ad una graduatoria, rimangono e permangono aspetti o segmenti non baciati da primaria risultanza, che lasciano ugualmente gli aloni, gli echi e gli istmi dell’arte. Sta a chi osserva, ad altri artisti, a quei critici che, di diritto, sono tutti, capire l’intensità, le consistenze e gli idiomi di questi passaggi sfuggiti alla stragrande maggioranza di chi si lascia addurre dal miope pensiero matematico.
Ecco dunque come sia giusto, possibile e legittimo definire artista evidente uno che ha vinto meno o poco, ma ugualmente capace di intingere gli sguardi e il percorso dei tratti altrui come un fuoco, una luce, un’ermeneutica. 
Spesso, lo sportivo nel gesto in successione della sua attività porta apparente ripetitività, ma lascia sfumature, ed è proprio lì che dobbiamo far leva per capire che tutte fan parte di una copia unica, da riprendere se ha creato emozione, per rigenerare arte sulla creazione originaria. E come tutti gli artisti su cui insiste convinzione orizzontale, l’atleta-artista supremo, è di cristallo: puoi pungerlo con un aculeo, ma non lo scalfisci, non lo scomponi; puoi imprimere su di lui una gran forza, ma non lo spezzi quasi mai, ma se lo fai cadere o lo urti nel momento in cui s’esprime nell’essenza, lo distruggi in mille particelle che ne provocano la morte dell’interezza, ed anche se poi gli disponi tutto il collante possibile e le invenzioni più marcate, non sarà mai più lui.
D’accordo, dirà qualcuno, ma come si giustificano in una simile comparazione, esempi come “il traguardo tagliato per primo”, o, ancor più, il gesto innocuo e normale della “corsa a piedi”?
[Immagine: usain-bolt-graffiti.jpg]
I due aspetti, a ben vedere, si fondono senza scalfire differenziazioni fra lo sport podistico e il mondo artistico. Prendiamo il maratoneta. Egli trasmette al corpo una leggerezza che è l’innalzamento di un insieme di istinti, che si dischiudono su un passo della corsa più redditizio, più bello, più armonioso. In quelle peculiarità, su aree di linguaggio diverse, ci stanno i corrispettivi delle tonalità del colore, del tratto, dei messaggi celati di un pittore. Su quei percorsi, sia il maratoneta che il pittore, sono artisti che si confrontano con altri e possono risultare più o meno bravi. La differenza, la si tocca solo nella lettura dei giudizi, che trovano nel traguardo del maratoneta, un parametro più oggettivo, ma anche lì restano margini per le soggettività. Non a caso, il sottoscritto, che nello sport non fa degli albi d’oro un credo esclusivo, giudica il belga Karel Lismont, uno dei più grandi in assoluto, anche se nel suo palmares, non è presente nessun oro olimpico, ma un solo titolo europeo. 
Ma andiamo a scavare ancora. 
Il pittore nella ricerca della tonalità del colore ha una meta. Il poeta che smonta e rimonta i versi cercando la soddisfazione ideale, vive questa come una linea liberatoria per dire che ha determinato al meglio il suo messaggio. Lo scultore nell’uso degli scalpelli ed altri strumenti, cerca la piega e la smorfia che vuole per irradiare di luminosità, un attimo che riassume un’essenza. Il maratoneta si diversifica per l’oggettività che il traguardo determina, ma eredita un valore anche in un piazzamento, nonché, continuamente, la trasmissione sull’osservatorio di uno stile e di un distinguo nel suo vivere e prepararsi agli eventi. Trattasi quindi di traguardi per tutti e non vale il discorso di un progetto a monte, perché in ogni tassello del pianeta dell’arte c’è, quindi anche nella maratona, come c’è il riconoscimento in danaro, anche se a vari livelli.
Ed i fattori di abilità che sono essi stessi una componente del mondo artistico, si ritrovano anche nella “corsa a piedi”. Nella maratona, il campione o meno vince o si piazza, ma trionfa sempre con se stesso, portando al traguardo un corpo che in quei 42 chilometri, ha fatto l’amore con la mente, tracciando, nello sforzo, un veloce ed intenso riassunto di ciò che è la vita. Correre di potenza pensando alla gara e poggiando troppe fibre sul terreno affloscia, perché s’entra prima nello stress e quando serve armonia s’eredita tosse. Come nel tratto d’esistenza, è la naturalità a pagare quasi sempre, dandoci esempio delle facoltà che possediamo e del bisogno di farne buon uso. Nel maratoneta, tutto questo si riassume, come detto, nella leggerezza della corsa. Riuscirci non è facile, perché bisogna risparmiare su ogni fronte, soprattutto sui centri nervosi e quando lo sforzo si fa intenso, perché s’intinge d’acido lattico, se si è consumato più del massimo traducibile in un ideale equilibrio, il rischio più palpabile è quello di fermarsi. Il segreto sta dunque nel trasmettere alle gambe la sensazione d’essere piuma, riposando la mente fino a “dormire” (è il verbo che usava Gelindo Bordin), col pilota automatico inserito nella ripetitività di una posizione di corsa, in cui gli stessi centri nervosi si riposano. Il compasso, a quel punto, deve accorciarsi di un tantino per raccogliersi in un metaforico letto, ed è determinante per abbassare ulteriormente i rischi di un risveglio precoce. In questo status, si devono consumare circa dieci chilometri, generalmente nel tratto che sta fra il 23esimo al 33esimo. Un passaggio che è fondamentale svolgerlo al meglio e per riuscirci servono facoltà che il solo allenamento non genera. In quel frangente l’uomo-atleta libera il suo messaggio, il suo caleidoscopio artistico ed impercettibile, ma esistente e palpabile se lo si guarda con l’attenzione migliore e se si ascoltano, più volte, le sue dichiarazioni. Ho detto, più volte, perché il campione, l’artista, è un uomo che, come tanti, non sa tradurre a voce quello che prova. Anzi, sovente, riassume la morfologia del suo gesto molto schematicamente, proprio perché è vinto nella bellezza di quell’istinto che azzera le spiegazioni nell’automaticità. Se nella maratona sbagli qualcosa, non ti sai leggere con suprema perfezione, i tuoi istinti sono sopraffatti dalla foga dettata da centri nervosi appannati e fai la fine di grandi campioni come Paula Radcliffe e Paul Tergat in occasione delle Olimpiadi di Atene. 
E che dire, infine, quando il traguardo è dato da un atleta di uno sport di concorso, come ad esempio nella ginnastica artistica? Le figure disegnate in volo o sull’attrezzo, in che cosa si distinguono da una scultura, o una pittura?
Arte dunque. Dimenticata o sottostimata, ma arte, sempre.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
[Immagine: 61h3TMOnS9L._AC_SX425_.jpg]
OKSANA BAIUL
Fanciullezza mai vissuta


Nessuno conosce la ragione, se non hai che sensazioni, lontani ricordi, vaghe immagini che scorrono come fantasmi davanti ai tuoi occhi e, dentro di te, lo sconforto dell’essere troppo giovane, per ponderare e capire, nonché troppo vecchia per giocare. 
Sì Oksana, tu eri nata per dipingere un gesto, una figura che si moltiplicava in innumerevoli scolpite sull’aria, da porre in istantanea successione agli sguardi.
Per essere artista, che lanciava ermeneutiche facendo palpitare i cuori nell’ammirazione e nei significati. 
Lì c’era tutta la tua voglia di vivere e di sorridere, perché nell’altro delle tue giornate, s’erano appassiti i fiori, incendiati i boschi e, lontane, le bambole di pezza, s’eran disciolte nei morsi dei cani. Non c’eran tracce di te terrene, solo quel dipinto sull’aria inteneriva come un universale epigone e brillava sugli orizzonti riflessi dei sogni che donavi sugli occhi di tanti. Nessuno poteva conoscere il tuo dramma, il tratto inverso al significato del tuo sublime pattinare. Il tuo resto, stava sotto quel ghiaccio che ti vedeva pittrice e acrobata, nel freddo della sua intensità, che ti colpiva ogni giorno di più e ti gettava schiaffi taglienti. Si Oksana, la parola felicità, che si poteva falsamente intuire sui tuoi larghi sorrisi, era come un’aurora boreale, un effetto caleidoscopico del tuo voler sotterrare sentimenti contrastanti. Non c’era serenità, perché ti mancava tutto quello che t’immaginavi accostandoti al mondo con gli idiomi dell’arte, ma tu sembravi ugualmente la farfalla che vola sui fiori. Non ti era compagna la tranquillità, perché dentro di te cresceva un fuoco che ti ustionava, come quel ghiaccio su cui dovevi giacere nell’arco continuo del tempo ove non danzavi. Il tuo tratto è triste Oksana.
[Immagine: ?url=https%3A%2F%2Fcalifornia-times-brig...l-20121121]
Non può curarti o gratificarti il danaro guadagnato, lui, il dio di molti, non ti può cancellare i fantasmi, quei ricordi sfumati ed impercettibili. Non ti libera dalle immagini goffe che, come tentacoli, cercan di prenderti il cuore. Sei giovane, ancora tanto giovane, ma sembri lontana e vissuta più di un secolo per l’immensa densità dei doni che hai dato e per la soffocante angoscia che ti porti dentro da sempre. 
Sì, tu sei Okasana Sergeevna Baiul, la pattinatrice di un biennio che intenerì il mondo, confondendo le visioni nell’istintiva ammirazione che si prova di fronte alla grazia di sublimi figure poggiate sull’aria. Sì, tu sei quella che si piroettava trasformando il corpo in una corda che si librava in volo, ed un velo nero, emotivo e lacrimoso, ci giunge dalla consapevolezza che hai cercato di distruggerti per dimenticare, che non hai mai potuto vivere altre oasi, aldilà del pattinaggio. Oksana, il vento, disse un giorno qualcuno, non sa leggere. Confonde, vien spontaneo aggiungere. 
La luce c’è sempre, se saprai cercarla guardandoti allo specchio mentre provi a sorridere. La vita è una matrjoska come quella che hai vissuto nell’unico tuo ricordo percettibile nei contorni: ci siamo per provare emozioni e se non siamo in grado di viverle, camminiamo, ma non viviamo. Tu le provi Oksana, ed è quello che ti deve spingere a raccogliere ogni spicchio di luce. Che il tuo triste canto, continui a vivere nella luminosità della tua grazia sul ghiaccio.

La vita di Oksana Sergeevna Baiul 
[Immagine: ZTAHQI76IKZQQ5KAWAGGVK42II.jpg]Nata il 26 febbraio 1977 a Dnipopetrovsky, nell’Ucraina meridionale, Okasana fu abbandonata dal padre, quando aveva solo due anni. In seguito, questo perfido genitore, non ha mai cercato la figlia, anche quando costei si trovò a vivere con la mamma malata e la nonna materna, anch’ella in condizioni di salute precarie. Ambedue morirono a distanza di un paio di mesi l’un l’altra e la piccola Oksana, aveva appena compiuto tredici anni. Rimasta sola, perché il padre continuava ad ignorarla, andò a vivere presso la famiglia di Stanislav Korotek, il suo primo allenatore. Quando, nel 1992, costui emigrò in Canada, non poté portarsi presso colei che, nel frattempo, era divenuta una grande speranza del pattinaggio artistico su ghiaccio. Il divieto tassativo delle autorità ucraine, non lasciò il benché minimo spazio. Sola ed abbandonata da tutti, trovò “salvezza” nel collega più grandicello Viktor Petrenko, il quale, la segnalò alla sua allenatrice, Galina Zmievskaya. Oksana andò allora a vivere con la famiglia della sua nuova preparatrice, in quel di Odessa, sul Mar Nero. Agonisticamente bruciò tutte le tappe, fino a divenire, a soli sedici anni, la miglior pattinatrice al mondo, ma la sua vita rimaneva un inferno e nemmeno la vicinanza delle figlie di Galina, troppo vicine a lei di età, potevano in qualche modo calmare le sue improvvise crisi di pianto e sconforto. La sua permanenza ai vertici mondiali durò due stagioni soltanto, perché in lei, l’opportunità di un precoce passaggio al professionismo, poteva significare vita nuova e, soprattutto, trovare quella luce che non aveva mai conosciuto. Ma la nuova dimensione, ed il conseguente trasferimento negli Stati Uniti, non portò i benefici sperati, e così, Oksana, sempre più vittima di crisi di sconforto e di cambi d’umore, cominciò ben presto a singhiozzare sui ritmi particolari della quotidianità misto-circense delle professioniste. Sul ghiaccio era sempre divina, ma molti appuntamenti li saltava, a causa delle sue cadute depressive, dell’alcol, nel frattempo conosciuto, e di amori occasionali vissuti tutti malissimo. Nel 1997, a vent’anni, fu vittima, senza gravissime conseguenze, di un incidente stradale causato, probabilmente, dal suo stato psicofisico e fu persino arrestata. Si riprese, ritornò a pattinare, senza cancellare quelle visioni e quei fantasmi che la fecero ripiombare nelle braccia dell’alcol. Trovò la forza per una nuova speranza, regalata da una specifica raccolta di firme che le avrebbe potuto aprire le porte alle Olimpiadi del 2002. Si fece così ricoverare per quasi tre mesi, con lo scopo di seguire un programma terapeutico di uscita dall’alcol, ma lo stato della sua dipendenza fu tale da toglierle ogni velleità olimpica. 
Oggi, fortunatamente ha saputo piegare le avversità e si può definire una donna tanto di successo, quanto impegnata sul sociale. Al pattinaggio professionistico, ha progressivamente accostato per un certo periodo il ruolo di allenatrice. Ha poi aperto una sua linea di abbigliamento e di gioielli, corroborando l’attività imprenditoriale attraverso diversi passaggi televisivi nei quali s’è dimostrata donna mai banale e essai simpatica. S’è sposata ha una figlia e non ha dimenticato il suo passato. È infatti impegnata a sostenere il Tikva Children's Home Charity, una associazione che opera per aiutare i bambini ebrei di Odessa, in Ucraina. Sua nonna materna, infatti, era ebrea.

La carriera agonistica della Baiul 
Aveva quattro anni, quando il nonno materno, rattristato e commosso per le condizioni di vita della figlia e della nipote, rimaste sole e poverissime, regalò alla piccola Oksana, un paio di pattini usati. La bimba si affezionò morbosamente a quegli strumenti, unici fautori di gioco e di vita e sul ghiaccio cominciò ad illuminare. Vinse tutto quello che si poteva vincere in un territorio che, da granaio dell’Urss, si stava avviando alla crisi statale ed ideale del grande stato dei soviet. L’incontro con Stanislav Korotek, la spinse nell’olimpo delle ragazzine di sfera nazionale, ed al suo esordio fra le allieve, fu subito la più brava. Continuò a vincere fino ai Campionati assoluti della CSI compresi. Partito Korotek, Oksana, subì un nuovo travaglio di vita, ma non si notò nulla sul ghiaccio, dove, seguita dalla nuova allenatrice Galina Zmievskaya, arrivò a trionfare, alla prima partecipazione e a soli sedici anni, ancora da compiere tra l’altro, nei Mondiali che si svolsero a Praga, nel 1993. L’anno dopo, nel tempio nordico di Lillehammer, vinse l’Olimpiade, battendo la predestinata, Nancy Kerrigan. Era la nuova dea del pattinaggio artistico, prendendosi quel testi-mone che le aveva la-sciato la grandissima Katarina Witt.
Il suo repentino passaggio al professionismo, a soli 18 anni, consentì al pubblico, soprattutto statunitense, di vedere ancora i lampi di grazia e di acrobazie sul ghiaccio, di questa autentica farfalla del freddo. Ma le sue vicissitudini private, non le han consentito continuità, anche se è stata a lungo sulla breccia, fino a sperare di tornare ai vertici e alla partecipazione alle Olimpiadi di Torino 2006. Una carriera troppo corta per farla entrare nel novero del podio delle pattinatrici di ogni tempo, ma le sue punte, reggono il confronto con tutte le più grandi colleghe.
[Immagine: image.jpeg]

OKSANA 
I richiami sordi 
le ombre che vedevi la notte 
i pianti che furono tuoi 
quando ti sedevi 
sulla riva del fossato del cortile 
con le manine sul volto 
per non far vedere le lacrime 
agli amici di giochi. 
Il sole che non percepivi 
i giochi ed i dolci 
che ti eran preclusi 
i singhiozzi di mamma 
la sua sofferenza terribile 
il volto triste di nonna 
la bambola di pezza 
perduta nello sconforto. 
I sogni proibiti da subito 
il vuoto della paura 
dopo la gioia dei pattini 
il ghiaccio tuo amico 
nel successo e negli applausi 
nelle grida che non sentivi. 
Eri e sei senza aver vissuto 
segno vero d’una esistenza 
racchiusa in soli cinque lustri. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#3
GUILLERMO TIMONER, l'ispanico volante.

[Immagine: timoner.jpg]

.....Quando immerso nel fascino dei velodromi attendevi l’acuto di quel condensato di velocità, coraggio e sfida, tornito nel rombo coinvolgente dei motori, aspettavi un nome, una leggenda che ti si presentava ancor prima del protagonista, come un suono armonico alle emozioni che stavi vivendo. Un’eco, che faceva l’amore col mistico e che cresceva in te a cadenze palpitanti, sul ritmo del cuore battente d’un bambino curioso e sognatore, che si fondeva in una maglia gialla, ed un casco che appariva come un elmetto dalle forme modificate di quel tanto, da non rimembrar la guerra sempre compagna dell’idiotismo umano. Lì, nell’involucro emozionale d’un evento che attendevi come un pegno di vita, ti sublimavi su un omino che pedalava dietro una motocicletta tanto grande, quanto strana, su cui si poneva ritto un uomo che appariva un palombaro dell’aria. Era quel trottolino che pedalava frenetico ad inseguire quel mezzo protetto da un rullo, il frutto monarca che ti scolpiva sull’alone della sua corte di sensazioni, tutta l’intensità ed il trasporto di quei momenti in cui toccavi ed accarezzavi le nuvole e spostavi la Luna. Per darsi un terrestre segno di riconoscimento, che risuonava quanto il suo attrezzo motore sulle strade del mito, quel quadro tinto coi colori che rendevano il tuo osservatorio invisibile, aveva un nome ed un cognome: Guillermo Timoner. 

Eccolo qua un idolo di quel bambino sottoscritto, certo, uno dei tanti, ma uno dei pochissimi che si poteva fregiare dell’estasi data dalla specialità, in assoluto più affascinante del mio percorso sportivo: il mezzofondo o gli stayer. 
La storia di Guillermo, è un continuo susseguirsi di stimmate uniche, che rendono il suo cammino sulla strada dell’ermeneutica del monumento ciclistico, davvero particolare. Ed era un omino apparentemente normale, come l’ortolano del negozio accanto. Un fenomeno dimenticato, che amo riportare alle memorie, perché il suo gesto non vada perduto sull’altare dei bavagli frenetici di vittime incontentabili dello stress e del presente vissuto come unico e totale tassello del proprio segmento. 

[Immagine: RB%2B0411%2BLegenden%2Bdes%2BRadsports%2...imoner.jpg]

La storia dell’ispanico volante. 


Guillermo Timoner, è nato il 24 marzo del 1926, a Felanitx, località delle Isole Baleari. Di corporatura non trascendentale, un “mezzo tappetto” come diceva qualcuno, si costruì gioventù fra una passione, il ciclismo, e una necessità, il suo lavoro da carpentiere. Fra legni, chiodi e cementi sognava di arrivare sulle montagne di Vicente Trueba, ma amava anche quella velocità che gli scafi lungo i litorali delle Balerari richiamavano. Un condensato troppo forte per non fargli provare l’ebbrezza dei canti che potevano venirgli dalla bicicletta e dalle sue facce di competizione. Il padre, che mai aveva accettato i freni e le costrizioni del franchismo, sacrificò una parte di se stesso, per assecondare le speranze del figlio e trovò le 510 peseta per dare al “piccolo”, la gioia di tentare l’avventura. Del ciclismo, dunque, il giovanissimo Guillermo provò subito di tutto, mentendo sull’età il giorno della prima gara, naturalmente vinta, ma capì presto che il suo operare, era ancora troppo generico per arrivare a campare di solo pedale. E tale pensiero si confermò in lui anche quando si rese conto che sui velodromi, i pochi di Spagna, non erano in grado di tenerlo dietro. Ma la sua scelta d’orizzonte, nel sogno che voleva diventare realtà, permaneva chiara. Un giorno, per caso, dietro una moto derny, sulle fantasie della Bordeaux–Parigi, vide che anche gli stradisti più forti non reggevano il suo passo, ed intuì che il sentiero che poteva fargli abbandonare quei legni e quei chiodi, s’era allargato. All’alba dei suoi teneri 19 anni, la pista spagnola era già soprattutto Timoner, perché lui, l’isolano con la faccia da omino più matura della sua età, sui tondini vinceva tutto, tanto l’inseguimento, quanto la velocità e, soprattutto, quel mezzofondo che sentiva sempre più sincronico al suo volere. Il tempo intanto passava, ed il giovane Guillermo, fra le copiose vittorie racchiuse tutte entro confini che non aveva scelto e senza dimenticare quella povera gente costretta a lavorare senza sentire il vento della libertà, cominciò a preoccuparsi delle sue primavere, già avviate verso il quarto di secolo e lo fece a suo modo, andando incontro ad una sfida dietro le potenti moto degli allenatori dei migliori stayer del tempo. Un assaggio finalmente internazionale con atleti per lo più francesi, fra i quali il fortissimo Lemoine, che si concluse con un suo vero e proprio trionfo. Timoner, aveva capito di poter competere con tutti nel mondo, ma la Spagna franchista, era troppo povera e distante, per garantire un ingaggio professionistico ad un ragazzo “socialisteggiante”, che eccelleva su quelle piste che in terra iberica eran ancora troppo poco frequentate. Soffrendo, l’ormai maturo Guillermo, fu costretto a rimanere nel limbo del suo sogno. Ancora titoli su titoli nazionali, ed un disagio crescente, ma pure il rivolo ottimistico della breccia creata da un connazionale che, come lui, aveva pure corso in pista, tal Miguel Poblet, il quale, per competere da protagonista, s’era trasferito in Francia, in una squadra di giovani professionisti, fra i quali v’era un biondino dipinto come predestinato, Jacques Anquetil. Timoner, conosceva bene Miguel e lo prese a riferimento. 
Nel ’53, con già ventisette anni alle spalle, la Federazione Spagnola accettò di dare l’opportunità a Guillermo di partecipare ad un paio di Sei Giorni e, l’anno successivo, senza un minimo di assistenza, al campionato mondiale fra gli stayer, allora solo professionistico. 
Timoner, a dispetto dei disagi e dell’improvvisazione si guadagnò la finale, chiusa poi al settimo posto. Solo nel ’55, pur senza un contratto con una squadra professionistica, l’omino volante delle Baleari, tanto somigliante a Poblet e Picasso, poté svolgere un’attività con tinte d’internazionalità maggiori. Ben presto si capì che in cima ai suoi pensieri c’erano quei mondiali di mezzofondo, che si sarebbero svolti sulla magica pista del Velodromo Vigorelli di Milano. La risposta della prova sull’anello milanese, dopo tanti anni di attesa e di ansie vissute nei pochi guadagni di una attività quasi circense e con ancora soventi giornate fra i carpentieri, fu sublime. Il mondo degli stayer, poté osservare, ammaliato, la poesia di quel mezzofondista sconosciuto ai più, il quale, con ritmo indemoniato e con accelerazioni da mandare in visibilio l’allora attento, competente e numeroso pubblico meneghino, superò uno alla volta i migliori del mondo, fino alla conquista di una strameritata maglia coi colori dell’iride. Un titolo storico, perché Guillermo Timoner era il primo spagnolo a vincere un campionato mondiale in una specialità del ciclismo.

La grande vittoria però, non gli valse un ingaggio sicuro e questa sotto-stimazione la pagò nel 1956, quando, nella gara valevole per l’iride, i colleghi con contratto si coalizzarono, alla faccia delle rispettive nazionalità, per rendergli la vita durissima. Guillermò lottò, ma sulla ventosa pista di Copenaghen, pur giungendo all’argento, fu costretto a cedere il titolo di pochissimo all’australiano French. La strada comunque, era chiara e sulla scia di Poblet, raccogliendo l’invito di Lemoine, anche Timoner si trasferì in Francia, nell’Alcyon, in quella che diverrà la prima squadra professionistica di un mito. 
Il 1957 però, fu un anno grigio per l’omino volante di Felanitx: una serie di acciacchi ed una caduta su strada, lo frenarono fino al punto di rendere quella stagione come l’unica, fra le ventuno della sua prima carriera, a non donargli nemmeno un tutolo nazionale. Corse pochissimo, ma ormai era lanciato e, nel ’58, pur passando in una piccola squadra italiana (la “Lube”), tornò ad essere il sire degli stayer, anche se al mondiale fu beffato dallo svizzero Walter Bucher. 
Nel ’59, il gran passaggio alla Faema, uno squadrone italiano, ma, di fatto, internazionale, per nazionalità e qualità dei propri componenti. Fu un anno d’oro per Timoner, che vinse tutte le classiche del mezzofondo, compreso il G.P. delle Nazioni e, ad Amsterdam, trionfò al campionato mondiale, prendendosi una sonora rivincita sullo svizzero Bucher. Ancor migliore il 1960, dove alle classiche aggiunse la Coppa del Mondo. Quindi, sul velodromo di Karl Marx Stadt, nell’allora DDR, fu autore di un’impresa che lo vede tutt’oggi ineguagliato: conquistò la sua terza maglia iridata, correndo i cento chilometri della prova, alla stratosferica media di 82,200 kmh! 
Il commendator Borghi, titolare dell’Ignis, uno dei padri dello sport italiano del dopoguerra, amante come pochi del ciclismo, volle con sé il fenomeno della velocità dietro moto e, nel 1961, Guillermo Timoner entrò nei ranghi di quella che poi diverrà la sua squadra storica, l’Ignis appunto. Qui, tra gli altri, ritrovò sotto i medesimi gialli colori Miguel Poblet, colui che gli aveva aperto la strada per fare del ciclismo il tratto saliente della sua vita. L’esordio nello squadrone varesino però, non fu dei più fortunati perché qualche acciacco gli impedì di presentarsi al meglio delle competizioni più importanti, e chiuse l’anno col solito titolo spagnolo e qualche vittoria di secondo piano.

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Si rifece nel 1962, ritornando a vincere le classiche della specialità, ad a Milano, fra un tripudio di spettatori attenti, trionfò per la quarta volta il titolo mondiale, ancora con una media da far venire i brividi: oltre 81 kmh! Nell’anno successivo, pur vincendo Coppa del Mondo e G.P. delle Nazioni, nonché superando i postumi di una pesante caduta, fu protagonista di un episodio che ha fatto epoca....

Nell’anno successivo, pur vincendo Coppa del Mondo e G.P. delle Nazioni, nonché superando i postumi di una pesante caduta, fu protagonista in negativo di un episodio che ha fatto epoca. Teatro, la pista di Roucourt, proprio in occasione della finalissima del campionato mondiale. A pochi giri dal termine, Guillermo Timoner era in testa e si avviava alla conquista della sua quinta maglia iridata. Ancora una volta, era riuscito a superare gli avversari e resistere ai loro ritorni, soprattutto aveva respinto le velleità di colui che diverrà, di lì a poco, un sontuoso interprete della specialità, il belga Leo Proost. Ormai tranquillo, il campione spagnolo gridò al suo allenatore quel “non rapidamente” che, nel linguaggio cifrato degli stayer, significava di moderare l’andatura e di proseguire regolari: in fondo la gara era praticamente decisa. La confusione delle allora grosse moto in pista e le urla del pubblico che continuava imperterrito ad incitare gli astri di casa, Depaepe e lo stesso Proost, impedirono al pilota-allenatore una comprensione esatta della frase di Guillermo, e nell’uomo in tuta nera, sfuggì il “non”, lasciando all’azione e alle determinazioni conseguenti, solo il significato di “rapidamente”. La grossa motocicletta (2000 centimetri cubici con trazione a puleggia), iniziò così un’accelerazione per quello che l’allenatore aveva intuito come l’acuto finale del campione e lasciò le pur poderose gambe di Timoner, in esubero lattico facendogli perdere il rullo con tanto di vento in faccia. Nel mezzofondo perdere il rullo, ovvero il contatto col motore e la protezione dal vento che a quelle velocità è sensibile anche nelle giornate di brezza leggera, significa per il corridore subire una frustata insuperabile, specie se si concretizza sul finale di corsa. La stima della perdita di velocità in simili casi, non è mai inferiore ai venticinque kmh. Il grande Guillermo, si trovò così umiliato e predisposto alla rimonta, senza accelerazione o soverchi sforzi da parte degli avversari, ed a nulla valse la decelerazione dell’allenatore nel momento in cui questi s’accorse dell’errore. Il mondiale, andò così al pur meritevole Proost ed a Timoner rimase un umiliante settimo posto, l’ultimo della finalissima. 
L’incomprensione che gli era costata una maglia iridata ormai sua, non fermò l’inseguimento alla storia del grande omino delle Baleari. Nel 1964 vinse il G.P. delle Nazioni e ai campionati mondiali di Parigi, si prese una sonora rivincita su Proost, conquistando il suo quinto titolo iridato. Ancor migliore il suo 1965, quando a 39 anni, si permise di vincere la Coppa del Mondo e, sul velodromo di San Sebastian, con una condotta regale senza il minimo segno di cedimento, trionfò per la sesta volta ad un campionato mondiale. Nell’occasione diede una lezione di ritmo, accelerazioni e senso tattico, ai nuovi principi del mezzofondo dei paesi più forti nella specialità, il belga Romain De Loof (2°) e l’olandese Jaap Oudkerk (3°). Vidi quella corsa stupenda in TV, trasmessa interamente in diretta, avevo undici anni. Quaranta anni dopo, quello spettacolo, che al confronto meramente televisivo da un segno chiaro delle modificazioni dei tempi, è ancora nitido in me, soprattutto rivedo coi medesimi cori partecipativi i sorpassi di Timoner, e quel suo stare incollato al rullo come nessuno.
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All’indomani di San Sebastian, quasi fosse ripagato da una carriera come nessun altro stayer, l’omino volante delle Baleari, tirò un po’ i remi in barca, il resto lo fece ….l’anagrafe. Con l’arrivo del 1966, infatti, la crescita degli acciacchi e l’età, portarono in dote a Guillermo il declino. Qualche piazzamento importante e, soprattutto, un’attività molto più moderata, sempre con la maglia gialla dell’Ignis. Nel ’67, si prese un “anno sabbatico”, portando le sue apparizioni ad una rarefazione semi assoluta. Nel suo intento, c’era quel riposo per riportarsi in auge l’anno successivo, quello che doveva essere l’ultimo della sua favolosa carriera. Ma i suoi piani furono sconvolti da un grave incidente stradale in cui fu coinvolto a Maiorca, proprio sulla sua terra isolana, ed a due passi da casa. Era la fine anticipata del suo luminoso segmento agonistico, senza aver potuto mostrare quel canto del cigno che era nei suoi piani. Per anni, dopo essersi ripreso per la vita normale, nell’animo dell’omino volante, continuarono a convivere i richiami di quel sogno, quella volontà di non chiudere così. Il tempo passava, ed in lui cresceva la spinta verso un atto che creasse clamore, anche per dimostrare che il contatto d’una vita passata vicino ai metalli dei motori, l’avevano trasformato davvero in uomo di ferro. 
Guillermo pedalava, ed ancora stupiva. Già, perché sulle strade, i giovani a cui insegnava ciclismo, con l’età dei figli o dei nipoti, non riuscivano a tenere la sua alata ruota. E fu così che nel 1984, a 58 anni, decise di riprovare l’agonismo. 
 
Timoner ai Mondiali di Bassano '85 
La Teka, al tempo una delle formazioni più significative del mondo professionistico internazionale, gli offrì un ingaggio, ed il vecchietto omino di Felanitx, si ripresentò, fra lo stupore generale, alle corse. Gli echi del suo ritorno si raccolsero nel particolare e nel peculiare quando, a distanza di ventun anni e alla sua veneranda età di reale pensionato, rivinse il campionato spagnolo del mezzofondo. Aveva così ripagato la Teka della sua disponibilità, ma soprattutto aveva dato al mondo un’eco ancor oggi ineguagliata ed incredibile. Ma l’omino volante non si poteva accontentare, voleva ancora risentire l’ebbrezza di una partecipazione mondiale e, saltata la possibilità di provarla a Barcellona ’84 (anche a causa degli aspetti regolamentari del suo caso unico), vi riuscì nel 1985. Il suo canto del cigno, si consumò sul fondo di cemento della pista, in quei giorni iridata, di Bassano. Vederlo pedalare dietro una moto rappresentava ancora qualcosa di unico, per i nostri occhi di ammiratori e appassionati. Fu eliminato in semifinale, ma donò ai giovani avversari ed a chi poté raggiungerlo sul prato del velodromo, il premio di una stretta di mano… ad un mito ineguagliabile.
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La sua leggenda però, ha continuato a tracciare nell’anonimato dei titoli non ufficiali, nelle gare per veterani e nell’insegnamento ai giovani che vogliono avvicinarsi al raggio immanente di una bicicletta che insegue una moto… Ed ha continuato a fare della sua officina un luogo sacro per l’avviamento al ciclismo, anche quando la senilità gli ha impedito significative lezioni sui pedali e l’orrida UCI ha confermato la cancellazione della sua specialità. Lui, avvolto dal manto di luci del suo mito, ha ridistribuito lezioni a chiunque l’abbia incontrato, magari non più in officina ma nel salotto di casa. E continua ancora, a 96 anni, il prossimo 24 marzo. 
Guillermo Timoner un Immenso! 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#4
........verso le Olimpiadi invernali.......

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HEINI HEMMI
“La piuma delle nevi”

Un campione che mai dimenticherò e che i signori di mezza età ricordano bene. Un’anima bianca, unica nel suo genere, che aggiungeva ad una inconfondibile carezza alle nevi, anche il contrasto con la sua lunga barba nera. Un elvetico del cantone tedesco, tanto anomalo per i viali che i preconcetti traccian sugli svizzeri, nato, vissuto e vivente in Churwalden, là dove la già stupenda stazione sciistica guarda dall’alto la pista per slitte più lunga del mondo, che è stato e sarà per sempre un Campione Olimpico.

La storia di Heini Hemmi, la "piuma delle nevi".
Heini nacque il 17 gennaio 1949, come detto, a Churwalden, un paesino a due ore d’auto dal confine italo-svizzero, che s’immerge nella neve per quasi tutto l’inverno. Era dunque fin troppo naturale vederlo il prima possibile con gli sci ai piedi. Il ragazzino però, scoprì ben presto che il suo fisico, gracilino e piccolo, non lo faceva un predestinato all’agonismo, ed anche il tempo e la sua pazienza, non riuscivano a cambiare le sostanze. Le prime gare furono inesorabili: tutto collimava sull’impossibilità di pronosticargli un futuro da evidente. In discesa non esisteva, nello slalom la poca potenza gli impediva di schizzare oltre i paletti e ben poco poteva la sua armoniosità. Sullo slalom gigante, scelto subito dal giovane Hemmi come specialità da amare, l’esigenza di possedere una certa velocità, cozzava col suo peso piuma. Insomma, un disastro, anche se i piazzamenti, grazie ad una sensibilità non comune verso quegli strumenti ai piedi, erano discreti. Heini, taciturno, ma simpatico, intelligente e con una innata devozione verso i frutti dell’osservazione, non si diede per vinto. Aspettò, cercando di costruirsi nel cervello le vie per stringere la mano ai pegni della sua passione. S’aggrappò alla barba che gli era crescita presto, prima dei coetanei e degli avversari, quasi a salutare il sopraggiunto punto d’arrivo dello sviluppo fisico. Ne fece un distinguo di maturità di fronte a chi lo guardava, tutti o quasi dall’alto in basso. Capì che doveva inventare qualcosa per recuperare il gap che lo separava dagli altri sulle piste e per interessare il mondo dello sci. Già, perché il suo status di giovanissimo maestro, confuso per il barbone coi colleghi più anziani, non era e non poteva essere la sua meta.
Come nella vita, anche nello sport, che dell’esistenza era e rimarrà solo un tassello, le difficoltà o la vera e propria disperazione, portano ad arguire le proprie facoltà e così Heini, col fisico ed il portamento di un hippy, trovò la strada per inventare. Certo, perché lasciando perdere l’impossibile discesa libera, quei paletti dello slalom e dell’amato gigante, andavano affrontati e superati nel minor tempo possibile. Guardò cosa accadeva, ogni giorno, proprio nella vita, su quelle strade più o meno frequentate e più o meno dense di altri ostacoli, in grado di determinare, a seconda delle scelte, il tempo di percorrenza fra partenza e destinazione. In fondo, una gara di gigante, era come una rappresentazione dell’ogni giorno. Arrivò così la folgorazione: grazie a quella semplice osservazione, spesso la via più lunga ma più libera per giungere alla meta, era nella realtà la più veloce, ed il tempo, alla fine, rendeva più efficace la scelta apparentemente peggiore. Ed allora, perché aggredire i paletti sulle “strade” degli sci? Perché raccogliere lo stress degli urti su quei bastoni e le conseguenti necessità di rilanciare il ritmo? Non era forse meglio fondare tutto sulla scorrevolezza? In fondo, sotto quegli strumenti non c’era asfalto, ma un soffice manto nevoso da leggere ed accarezare per ricevere la spinta dettata dal pendio. Quella riflessione sull’osservazione, costruì in Heini Hemmi un rivoluzionario: non avrebbe più affrontato i pali degli slalom come fossero una sfida, ma li avrebbe dribblati a distanza, azionando una velocità più costante sulle punte ideali, in grado probabilmente di azzerare e superare la maggior lunghezza del determinato percorso. Il piccolo elvetico alto 1 metro e 63 centimetri, con un peso non superiore ai 60 chili, cominciò così a far del nuovo stile il suo vangelo, ed i piazzamenti migliorarono al punto di suscitare il tanto agognato interesse della nazionale svizzera. Per lui s’aprirono, finalmente, le porte della Coppa del Mondo, dove trovò la curiosità dei tecnici, ma anche tanta sufficienza circa gli effetti della sua innovazione. D’altronde, i piazza-menti di Heini, non proprio da predestinabile ad una costanza da po-dio, non favorivano processi imitativi. “Meglio così” – diceva a se stesso la “piuma delle nevi” elvetica. Intanto, si godeva nel silenzio quei miglioramenti che sentiva ogni giorno più tangibili accanto a sé e che si tradussero, nelle tre settimane d’intorno al suo ventunesimo compleanno, in un quinto posto nello slalom di Wengen, addirittura in un quarto nel gigante di Kranjska Gora e nel nono fra i pali stretti di Madonna di Campiglio. Un terno che lasciava presagire qualcosa, soprattutto per lui e per i suoi progetti.

Le stagioni successive di Heini però, furono magre di risultanze: solo un ottavo ed un nono posto in slalom nel ’71 e ’72 e poi una vera e propria scomparsa nel ’73 e ’74. La realtà non era così nera, in quanto spiegabile con qualche malanno e, soprattutto, nella volontà di affinare il nuovo stile lungo le piste di Churwalden, ai margini della sua attività di maestro di sci. L’inventore Heini, trascinò sui suoi passi il fratello Christian, di cinque anni più giovane, con un fisico ben più attrezzato, ma di gran lunga inferiore come sensibilità sciistica. Il maggiore degli Hemmi, cercava il momento per considerarsi interiormente pronto a ritornare, con velleità, nel grande circo bianco di Coppa del Mondo. All’alba della stagione ’74-’75, a quasi ventisei anni, si riguadagnò la nazionale e le sue risposte sulle piste furono di spessore. Ad Adelboden, in quel gigante che già al tempo poteva essere considerato come il mondiale annuale della specialità, giunse ottavo, ma con una grande seconda manche, quindi, sempre sull’amato gigante, finì quarto a Fulpmes e a Naeba, per chiudere l’anno con un grande secondo posto a Garibaldi, in Canada, dove solo l’enfant prodige svedese Ingemar Stenmark, riuscì a stargli davanti.
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A metà degli anni settanta, lo sci alpino mondiale poteva contare su autentici campioni, forgiati sulle qualità che la natura aveva donato loro: non erano ancora arrivate le punture o le fiale spargimuscoli che macchieranno uuna fase successiva: c’era l’improvvisazione del gesto ed una ricerca ancora empirica, naturalmente più genuina per quel messaggio intriso di contorni e sensibilità condensabili col mondo dell’arte. C’erano uomini che avevano fatto degli sci una necessità che superava i richiami comunque esistenti ed insistenti nel confronto agonistico. Si vivevano gli ultimi fuochi di un’antropologia, poco dopo seppellita sull’altare dei conti e di quell’orrida matematica che, qui, come nell’intero intorno umano, ha cancellato la bellezza e l’intelligenza positiva, per la crudeltà di un progresso quasi sempre amico dei cinici e dell’applauso blasfemo dei fessi. Fra i paletti dell’amor di Heini, si muovevano le gesta di interpreti sontuosi, alcuni dei quali in grado di cambiare il volto di una gara sulla spinta degli stimoli inventivi. Su tutti, quattro si facevano preferire: gli italiani migliori di quella che al tempo era veramente la “valanga azzurra”, ovvero Gustav Thoeni, di Trafoi, uno che faceva parlare gli sci, piuttosto che la sua nasale voce e la con-fusione d’una lingua, l’italiano, che lo richiamava a sforzi più impegnativi di una scalata alla Marmolada e Piero Gros, piemontese di Sauze d'Oulx, esuberante e virtuoso, con fare tanto birichino quanto efficace nella danza fra i paletti. Ai due azzurri, s’aggiungeva l’austriaco Hans Hinterseer, di Kitzbuel, un figlio d’arte (il padre Hernst era stato un gran campione a cavallo degli anni sessanta), tanto lineare sugli sci, quanto amato dalle donne, a cui stava per dedicarsi sulla scia del leggendario connazionale Tony Sailer, attraverso una altra forma artistica: la musica folk. Il quarto, il più giovane di tutti, Ingemar Stenmark, veniva da Tarnaby, in Svezia, una terra che anteponeva, per scelta oltremodo ovvia, lo sci nordico a quello alpino. Era un ragazzone perennemente sorridente, ma dentro quel corpo e sulla sua scia, aveva già fatto capire quanta leggenda fosse pronto a narrare; uno che pareva la simbiosi della perfezione fra le carezze, la forza e l’abilità che lo sci, da sempre, richiede. Proprio lo svedese, col linguaggio dell’istinto che solo i supremi possiedono a iosa, guardava il piccolo barbuto svizzero come un geniale e, senza ricercarsi, aveva già interiormente deciso di copiarne le traiettorie, le più efficaci per esaltare il suo motore alato, il migliore mai visto da chi scrive.
La stagione che avrebbe portato all’Olimpiade di Innsbruck, s’aprì dunque sul segno di quel quadrilatero dominante fra i paletti, di Heini Hemmi, solo la traccia della simpatia che il suo essere barbuto puntino, tracciava sulle nevi: l’osservatorio non lo vedeva proprio.
L’appuntamento olimpico rappresentava per Heini un obiettivo asso-luto: sapeva bene che le sue 27 primavere erano troppe per pensare ad una prossima occasione. Sicuro della selezione in virtù della grande stagione precedente, cercò di affinare al massimo il suo stile originale e di raggiungere la forma pian piano. Giunse a gennaio senza particolari piazzamenti, ma era quello il mese su cui affondare un poco, soprattutto in gigante. Arrivarono così i settimi posti di Adelboden e Morzine, seguiti dal sesto di Zweisel: quanto bastava per sentirsi pronto per la gara dei cinque cerchi.

Lo storico oro di Innsbruck
L’incantevole città austriaca, si preparò alle Olimpiadi, elevando fra il verde ed i monti che la guardano come protettori, piste ed impianti tra i più avveniristici della storia dei Giochi. La discesa libera maschile, prima gara del programma olimpico, che proponeva uno dei tracciati più difficili che i nostri occhi abbian mai visto, si concluse con la vittoria di Franz Klammer sull’immenso stilista svizzero Bernard Russi e l’italiano Herbert Plank, confermando appieno quelli che erano i pronostici della vigilia. Alla luce di quella gara, le impressioni dell’osservatorio per lo slalom gigante che si sarebbe svolto in due giorni, il 9 e 10 febbraio, si cementarono ulteriormente sui nomi dei quattro più possibili, ovvero Thoeni, Stenmark, Gros e Hinterseer, col possibile inserimento, semmai, dell’italiano Franco Bieler che, 20 giorni prima, nella prova di Coppa del Mondo di Morzine, aveva dato segno di grandi condizioni di forma. Agli svizzeri e ad Heini Hemmi in particolare, nemmeno il ruolo di outsider. La prima manche, abbastanza lineare, ma resa impegnativa dal fondo molto ghiacciato, sconvolse una buona fetta delle previsioni sui favoriti. Hinterseer affondò completamente, Stenmark un po’ meno, ma accumulò un ri-tardo enorme. Non andò molto meglio a Piero Gros, anch’egli seppellito da un distacco di un paio di secondi dalla testa. A salvare le previsioni della vigilia, il primo posto di Gustav Thoeni, capace di scendere al meglio della sua fama e lasciare lo svizzero Ernst Good, secondo, a 41 centesimi. Il terzo della graduatoria di manche, a 1”22 dal grande sciatore di Trafori, fu proprio il barbuto ed inaspettato Heini Hemmi. La discesa del maestro di Churwalden, così anomala rispetto a quella dei più, non destò interesse nemmeno di fronte alla constatazione di una posizione in graduatoria che avrebbe dovuto far riflettere. Nei commenti della serata, in considerazione dei distacchi, si dava a Thoeni la pressoché certa vittoria, a Good qualche chanches per una meda-glia, mentre al piccolo con la barba, dallo stile più originale del cast, solo il ruolo di sorpresa di manche. Il giorno dopo però, successe di tutto.
La seconda manche era di 300 metri più corta della prima, ma presentava un percorso con dieci porte in più (73 invece di 63), angoli molto evidenti, ed a metà, una gobba spacca-ritmo. Fra i grandi, il primo a scendere fu lo svedese Ingemar Stenmark, che interpretò il percorso con la foga di chi deve recuperare e lo stile di quello svizzero ancora troppo sconosciuto per il grande circo, ma non per lui. Lo scandinavo fece un tempone che lo collocò con ampio margine al primo posto parziale. Piero Gros, anch’egli bisognoso di una grande prestazione, si distese come se i pali fossero quelli dello speciale e, ben presto, uscì di gara. La manche andava dunque interpretata facendo della scorrevolezza il perno sul quale costruire ogni movimento e traiettoria.
S’arrivò così ai tre del podio parziale. Il primo a scendere fu proprio Heini Hemmi. La barbuta piuma delle nevi, presentò al mondo il suo modo di sciare rivoluzionario. La sua discesa fluida come nessuna, accarezzò il percorso e dribblò le porte come se fosse una gara di pattinaggio. Stupì anche gli scettici per la costanza della sua velocità e per l’armoniosità con la quale impose agli sci di andare a braccetto con la neve. Quando giunse al traguardo, pur perdendo 66 centesimi nel tempo di manche a vantaggio di colui che più di ogni altro potrà esser considerato, chissà per quanti anni ancora, il più grande della storia fra i pali degli slalom, si collocò al primo posto, sicuro dunque di una medaglia.
Ernst Good, lui davvero alla gara della vita e vera sorpresa di quella giornata (chiuse la carriera senza aver vinto nessuna prova di Coppa del Mondo) si difese al meglio, ma pur riuscendo nell’impresa di star davanti a Stenmark, non riuscì a contenere la grande prestazione del connazionale, finendogli dietro di 20 centesimi. Fra Hemmi e l’oro, rimaneva solo il gardenese Thoeni.
L’asso di Trafoi, olimpionico uscente, colui che più di tutti pareva leggere ogni gigante dall’alto di una classe cristallina, non riuscì, in-vece, ad interpretare il tracciato. Ingaggiò una lotta coi paletti e gli angoli, senza riuscire a trovare la chiave migliore per dar velocità alla sua azione. In ritardo ad ogni intermedio, finì per giocarsi il titolo olimpico e qualsiasi medaglia, chiudendo sul legno del quarto posto: Heini Hemmi era il nuovo monarca a cinque cerchi!
Come per il saltatore in alto Dick Fosbury nel ‘68, la gara olimpica, aveva presentato un vincitore dallo stile rivoluzionario, eppure, ancora una volta, una parte dell’osservatorio, non riusciva a notarlo, giudicando Heini, un vincitore tanto sorprendente quanto probabilissima meteora. Ma non fu così.
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I top-height del Gigante Olimpico di Innsbruck
1. Heini Hemmi SUI 3’26”97
2. Ernst Good SUI 3’27”17
3. Ingemar Stenmark SWE 3’27”41
4. Gustav Thoeni ITA 3’27”67
5. Phillip Mahre USA 3’28”20
6. Engelhard Pargátzi SUI 3’28”76
7. Fausto Radici ITA 3’30”09
8. Franco Bieler ITA 3’30”24

Heini Hemmi consolida la sua rivoluzione
La rivincita olimpica venne servita a Mont Sant Anne, in Canada, un mese dopo Innsbruck, ed il risultato diede occasione alla barbuta “piuma delle nevi” elvetica, di smentire quella parte dell’osservatorio che lo vedeva come vincitore fortunato e casuale delle Olimpiadi. Heini vinse quel gigante con quasi 3” di vantaggio su Piero Gros, quasi 4” sul connazionale Good, ed a quasi 5” finì Stenmark! Fu proprio lo svedese a dichiarare che il piccolo svizzero “stava insegnando a tutti come si deve interpretare uno slalom gigante”. La stagione seguente fu la consacrazione di Hemmi, che vinse in Coppa del Mondo in Val d’Isere, ad Ebnat Kappel e sullo storico tracciato di Adelboden. Ai tre successi, aggiunse i secondi posti di Garmisch e Sierra Nevada, ed il terzo di Sun Valley. A fine stagione si fregiò della conquista della Coppa di specialità. A quel punto, anche chi ave-va sostenuto fosse una meteora, fu costretto a ricredersi.
Nel frattempo, sulla sua scia, anche il fratello minore Christian iniziò a piazzarsi fra i migliori, pur dimostrando di non riuscire ad interpretare al meglio l’invenzione di Heini.
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Nel 1978, l’esplosione del talento di Ingemar Stenmark, costrinse il maggiore degli Hemmi ad un’infinità di piazzamenti: tre secondi posti, quattro quarti posti ed un quinto. Soprattutto finì quarto ai mondiali di Garmisch e quel risultato lo convinse a chiudere con la stagione successiva. L’ultimo anno d’attività della “piuma delle nevi” a cui or-mai tutti avevano copiato lo stile, fu comunque denso di prestigio. Nei dieci giganti di Coppa del Mondo, salvo in due occasioni, chiuse sempre fra i primi cinque, ed il 19 marzo 1979, sul pendio di Furano, in Giappone, a 30 anni già compiuti, recitò il suo ultimo canto, giungendo secondo dietro a Stenmark, ovvero a colui che più di ogni altro, fece divenire la sua invenzione, la perfezione dello sci fra i paletti o le porte.

Heini Hemmi si ritirò ad insegnare e ad avviare una attività commerciale fra i suoi monti, lasciando ad altri il compito di rendere immortale il suo gesto. Ma chi ha avuto la fortuna di vederlo mentre accarezzava la neve, non scorderà mai quella sua versione. Un grande.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#5
Mitologia: Pantani insieme moderno di Apollo e Pan.

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Un tempo, la mitologia era un motore degli studi classici, un riferimento per costruire nei giovani il volto vero delle metafore, ed a concepire il versante più profondo della retorica. La fantasia greca, che era stata sì capace di condensare quel pragmatismo che portò al dominio militare senza disperderne mai gli aspetti culturali, trovava nella mitologia, tanto la sovrastruttura della religione pagana, quanto il solco più evidente di un’antropologia che ha poi segnato l’intera storia umana. Quel tronco culturale che è passato sull’intera terra attraverso le trasmissioni delle conquiste, dei cambiamenti sociali, degli stessi confini fra popoli e stati, s’è inchinato anch’esso alle sempre crescenti barbarie dei difetti umani spinti all’ennesima potenza dal danaro, ma non è scomparso. Nella nostra ellisse, fra gli istmi e le autostrade più apparenti che reali del nostro cammino, quel filone culturale che potremmo ormai definire ancestrale, ogni tanto fa capolino e lo ritroviamo come un’oasi che ci può far sognare, fantasticare, ma anche insegnarci un’elevazione che i pragmatici bigliettoni, mai e poi mai potranno. Sì, la mitologia, che i vecchi come me han sempre tenuto come autoctona riserva per sorridere nell’interno, aldilà dell’apparenza esterna, continua a generare i suoi impianti e le similitudini nell’ogni incontro, fino ad intenerire ed alleggerire l’animo verso il prossimo. Della fantasia greca, prima ancora dei sontuosi ed illuminati ricettori romani, giungono richiami che si librano inimmaginabili anche in chi sembra moderno o troppo figlio dell’odierna “era della fretta”. E’ trascinante condensare quei flash fra passato lontanissimo ed immaginario sulle spalle di figure presenti, ma diverse dal solito, le stesse che avrebbero spinto quei fulcri ellenici, a sfornare mito su un campo d’azione particolare: un distinguo da seminare sulla terra per avvicinarla al cielo.

Quando incontrai i primi segni di Marco Pantani ne rimasi affascinato, ma il fascino era ancora troppo debole di fronte al pragmatismo del narratore intriso di cronaca, di quel giornalista mai consideratosi tale, ma ugualmente votato al ruolo. La conoscenza diretta aumentava l’interesse, iniziava a far da strada al sogno e alla fantasia su un ragazzo che già appariva troppo anomalo per non entrare nel territorio degli artisti. Lui si muoveva con l’istinto, con le sensazioni per provare compiutamente se stesso. Che mi piacesse sempre più era normale, troppo normale per rimanere sulla crosta di quello status e quando il tempo, gli incontri, ed i suoi voli iniziarono la continuità dell’essenza, mi ritrovai a scavare sulle mie autoctone pagine, là, in quegli angoli che davano anche a me, il piacere di volare. Negli anni mi feci l’idea che la mitologia in qualche modo avesse di Marco tracciato qualche stampo involontariamente imitato, un qualche emulo da togliere dal condensato per capire quel ragazzo che dipingeva ogni cosa che toccava, nella sofferenza e nei disagi, quanto nelle gioie. Mi colpiva un aspetto: i suoi allenamenti totalmente istintivi e densi dell’intuito di chi sa leggere se stesso come nessuno, senza sapere quali motivazioni, magari scientifiche, ne fossero alla base, erano un riferimento, nelle sue zone, per giovani pedalatori del mezzo bicicletta, per la gente che poteva essere lungo le strade a ricercare un’occasione per vederlo. “Ho incontrato Pantani” – mi disse un giorno un giovane juniores appena mi vide. “Ho pedalato senza staccare gli occhi da lui, dal suo stile, dalla sua leggerezza, tanto, ma tanto di più di quando lo vedo in televisione, dove pure mi incollo sul video. Ero ipnotizzato e non sentivo la fatica. Era troppo bello stargli a due passi, nel silenzio di una strada di montagna”- continuò come se il suo sguardo fosse un orizzonte. “Oggi sono stato fortunato, ho visto qualcosa che né la televisione né la tanta gente incontrata sulla bicicletta, mi avevano fatto vedere. Purtroppo sono stati pochi attimi, ma era tanto tempo che cercavo l’incontro con Marco, da sentirmi più che soddisfatto” – mi raccontò un vero cicloturista da quarant’anni sulle strade. “Se lo incontri su una carreggiata, ti nasce il bisogno di farlo sempre. E dire che non ero un suo tifoso” – mi disse un amatore di quelli che corrono inseguendo il sogno di essere qualcuno. Testimonianze a decine che m’han raggiunto negli anni fino a finire nella mia squadra, attraverso le parole di una che vedevo luminosa e che tolsi dall’abbandono della carriera. Una che poi, grazie anche alla mia ingovernabilità razionale, divenne grande fino ad entrare nel novero dei dieci leggendari delle doppiette che han segnato come nessuno la storia del pedale. Una che parlava poco, difficile alla partecipazione emotiva e al dipinto del sogno da esternare a qualcuno. Lei mi parlò con le lacrime agli occhi e dal suo racconto si formò compiutamente in me, quell’interno trasporto che univa, della mitologia, un fulcro dei suoi aloni con l’inimitabile Marco Pantani.

Quella atleta m’aveva aspettato pazientemente frenando la sua immanente voglia di raccontare per condividere. L’aveva fatto a margine dalla tavola dove le compagne parlavano di argomenti che in quel tardo pomeriggio vedeva tanto secondari alla luce che l’aveva illuminata. Non voleva graffiare quel chiarore che l’aveva avvolta fino a portarla a vedere in me, uno scrigno su cui depositare quel tesoro trovato per caso. Quando mi vide mi rapì per portarmi là dove nessuna collega poteva sentirci. Era decisa, come non l’avevo mai vista. I suoi occhi neri brillavano come fossero rinfrescati da quella sottile patina che solo le lacrime di gioia sanno creare. Aveva incontrato Marco e me lo voleva dire. Sì, proprio lei, che era la compagna di uno dei gregari più importanti del suo principale avversario, era rimasta folgorata da quell’incontro. “Mi ha come preso per mano – esordì – mettendomi a mio agio col racconto di quel giorno sulle montagne dell’altura colombiana, dicendomi dei colloqui in corsa fra lui e chi sai, della sua impossibilità di scattare come voleva per la pioggia che aveva reso scivoloso un asfalto molto strano. Della consapevolezza che di questa sua impossibilità aveva un avversario che considerava leale e che stimava, ricambiato. Dovevano correre per il mondiale, erano i più forti, ma furono beffati da un campione normale. M’ha raccontato del suo amore verso la bicicletta e di quanto sia importante viverlo, sempre, come il primo giorno. Mi ha incoraggiata, dicendomi che sono brava e di quanto sia bello il mio stile tanto simile a quello del suo avversario. Secondo lui, prima o poi, diventerò una figura importante. S’è poi interessato alla mia storia e al nostro mondo, dicendomi che è necessario farci sentire, perché il ciclismo, sport di fatica e di valori, non può continuare a vivere con queste sproporzioni fra uomini e donne. Ad un certo punto, s’è ricordato che doveva raggiungere i compagni e, dopo essersi scusato, l’ho visto allontanarsi fino a sparire all’orizzonte con una velocità mai vista. Lui è immenso, non ha solamente il fascino dei campioni, ma qualcosa di molto più grande. Non mi chiedere cosa sia però, perché non sarei capace di spiegarlo nemmeno nella mia lingua”. L’avevo lasciata parlare di getto senza accennare il benché minimo frammezzo. Non l’ho mai più vista così, nemmeno quando conquistò eccelsi traguardi. Alla sua ultima frase, le lacrime, che le erano cresciute mentre il suo racconto scorreva, avevano raggiunto l’intensità ed il suono del pianto. Era l’emozione di una gioia.
Dopo poco più di un mese da quella sera, il 5 giugno 1999, l’omino perfetto su una bicicletta, colui che dipingeva tutto ciò che toccava fino a creare in chi poteva, l’intima volontà di incontrarlo sulle strade montane, fu sfregiato e colpito. Per un normale, magari intriso d’ipocrisia, opportunismo e cattiverie tipicamente umane, il colpo sarebbe stato assorbito, per un artista supremo no! Se non fosse stato così, non l’avremmo mai raccontato e gli sguardi non avrebbero mai accompagnato l’intensità di quel coacervo di emozioni che stanno fra gli occhi e il cuore. E come tutte le storie che si vogliono perfide, al colpo che straziava l’artista che si condensava nel mito, fece seguito la tortura più becera: quella che congiunge sinergica la bocca mefitica dei media, con l’inconsapevole incapacità di riconoscere il boia che può giacere in una toga.
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Nei miei voli interni e totalmente autoctoni, fu l’incontro di quella mia atleta con Marco, a definire la cornice del riferimento mitologico per quel ragazzo così unico sulla bicicletta, che tutti volevano vedere da vicino, sulle medesime strade e traiettorie, per poter dire: “L’ho visto dal vivo, senza il confronto con gli altri e me lo sono impresso nel cuore”. Già, quello che scorreva, finalmente s’era congiunto e si imponeva: “Marco era una figura che sublimava Pan e Apollo!” Un po’ l’uno, ed un po’ l’altro.
Della divinità arcadica Pan, addirittura iniziale del suo agnomen, raccoglieva l’imprevedibilità (sia nel tratto agonistico di gara, che di allenamento), l’amore per le forme artistiche (per Pane, come era altresì conosciuto quel dio, la musica e la danza; per Pantani la pittura, la musica, la stessa danza, ed una sottile vocazione poetica che superava le difficoltà sintattiche). Il dio proteggeva i cacciatori ed i pescatori, a cui era legato perché li vedeva come forme estreme, o acute, di quella natura contenitore esaustivo del bisogno primario dell’uomo: sfamarsi. Per cacciare e pescare servivano pure doti di furbizia, intelligenza, resistenza, ed istinto. Marco difendeva (inascoltato o usato) la sua categoria, ovvero quei ciclisti che sono spesso cacciatori e pescatori in un mare di resistenza, dove per emergere, non basta essere lì, ma servono tutte le facoltà di nascita. Di loro era sindacalista prima ancora che per ruolo, per il bisogno di difendere l’essenza della natura dello sport, ovvero, proprio l’atleta. Pan, quando era spinto dall’amore verso la naiade Siringa e lei per respingerlo si trasformò in una canna con un aculeo (di lì il termine “siringa”), seppe far diventare quell’arnese un flauto dal suono melodioso e trasportante. Pantani, nell’immedesimarsi sul sentito dipinto del ciclismo, modificò senza cancellare l’umana sofferenza, la fatica e la cattiveria delle asperità, in un inno alla bellezza di quella prova, fino a donare in chi lo guardava, l’ebbrezza e la leggerezza d’un gioioso sogno. Pan, era il dio delle selve che erano i luoghi in cui si confondeva; Marco, nei suoi dipinti, portava quei boschi che erano per lui un riferimento e che avrebbe sicuramente vissuto con intensità più estesa, se non fosse nato in quest’era metallica, intrisa dei connotati dello stress e del superficiale. La divinità arcadica era protettore dei greggi o pastori e ne presiedeva il sonno sul mezzogiorno, ma concedeva loro pure il sogno rivelatore del futuro, a volte denso di terrore (di lì il termine “timor panico”). Pantani, alle genti moderne, nelle ore di libertà, donava un gesto sublime da viversi come la costruzione, mattone su mattone, di un’illusione, ma spezzava quegli incantesimi nelle altre ore del giorno, attraverso frasi rivelatrici (spesso inascoltate), quasi sempre avveratesi, alcune così pesanti per le crude verità contenute, da spingere i carnefici alla sua possibile soppressione: in fondo era un uomo, quindi vulnerabile. Pan, non simboleggiava valore sociale o morale, ma l’istinto. Marco, i valori li voleva simboleggiare nelle interpretazioni delle gesta, non voleva ergersi esempio per confondersi prete in un mondo che i preti non li possiede manco quando ne portano vestigia, mentre dell’istinto era supremo siamese. La divinità arcadica, per il suo naturalismo, ed i significati del suo nome tradotti alla lettera dal greco (Pan, significa “il tutto”), spinse la filosofia a definire “panteisti”, coloro che affermavano che "tutto è Dio", oppure che "tutto è divino", identificando la natura come somma divinità. Panteisti furono, tra gli altri, Johannes Eckhart, Giordano Bruno, Friedrich Schelling e Wilhelm Hegel. Marco Pantani, ha avuto tutto per fare di lui l’ispiratore di una corrente che vuole leggere le gesta sportive, dall’interno del talento. Del genio e dell’istinto portato sulle strade da allenamenti pettinati e da una vita che concedeva ai centri nervosi l’importanza di non sottrarsi alla vita stessa, nel giusto dosaggio che le proprie facoltà istintivamente consentivano. Non l’uomo che diventa campione attraverso programmazioni da monaca di clausura, ma atleta che si priva fisicamente e mentalmente il limite minimo possibile, per raggiungere, nel proprio acuto dipinto, l’espressività più vera, profonda e intensa. Dell’atleta che insegna agli allenatori, quanto sia, proprio il talento, la prima ed insostituibile pagina da mettere nel cuore e nel cervello, affinché lo sport divenga realmente una testimonianza del sublime dono della vita. Un’ellisse che non va mortificata con fili, macchinari, impulsi e quadranti di quell’orrida e criminale matematica che vuole dare esattezza e risposte, a ciò che è più grande di noi, perché l’ignoto l’ha impresso, senza leggi, all’interno dell’insieme d’un copro e di una mente.
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Apollo, che nella mitologia possiede diverse sovrapposizioni d’epigone col meno noto Pan, era il dio della luce, delle arti e della bellezza. Un dio che era arrivato, pur nelle immediate dimostrazioni di divinità, alla considerazione piena del ruolo, con grandi difficoltà indipendenti da lui. Di questa figura mitologica, Marco, ha rivissuto il tratto più completo e convinto. La luce di Phoebos (il brillante greco, altro nome d’Apollo), viveva in Pantani quando lo incontravi sui segni della sua gestualità sulla bicicletta. Era il trasporto narrato da chi lo incontrava in allenamento, prima ancora di ciò che si vedeva quando partiva nei suoi voli d’impresa agonistica. Era il fascino che trasmetteva e che assumeva, sempre, la luminosità nelle trasposizioni figurate. Che fosse un artista nel suo modo di concepirsi ignaro del resto, ma solo vivendo le voci ed i richiami del suo interno, non è un pallino delle mie convinzioni, ma una lettura per chi gli stava vicino e non lo viveva con la perfidia dell’interesse e del tornaconto. A parlare per Marco ci sono i raffronti, le tracce indelebili, riassumibili nell’intensità di altre forme del suo tratto: i dipinti innanzi tutto. Nessuno può negare quanta musicalità vi fosse nella sua pedalata e poesia nel suo modo di scrivere, aldilà degli errori in italiano. La scelta istintiva degli aggettivi, alcuni da pensare sconosciuti per uno di siffatta scolarità, eppure presenti fino al grido, come una disperata ricerca di far capire la necessità di una riflessione pronta all’inversione o alla constatazione, sono tutti aspetti peculiari della poesia. Indi, la bellezza vissuta sullo stile perfetto che diventava ancor più evidente, quando la fatica confondeva l’umana sofferenza, ed ogni singolo tassello del gesto, assumeva la verità dell’essenza. La scalata di Oropa, incredibile a dirsi, ha trovato nell’impresa agonistica eccelsa, un fatto secondario rispetto alla perfezione stilistica che portava sul mezzo, la trasmissione più fedele possibile delle sue qualità fisico mentali. Mai ho visto una tale congruenza nell’intero sport. E dire che tutto ciò che si poneva fra Marco e la bici, era il frutto del suo seminato istintivo. Infine, per completare il confronto col mitologico Apollo, i suoi incidenti di percorso, prima della definitiva consacrazione. Già, se per la divinità erano gli altri dei, ed in particolare Zeus, ovvero suo padre, nonché sommo d’Olimpo, a creargli difficoltà di percorso, sottoponendolo a penitenze e conseguenti purificazioni, anche per Pantani, ad un certo punto, sembrò farsi insuperabile l’avversità del fato. Per questi motivi perse tappe importanti del suo segmento umano, ma seppe sempre rialzarsi fino a divenire invincibile fra i propri compagni d’essere. Non si rifece solo di fronte all’agguato che era stato scelto per lui, al fine di definirlo, appunto, un uomo. Lì fu ucciso, ma nonostante lo scopo raggiunto dai carnefici a livello terreno, non fu ammazzato il suo mito. Sì, proprio quel mito che urla ogni notte nelle rarefatte coscienze di quei boia, per trafiggere con l’arco d’Apollo, il loro umano senso di panico.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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FANNY BLANKERS KOEN

La mamma volante

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La grandezza e l’unicità di Fanny (chiamata da tutti Francisca), morta il 25 gennaio 2004 ad ottantacinque anni, eletta “Atleta del secolo” scorso dalla IAAF (Organizzazione Mondiale di Atletica Leggera), non poteva ricondursi ad una sommatoria di dati. Un grande campione dello sport, come ho più volte sostenuto e scritto qui come altrove, è per me un artista (tanto più quando andiamo indietro nel tempo, nell’era che non conosceva le alchimie chimiche dell’oggi), esattamente come lo sono per la considerazione generale, pittori, scultori, musicisti, ecc. Non c’è nessuna differenza, perché parliamo sempre di forme espressive. Anzi, lo sport, contenendo nel proprio seno elementi d’oggettività, è sicuramente la parte più onesta del mondo dell’arte. L’unica, che si può permettere di azzittire un poco, i cosiddetti “critici”.

Fanny Blankers Koen.
Francisca, non si è mai chiesta cosa fossero le stimmate della campionessa. Era troppo modesta come comportamento e contemplazione, perché un simile quesito non la portasse ad un confronto per lei sempre irriverente. Il suo sguardo e la sua mente guardavano oltre, sugli orizzonti di una battaglia che vedeva superiore e che sentiva come una ragione vera per cui spendersi. Lì, solo lì, era per lei giusto donarsi con grinta e determinazione. Le gare erano lo strumento, l’idioma sul quale portare un contributo. Le mete e le ragioni nate da un pulpito che s’era costruito con la storia, stavano nelle varie facce da unire insieme, sul tema propulsivo dell’emancipazione femminile. Per farlo, doveva essere donna in tutto: nella naturalezza della provenienza, nel dire al momento opportuno quanto, ogni singolo passo, dovesse far capire che sulle differenze ci doveva stare la verità della parità, fra le due versioni del genere umano. La sua vita, partendo dallo sport, è stata questo. Non si è mai adagiata al successo e alla fortuna di nascere, appunto, con stimmate rarissime. Lei, era una via utile per costruirne altre, al fine di raggiungere una meta. Lo ha detto fino all’ultimo dei suoi tanti giorni.
Francisca, era il nome non ancora d’arte, che le avevano dato fin da quando, ancora bambina, a scuola, si permetteva di nuotare e correre più forte dei maschietti. Lei era Fanny Koen, una promessa dello sport per quei pochi figli del tempo sì maturi dal concepire, anche per le donne, questa forma d’arte. Lei, ormai ragazzina e col corpo che sbocciava massimo in ogni singola componente, sapeva benissimo quanto fosse rara, quasi un’intrusa per le leggi del periodo e nella sottovalutazione degli sguardi. Intanto, continuava a mietere vittorie sui coetanei, quasi fosse una missione. Un maschiaccio? No, una fanciulla che incontrò presto il menarca, la femminilità, il corteggiamento e quel sentito bisogno di essere una donna, ma con la medesima dignità dell’uomo. Battere i ragazzi era come urlare questa necessità che le amiche già non vivevano più, rassegnate com’erano al ruolo di inferiori, da destinarsi al servizio degli esseri del sesso dominante. Francisca ne era consapevole istintivamente.
Si sposò presto con Jan Blankers, insegnante di educazione fisica ed allenatore di salto triplo, ma anche giornalista. Doveva ancora compiere ventidue anni. Anche il ruolo di mamma le giunse veloce, poco più di un anno dopo, quando la guerra stava già dimostrando i suoi terribili segni. Nei rari momenti in cui l’angoscia ed il sangue del conflitto, lasciavano spazi all’oasi di un momento di luce, trovò il modo di deliziare con imprese sportive che apparivano, al risicato osservatorio dell’infausto momento storico, dei veri e propri inni alla vi-ta. Coprì il suo innato ruolo d’esempio, scolpito nel corpo e nella mente, anche in quel tragico periodo. E quando gli echi e gli orizzonti della guerra si stavano afflosciando negli isolati colpi di coda, la-sciando posto all’alba di una nuova vita, concepì una nuova maternità che si librò concreta nel tempo del sole della ricostruzione. Diede alla luce una piccina che l’accompagnò chiedendole latte, proprio durante il primo grande appuntamento agonistico del dopo conflitto: i Campionati Europei di Oslo nel 1946. Lei, Fanny, fra una gara e l’al-tra, continuava ad allattare la pargoletta, la quale, in braccio a papà, aspettava puntualmente il seno dell’imbattibile mamma, fra una batteria e l’altra. L’osservatorio, stavolta ben più gonfio dei tempi di guerra, le coniò, nell’emozione, l’appellativo di “Mamma volante”. Era sempre più un esempio, ma ancora in troppi non capivano.
Francisca, all’alba dell’Olimpiade di Londra, nel 1948, subì il sempre crescente affronto del mondo imbrattato dalla pomposità maschile. Le si diceva che il suo dovere era accudire i suoi bambini, piuttosto che ambire alla medaglia d’oro. Altro affronto, quando Jack Crump, tecnico della Gran Bretagna, considerato colui che poteva allenarla al meglio per l’appuntamento, l’allontanò liquidandola con un giudizio lapidario: “Troppo vecchia per pretendere di vincere!”
Francisca aveva trenta anni, due figli e s’allenava ad intermittenza, ma lei aveva le stimmate di nessuna. La previsione di Crump, fece una stupida fine: pochi giorni dopo, nello stadio olimpico, divenne la leggendaria “mamma volante”, vincendo, unica donna nella storia dell’atletica leggera, quattro medaglie d’oro nella stessa Olimpiade! Quando tornò ad Amsterdam, fu accolta come una regina. La gente comune era fiera di lei e il suo obiettivo di dare un forte contributo all’emancipazione femminile, sfogliò la sua pagina suprema. Qualche anno dopo, quando era ancora capace di essere fra le migliori atlete del mondo, “Francisca” Fanny Blankers Koen, si lasciò andare ad una delle tante riflessioni-confessioni a cuore aperto che hanno contraddistinto la sua vita. Con dolcezza, arricchì i taccuini di quei tanti bravi giornalisti, che oggi son più rari di un tapiro nel centro di Milano. “L’atletica – dichiarò- è stato il mio strumento di donna, per dimostrare, nella diversità dei sessi, che abbiamo gli stessi diritti e le stesse bravure degli uomini. Non penso al danaro e non l’ho mai cercato o voluto, anche quando ero ai vertici. Mi piace l’atletica, perché è lo sport più completo e perché mi permette di vivere al meglio la mia natura. Mio marito lo sa da sempre, mentre i miei figli lo stanno imparando col linguaggio della loro età. Ognuno, uomo o donna che sia, possiede dei sogni, ed è giusto provare a renderli concreti. Quando c’era la guerra pensavo di non gareggiare più, per motivi superiori. Sono scampata al conflitto, ed era nella naturalità delle cose tentare di vincere un’Olimpiade, anche se l’età non era più verde ed ero mamma di due bambini”. Era l’estate 1954. L’anno dopo vinse il suo ultimo titolo nazionale nel lancio del peso, a 37 anni.
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La storia agonistica di Fanny Blankers Koen.
Francisca naque ad Amsterdam il 27 aprile 1918. Fin da bambina, le sue qualità fisiche apparvero evidenti. Iniziò col nuoto, ma ben presto l’abbandonò per dedicarsi all’atletica leggera, grazie anche alla grande passione dei genitori verso questa disciplina. Le sue qualità emersero subito. Appena quindicenne (caso rarissimo nell’intera storia di questo sport), stabilì il suo primo record nazionale assoluto correndo gli 800 metri in 2 minuti e 29 secondi. Stupiva per polivalenza e coordinazione, ma se il primo acuto avvenne sul mezzofondo, furono le gare di velocità ed i salti, ad esaltare le sue formidabili fibre bianche. A diciotto anni, si presentò alle Olimpiadi di Berlino, dove giunse sesta nel salto in lungo. Solo un anno dopo, era l’assoluta detentrice di tutti i primati nazionali nelle gare veloci, nel mezzofondo breve, sugli ostacoli e nei salti. Grazie a queste prestazioni, nel pentathlon, specialità non ancora ufficiale, era già, a soli diciannove anni, la numero uno del mondo. Non la fermò nemmeno la guerra, perché nelle rare occasioni di respiro lasciate dall’immane conflitto, Fanny Koen, nel frattempo divenuta signora Blankers, fu capace di stabilire diversi primati mondiali.
Ad Amsterdam, il 20 settembre 1942, corse gli 80 metri ad ostacoli in 11”3, eguagliando il record del mondo dell’italiana Claudia Testoni. L’avvenuto raggiungimento della maturità atletica fu dimostrato, ampiamente, l’anno dopo. Il 30 maggio ’43, sempre ad Amsterdam, stabilì il primato mondiale di salto in alto, con la fantastica misura, per quei tempi, di 1,71 metri. Da notare che il miglioramento di 5 cm, rispetto al precedente limite, detenuto dall’elvetica Pfenning, rappresenta ancora il più grosso incremento “ognisesso”, in un colpo solo, della storia della specialità. Il 19 settembre del medesimo anno, fece suo anche record mondiale di salto in lungo, raggiungendo i 6,25 metri. La valenza tecnica di questo limite fu poi dimostrata dalla sua imbattibilità per ben undici anni, un abisso per quei tempi. In quella occasione eguagliò pure il mondiale dei 100, ma il risultato non fu omologato, in quanto nato da una corsa…mista con gli uomini.
All’indomani del conflitto, si presentò agli Europei di Oslo, quando ancora allattava la figlia secondogenita. In quel ruolo così anomalo, partecipò a due gare, gli 80 ostacoli e la staffetta 4x100. Naturalmente vinse in entrambe, rispettivamente in 11”8 e 47”8. Nel 1948, a trenta anni, mentre si avvicinavano le Olimpiadi di Londra, stabilì, dapprima e nuovamente, il primato mondiale dei 100 metri, ma anche stavolta non fu possibile l’omologazione, perché il tempo era stata ottenuto in una gara con gli uomini, indi, il 13 giugno, ad Amsterdam, riuscì finalmente a prendersi quel primato ufficialmente, correndo per l’ennesima volta in 11”5. Una settimana dopo, il 20 giugno, stracciò se stessa, portando il suo mondiale sugli 80 ostacoli, da 11”3, a 11” netti. Francisca, la “mamma volante”, diveniva così, a trent’anni compiuti, la logica favorita di quelle specialità per le imminenti Olimpiadi.
Superò il vergognoso giudizio dell’allenatore britannico Jack Crump che non la volle seguire perché “troppo vecchia” e col solo aiuto del sempre presente marito, si presentò ai Giochi. Per una come lei, la scelta delle gare non fu facile, poteva schierarsi nelle gare di velocità, sugli ostacoli alti e nei salti, nonché nella staffetta veloce. Solo alla vigilia, e per precauzione di fronte al possibile stress da competizione, scelse di non esibirsi nei salti. Alla luce di quel che poi avvenne, questo suo forfait fu la fortuna di altre atlete. Certo, perché le Olimpiadi di Londra furono i Giochi di Fanny Blankers Koen!
L’olandese “mamma volante”, incantò al punto di oscurare i maschi, vincendo, unica donna della storia, quattro Medaglie d’Oro su quattro partecipazioni! S’aggiudicò i 100 metri nettamente, correndo, sulla lentissima pista londinese, in 11”9. Lasciò la britannica Dorothy Manley a tre decimi. Ancor più netta fu la sua vittoria sui 200, corsi in 24”4, ma infliggendo ben sette decimi alla seconda, l’atleta di casa Andrey Williamson. Un scarto come mai s’è visto nelle principali manifestazioni d’atletica, sia femminili che maschili! Più difficile fu il successo sugli 80 ostacoli, corsi in 11”2, un gran tempo, vista la pista. La graziosa britannica Maureen Gardner le giunse quasi a spalla, col medesimo rilevamento cronometrico. La differenza fu davvero minima. L’ultimo oro per Francisca arrivò dalla staffetta veloce. Fu un successo sul quale nessuno avrebbe scommesso, in considerazione del disavanzo che separava, all’ultimo cambio, la Blankers-Koen, dall’australiana King: ben sette metri. L’atleta degli antipodi era una delle più forti velociste mondiali, ma la “mamma volante si immerse nel vento e recuperò fino a superare e a lasciare l’avversaria ad un decimo. Fu un capolavoro. Fanny, eguagliò così il mitico Jesse Owens che, a Berlino ’36, aveva vinto quattro ori. Colei che non doveva correre, perché era più giusto accudisse i suoi due piccoli, o perché era troppo vecchia, era così giunta al mito e alla leggenda. Quando tornò ad Amsterdam fu accolta con onori mai visti. Percorse la città su una carrozza trainata da sei cavalli e le costruirono appositamente un monumento. L’Olanda era fiera di lei e grazie alle sue imprese, nel paese, la considerazione verso le donne, trovò quella svolta impensabile solo qualche tempo prima.
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1948 - 80hs, la sua vittoria più difficile.
Le grandi giornate londinesi, potevano rappresentare per Francisca il canto del cigno, o il modo migliore per lasciare l’agonismo, ma non fu così. L’atletica era una passione, non un mestiere, o una carriera verso la quale è necessario, in un dato momento, mettere il punto. La Blankers-Koen continuò, si divertiva troppo, ed il fisico risponde-va. Fece suo anche il primato mondiale sulla distanza non ufficiale delle 100 yarde e, agli Europei di Bruxelles, nel 1950, recitò un altro copione unico, vincendo 100 (11”7), 200 (24”), 80 hs (11”1).
La sua fama e la sua signorilità, avevano preso completamente il mondo dell’atletica. In ogni manifestazione, ogni atleta l’avvicinava per prendersi il suo sorriso e quella stretta di mano che, per Francisca, valeva come l’oro. Nel 1951, fu istituzionalizzato il pentathlon (allora composto da peso, alto, 80hs, 200, lungo), e lei, che di questo insieme di specialità, era la regina da quasi tre lustri, stabilì il suo undicesimo ed ultimo primato mondiale, totalizzando 4692 punti.
L’anno successivo si presentò alle Olimpiadi di Helsinki, debilitata da un’infezione curata malissimo, che non le precluse, comunque, il raggiungimento della finale sugli amati 100 hs. In finale però, non corse, in quanto le sue condizioni erano peggiorate fino al malore.  Continuò a gareggiare per divertirsi, mettendo il punto alla sua leggendaria carriera nel 1955, all’indomani del suo ennesimo titolo nazionale, giunto stavolta nel lancio del peso.

Cos’era l’atletica leggera nell’epopea di Fanny Blankers-Koen.
Una disamina completa delle differenze, nella disciplina, fra i tempi di Francisca e quelli odierni, sarebbe sufficiente per rendere entusiasmante un convegno di due giornate, o materia per una corposa pubblicazione. Mi limito qui, ad evidenziare i due aspetti più evidenti.
Gli allenamenti settimanali della Blankers Koen erano un paio, raramente tre e non superavano mai le tre ore. Si lavorava soprattutto sull’atletismo di base, con pochi richiami al lavoro specifico sulla tecnica. Il lavoro di potenziamento era limitato ad un’ora settimanale e si svolgeva con piccoli attrezzi e, solo raramente, durante la ferma invernale, subentravano i bilancieri. Su una polivalente come Fanny, si cercava più che altro di esaltarne gli istinti. In poche parole, era il suo fisico a dettare l’allenamento oltre i limiti, logici e sempiterni, della giustezza di un lavoro atto a non snaturare l’atleta. L’attività e la vita quotidiana lontana dalle piste, non teneva conto del ruolo di agonista; l’alimentazione era spesso inversa a quella di oggi, in quanto basata sulla convinzione che fosse necessario arricchirsi di proteine per sostenere la “forza” e di vitamine per la “forza resistente”. Non si usavano integratori, allora totalmente sconosciuti, ed il doping eventuale, era fatto di stimolanti semplici. Oggi si svolgono 5 allenamenti settimanali, con doppie sedute, mattutina e pomeridiana, differenziate negli obiettivi, ed un allenamento suppletivo, nella sesta giornata, con una tipologia dettata spesso dalla specialità: di solito si tratta di una seduta tecnica. In sostanza, il riposo si riduce ad un solo giorno la settimana (nemmeno sempre tra l’altro) e la ferma per “ferie”, ad un massimo di quindici giorni continuativi. A questo, si aggiunge un altro periodo di allenamenti “leggeri”, con uni-ca seduta giornaliera per un massimo di altri quindici giorni l’anno. Si lavora sulla forza in maniera continua e si usano gli attrezzi più completi. Ogni seduta raramente scende sotto le due ore. Accanto all’allenamento, insiste una quotidianità dove è l’attività atletica a determinarne i regimi. L’alimentazione, sempre corretta e spesso esasperata come una metodica siamese alla vita stessa dell’atleta, è un’altra costante. Si usano tutti gli integratori possibili, ed ogni particella dell’allenamento e dei suoi carichi, o della giornata dell’atleta, è studiata e curata su ogni particolare. Il doping eventuale, è sotto gli occhi di tutti, al punto di essere inconfrontabile con quello del tempo della Koen. Volendo fare dei confronti percentuali, fra l’atletica nelle specialità e nel tempo di Francisca e l’odierno congruente, senza mettere sul piatto il doping, si può tranquillamente affermare che l’olandese viveva la disciplina, per non più del 20% rispetto ad oggi. Se poi mettiamo nel contesto il doping, la percentuale scende sotto il 10%. Altro aspetto fondamentale, ed ovviamente evidente, di confronto, ci viene dalle piste o dalle pedane. La terra rossa o “tennisolite” della Blankers Koen, era ancora peggiore di quella di cui parlerò lungamente nel ritratto di Vilhjálmur Einarsson. Le buche, l’instabilità degli appoggi (deleteria soprattutto nelle gare ad ostacoli), l’affaticamento muscolare ulteriore, (fortissimo in caso di pioggia o di umidità), avevano una ragione di fondo superiore agli anni cinquanta, poiché le piste non venivano trattate oltre la normale manutenzione. In particolare, non venivano passati con dovizia e frequenza, sulla tennisolite, i rulli. La stessa morfologia della terra era diversa, in specie per la granulosità: più evidente negli anni quaranta, rispetto a quella della seconda metà degli anni cinquanta. Confrontare le piste o pedane della peggior terra rossa, col plastan di oggi, significa mettere sulla bilancia due “cose” diverse, la cui unica somiglianza viene dal colore rosso.
Ma in quanto potrebbe consistere la differenza in termini di decimi? Beh, non meno di tre decimi, grosso modo 35 centesimi. Ora, tenendo conto dei due mondi messi a confronto, ben si capisce che una Francisca sarebbe stata una dominatrice comunque, con risultanze che, oggi, farebbero gridare di entusiasmo ogni singolo osservatore.

Le peculiarità fisiche della Blankers- Koen.
Con una battuta dovrei subito dire: Francisca, la figlia delle fibre bianche! Già, la grande atleta olandese ne possedeva naturalmente in abbondanza. Le sue fasce muscolari erano una scultura. Cosce e polpacci da velocista naturale. Compasso lungo, anche se non lunghissimo, tronco altrettanto naturalmente portato ad aiutare e stimolare il prodotto del motore inferiore, ovvero le gambe. La corsa della Koen era lineare ed a passi frequenti, anche perché l’olandese era alta, ma non altissima. L’esplosività nelle partenze e nello stacco per ambedue i salti, le veniva dalle sue naturali fasce muscolari, ma le capacità coordinative e tecniche, erano un istinto che ha ereditato non in maniera totale dalla natura. Fu infatti la prima a provare la tecnica di permanenza in volo nel salto in lungo, la prima a studiare la corretta posizione delle braccia nella gara ad ostacoli, e la prima a lavorare sulla coordinazione che le serviva per affrontare al meglio la curva nei 200 metri. Insomma, una donna baciata dalla fortuna di nascere grande, ma pure di migliorarsi attraverso la correzione della osservazione e di quello che dava il pur lacunoso allenamento della sua epoca. Francisca, era una donna intelligente nella vita e lo è stata pure nel riporto della mente sul fisico. Inoltre, aveva capacità di concentrazione come poche volte s’è visto nella storia di questo sport. Esattamente sincronica alla passione che provava per l’atletica e all’obiettivo di essere uno strumento nella lotta per l’emancipazione femminile. Sembrano banalità, ma alla fine, anche ai suoi tempi, possedere una mente aperta ed attenta, con dei valori profondi, contava parecchio.

Come si giudicò lei stessa nel 1960.
“Devo i miei numerosi successi sportivi in un così lungo arco di tempo alla mia ottima costituzione, alla mia forza di volontà e al solido legame che mi unisce a mio marito, nonché ai sistematici allenamenti cui mi sono sottoposta sotto la sua guida sicura ed esperta. L’idea di guadagnare del denaro praticando lo sport mi è sempre stata del tutto estranea! Mi sono sempre dedicata all’atletica leggera per pura passione e l’atletica, che io ritengo la migliore di tutte le attività sportive, mi ha sempre da-to molto. Mi bastava aver la possibilità di viaggiare e vedere il mondo. Sono sta-ta tanto fortunata per questo.” Successivamente, con l’arrivo del tartan prima e del plastan dopo, nonché della esasperazione dell’allenamento, nel 1992, dichiarò: “Oggi, coi miei allenamenti bisettimanali, sicuramente non vincerei nessuna medaglia d’oro, al massimo raggiungerei una finale, ma queste sono le leggi della vita e del progresso della conoscenza. Avessi venti anni e non settantaquattro, sarei nelle condizioni delle odierne atlete, ma non mi chiederei mai cosa potrei vincere. Ognuna vive il proprio tempo.”

Aneddoti
Francisca, nella sua modestia, non ha mai perso il piacere di chiedere autografi. Nel 1972, durante le Olimpiadi di Monaco, andò verso Jesse Owens con foglietto e penna, come una delle tante. Lui la guardò intensamente, ed a quel punto, ella si presentò. Jesse sorrise e le disse: “Non si deve presentare, so benissimo chi è, e sono qui che tremo per l’emozione! Io le farò l’autografo, ma lei è obbligata a ricambiarlo con il suo!” Divisero il foglietto in due parti, si scambiarono il sigillo dei più grandi della storia e s’abbracciarono. Nel novembre 1999, a Montecarlo, prima di un’importante cerimonia che tratterò dopo, la “vecchietta” ottantunenne Fanny, fu avvicinata da un ragazzone con le spalle di un armadio, era Maurice Greene, l’allora uomo più veloce del mondo e primatista dei 100 metri: “Signora – le disse – non si stupisca, ma io so tutto di lei. Sarei onorato se mi facesse un autografo”. Fanny, la divina dell’atletica, colei che respirò come nessuna, il profumo delle tante variabili di questo meraviglioso sport, scoppiò a piangere. Con la forza dei tempi di dominio, cercò di non allungare quella emozione sì grande. In fondo, una gran parte di quella serata, era dedicata a lei e tutti avrebbero potuto fotografarla.

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Fanny Blankers Koen Atleta del secolo!
Agli sgoccioli del millennio, tutti gli sport si chiesero, aprendo le porte alle opinioni, chi era stato, disciplina per disciplina, l’atleta simbolo del secolo. La IAAF, l’organizzazione mondiale di atletica leggera, avviò come tutte un sondaggio, capace di coinvolgere ogni angolo di questo sport. In maniera plebiscitaria e senza bisogno di correzioni della dirigenza (com’è scandalosamente avvenuto calcio, a danno di Maradona e a favore di Pelè), uscì un nome: Fanny Blankers-Koen. La premiazione, con tanto di investitura, avvenne nel novembre 1999 a Montecarlo. Lei, l’indimenticabile “Mamma volante”, era già malata, ma la sua fibra ha saputo farle passare con dignità e lucidità altri quattro anni, su quel mondo che l’ha eletta immortale regina, del reame più vero degli sport.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#7
VILHJALMUR EINARSSON

L’islandese che amava l'aria

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Nell’atletica leggera, il salto triplo era, fra i salti, quello più penalizzato dal fondo in "tennisolite" (la terra rossa). Le buche ed i solchi che si disponevano facili all’incontro coi diversi piedi degli atleti, aumentavano l’instabilità del fondo e la reattività del salto, nonché la possibilità di infortuni.
Mai, come nella tennisolite, il detto di “accarezzare la pedana”, si dimostrava veritiero e opportuno. L’atleta era chiamato al primo stacco con la maggior potenza possibile e poi doveva sospendersi in volo, lasciando ai due appoggi seguenti, una redditizia e compostissima spinta, che si otteneva solo se a monte v’era una sospensione radente e, paradossalmente, vissuta come se si dovesse accarezzare la pedana. Insomma la si doveva radere, nella consapevolezza che una maggior trasmissione di forza sul primo e secondo appoggio, poteva ottenere effetti opposti ai desiderati. Un atleta dotato di una grande velocità di base, era favorito sulla “terra rossa”, in maniera ancor più evidente rispetto a chi ha potuto saltare sul tartan o sul plastan, in quanto, nell’economia del triplo, un primo salto più lungo, diminuiva l’impatto non facile degli appoggi intermedi. Certo, la tecnica radente e la capacità di non perdere velocità e coordinazione nel posare il piede sulla pedana, nonché rilanciarsi in aria, poteva consentire un recupero anche enorme, su quello che non era stato dato dalla spinta della velocità di base.
In questo contesto, un uomo venuto sconosciuto e misterioso da una terra freddissima, si dimostrò un maestro in grado di essere letto come un esempio di tecnica sopraffina. L’occasione di conoscer-lo, nello stupore generale di un osservatorio, allora tanto attento, quanto animato dalla volontà di imparare, si concretizzò d’improvviso, proprio nella massima occasione, l’Olimpiade. E fu così che sotto la Fiaccola Olimpica di Melbourne, nel 1956, l’iscritto al triplo più impronunciabile per nome, arrivato dalla sconosciutissima Islanda, diede a tutti sensazioni incancellabili: Vilhjálmur Einarsson.
I suoi salti radenti, accarezzarono la pedana dello stadio olimpico come fossero espressione di una farfalla, fino a scolpire la sua testa biondissima, sullo sfondo dei cinque cerchi e dell’immaginario di un pubblico ammirato ed entusiasta. Tutti guardavano quel nome stampato sui comunicati della manifestazione, provando ad enunciarlo e, probabilmente, storpiandolo come i primi approcci ad uno scioglilingua. Intanto lui saltava, ridonando emozioni e senso di leggerezza agli osservatori, quanto preoccupazioni miste ad ammirazione, agli avversari. Di lui non si sapeva nulla, gli stessi atleti non lo conoscevano: solo quel nome impronunciabile e quello stile tanto bello quanto redditizio. Vilhjalmur Einarsson non poteva saltare che così: la natura non gli aveva donato una velocità di base sufficiente per arrivare a spiccare un primo volo pronto a bucare l’aria. Lui, con questa ultima, si doveva confondere cercando di intenerirla, perché lo tenesse il più possibile avvolto nel suo fazzoletto invisibile, ma presente. Erano quegli attimi di tenerezza e di affetto a fargli allungare la caduta finale e decisiva. Uno spettacolo denso dell’io profondo che accomuna l’atleta, la sua mente e il contesto del gesto; un atto di amore senza far bestemmiare chi, di questa parola, conosce solo un significato; un’espressione di gratitudine come quella di una foglia che trova nell’aria, la protettrice ovatta che attenua la sua caduta sul terreno. Einarsson, era grandissimo perché era questo. Senza saperlo, vivendo nell’inconscio, l’istinto che divide il vero e grande, dal costruito.
Vilhjálmur finì per far tremare le gambe del grande brasiliano Ademar Ferriera Da Silva, primatista del mondo, campione olimpico di Helsinki e mostro sacro dell’atletica del tempo. Un uomo che si presentava atleta più dotato di spinta e velocità, poi finito a fare l’artista anche cinematografico. Vinse il carioca, ma fu una battaglia di puri gesti tecnici. La differenza, di soli nove centimetri, la fece quella natura che aveva dotato il brasiliano di un fisico tanto più potente di quell’uomo sconosciuto, venuto dal freddo di un piccolissimo e dimenticato paese che si credeva solo denso di ghiacci.

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Vilhjálmur Einarsson, era una realtà incancellabile, aldilà della medaglia d’argento conquistata. Era l’esempio di come lo stile e le facoltà nate per necessità istintiva, potessero dipingersi sulla tela immaginaria di un gesto. Un quadro, che avrebbe meritato, al pari di una reale pittura, il museo de l’Houvre. Era l’amante di quell’aria che se lo teneva fra le braccia, spingendolo dove i muscoli non sarebbero mai arrivati. La conquista della medaglia d’argento, mosse subito i giornalisti curiosi di sapere, di conoscerlo, di capire. Il cronista de l’Equipe, si fece capo di cercare un interprete islandese. Ma chi mai avrebbe potuto sapere l’islandese, un paese così piccolo e sconosciuto? La ricerca fu ben presto vana, anche perché in quei momenti, i secondi sono ore, ed è tale l’impeto di tutti coloro che devono raccontare, che ogni gesto o sillaba fa notizia particolare. Giorgio Oberweger, nel ruolo di giornalista-tecnico, indimenticabile ed illuminato, dopo esser stato un grandissimo atleta capace di giungere al bronzo olimpico nel disco a Berlino, urlò ad un collega tedesco, di provare a parlare con Einarsson in inglese. Fu un altro choc! Una dozzina di giornalisti, con tanto di taccuini accompagnati dai flash dei fotografi, si trovarono di fronte un atleta che conosceva l’inglese, assai meglio di loro. Certo, perché Vilhjálmur, quella lingua l’aveva studiata ed imparata alla perfezione al Dartmouth College, nel New Hampshire, dove si era diplomato. All’indomani della prima Olimpiade australiana, l’Islanda poté accogliere legittimamente quel suo figlio come un eroe, ma il ragazzone non si montò la testa e continuò ad amare l’aria, fino a disegnar sull’orizzonte la traccia delle pedane.
Nel 1958, dopo aver ospitato i Mondiali di calcio, la Svezia organizzò gli Europei di atletica leggera. Fu un’edizione molto sentita, perché il confronto fra i due sport, rappresentò per gli svedesi un’occasione per legarsi ancora alla regina atletica, nonostante sul campo verde fosse nata la stella di Pelè.
“La gente – mi raccontò l’amico, ex grande ostacolista, Germano Gimelli - soprattutto le ragazze, impazzivano per i nostri autografi, ci guardavano con occhi particolari. Eravamo degli idoli, prima ancora che dei giovani da amare in altro senso. Nello stadio, soprattutto nel campo di allenamento e rifinitura, sentivi la loro competente partecipazione. Ciononostante, ti trasmettevano quel calore che per uno come me, solo ventiduenne, era considerato impossibile in un paese nordico. Forse, anche per quello, non fui all’altezza delle mie grandi prestazioni di quell’anno!”
Bene, in quel clima così particolare, Einarsson, non più sconosciuto, ma divenuto evidente riferimento, portò i suoi capelli biondi, nell’amato triplo, ad una significativa medaglia di bronzo, proprio nella gara che rese notorietà internazionale, a quello che, per me, è nel podio dei triplisti più grandi della storia, il polacco Jozef Schmidt. Se Melbourne, poteva rappresentare l’eccezione di una sorpresa, o di una giornata di grazia, Stoccolma, elesse definitivamente Vilhjálmur, fra i grandi triplisti del mondo, ben aldilà del suo stile inconfondibile.

Einarsson dopo.
Alle Olimpiadi di Roma nel 1960, dopo aver portato ai campionati islandesi di Reykjavick, il suo limite alla fantastica misura di 16,70 (era la terza assoluta, ed uguagliava il mondiale dell’anno prima), finì quinto con 16,33, ma ormai il fenomenale polacco dominava i palcoscenici europei e mondiali.
Vilhjálmur Einarsson si ritirò a fine 1961 a soli 26 anni. Non poteva avere la totale assistenza dei suoi colleghi dei paesi comunisti, o quei già presenti soldi, nonché le “particolari borse di studio” delle federazioni o delle università dei paesi occidentali evoluti.
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Iniziò così la sua attività professionale nel campo dell’insegnamento delle scienze, fu anche preside e pittore, ma nessuno, di quelli che l’han visto saltare, potrà dimenticare il suo stile radente che si confondeva con l’aria, cercando l’amore di questa, per tenerlo in sospensione. Un grande. Anche suo figlio Einar Vilhjàlmsson e stato un atleta: specialista del lancio del giavellotto, ha partecipato alle Olimpiadi di Los Angeles, Seul e Barcellona. Vilhjálmur Einarsson è morto a Reykjavík il 28 dicembre 2019. Aveva 85 anni.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#8
EDWARD RUSSELL “MOCKA"” MOCKRIDGE

Un fenomeno!

Nato a South Melbourne il 18 luglio 1928, deceduto a Clayton North il 13 settembre 1958. Velocista e passista. Professionista dal 1954 al 1958 con oltre 20 vittorie.
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"Mocka" (il diminutivo col quale lo chiamavano tutti), non è stato solo uno dei ciclisti più grandi d'Australia, ma uno dei campioni tra i più incredibili e nel contempo affascinanti della storia del pedale. Uno che sulla bici sapeva fare di tutto, dal fisico pazzesco e con una straordinaria promiscuità di fibre in grado di rendergli possibile ogni variabile di questo sport. Per intenderci uno che oggi verrebbe studiato. Aveva solo un difetto, che fu la fortuna del ciclismo, perché lo portò a salire sulla bicicletta, anziché dedicarsi al cricket o al rugby o al football australiano, che erano le discipline che più amava fin da bambino: era miope. Costretto a portare gli occhiali fin dalla tenerissima età, Russell, figlio di genitori benestanti, si trovò suo malgrado, mentre i compagni di College costituivano l’equipe scolastica su discipline di squadra, a scegliere uno sport individuale come il ciclismo. Acculturato come pochi e con la madre professoressa attenta come nessuna affinché imparasse un inglese perfetto, il giovane Mockridge si allineò alla sua prima corsa ciclistica soltanto a 18 anni, nel 1946. Fu un debutto incredibile, perché con una bicicletta poco provata prima ed autentico ferro vecchio, quasi di stampo civile, sbaragliò il campo. Al punto di convincersi che il ciclismo poteva essere davvero il suo sport. Si guadagnò la selezione olimpica per Londra ’48, praticamente senza mai perdere. Ai Giochi fu schierato nel quartetto dell’inseguimento su pista (fino ad allora poco frequentata da Russell), dove gli australiani furono eliminati nei quarti, nonché nella gara su strada, dove fu tagliato fuori da due forature. Ciononostante, inseguì da par suo e s’accodò al drappello di testa proprio mentre questi svolgeva lo sprint decisivo: chiuse 26°. Tornato in patria continuò a correre, ed a vincere, senza però correre tantissimo. Nel 1950 ebbe una crisi verso le gare su strada, non di risultati, ma la voglia di provare la pista ebbe il sopravvento. Provò la velocità e fu subito vincente. Provò il chilometro con partenza da fermo e fu subito vincente. Provò l’inseguimento e fu ancora subito vincente. Con poche gare alle spalle nelle tre specialità fu schierato nelle medesime ai Giochi del Commonwealth che si tenevano ad Auckland, in Nuova Zelanda: vinse l’oro nella velocità, nel chilometro e l’argento nell’inseguimento, battuto di un niente dal britannico Cyril Cartwright che, nel ’49, era giunto secondo ai Mondiali. L’Australia aveva trovato un fenomeno e lo stresso osservatorio internazionale lo confermava. Ma al ritorno in patria, Russell, decise di abbandonare il ciclismo, lasciando tutti stupefatti. Iniziò a lavorare come giornalista e si iscrisse all’università, deciso a diventare un pastore anglicano. Per più di un anno quasi non toccò la bici. Poi, d’improvviso, cambiò idea di nuovo e riprese lo strumento. Una sola gara nella velocità, bastò per selezionarlo per i Mondiali del Vigorelli di Milano del 1951. Prima dell’appuntamento iridato però, partecipò ad un grandissimo evento, un vero e proprio Mondiale Open anticipato: il Gran Premio di Parigi.
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Sul velodromo del Parco dei Principi, l'aussie sfoderò una serie di volate da annichilire tutti i più forti velocisti mondiali, professionisti ovviamente compresi. La sua vittoria fu così convincente da mettere in straordinaria agitazione il mago dei maghi Giudo Costa, commissario tecnico della nazionale italiana, già in possesso di quella che per quindici anni rimarrà la più bella e numerosa generazione di velocisti che un paese abbia mai avuto.
Dopo due settimane da Parigi, il calendario presentò gli annunciati campionati mondiali al Vigorelli di Milano. Nel tempio internazionale della pista, l'Italia non poteva fare cilecca. La sagoma di Russell “Mocka” Mockridge non faceva dormire il tecnico italiano chiamato a dover scegliere i due velocisti da schierare fra i tanti a sua disposizione. Nella mente di quello che rimarrà probabilmente uno dei più grandi tecnici mai esistiti, emerse la convinzione che il grande talento australiano poteva essere battuto solo con due velocisti, di cui, uno, si sarebbe dovuto sacrificare totalmente all'altro.
Allora la velocità proponeva scontri a tre e non a due, dall'inizio del torneo fino alla finalissima. Costa, una settimana prima dei mondiali, radunò i giornalisti (allora presenti a fiotti a seguire le vicende della pista) e, senza mezzi termini, affermò che la finale della velocità dilettanti avrebbe messo di fronte Mockridge e i due italiani che stava per selezionare. Si correva dunque a Milano, ed un giovane milanese doc, Antonio Maspes, godeva di tante e meritate attenzioni, anche perché in possesso di un talento come mai si era visto sui tondini ma, nel contempo, amante come nessuno fra i corridori dell'epoca della bella vita, in particolare notturna.
Fra gli italiani l'ancora numero uno Enzo Sacchi, soffriva particolarmente l'estroso ed emergente Maspes, ancora numero due, ma solo diciannovenne. Costa sapeva bene che se avesse schierato i due più forti, questi si sarebbero scannati fra loro, a vantaggio della furia australiana, così scelse il gigantesco e resistente Marino Morettini.
Il mondiale andò come aveva previsto Costa, ed in finale arrivarono Sacchi e Morettini contro "Mocka" Mockridge. Vinse Sacchi sull'australiano, ma Morettini fu decisivo e senza di lui, sarebbe stata davvero durissima per l'allora 23enne italiano.
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La fama di "Mocka", già nota dopo Parigi, si andò così a rafforzare ulteriormente, fino a farne una stella del mondo dei velodromi. L'Australia in quei tempi non aveva solo Russell, ma anche quell'autentico fenomeno di Sidney Patterson, l'unico nella storia a vincere un mondiale sia nella velocità che nell'inseguimento. Sidney era una persona tanto virtuosa quanto straordinariamente simpatica che ha lasciato ricordi indelebili a tutti i corridori del tempo. Oltre a Patterson c'erano poi "l'ombra" di Mockridge, il velocista Lionel Cox, l'inseguitore Tressider, il mezzofondista Bunker e, dalla Tasmania stava arrivando un altro stayer di spessore addirittura superiore, Graeme French (che conquisterà poi l'iride della specialità nel '56).
"Mocka", a differenza di questi grandi aussie, si faceva riconoscere oltre che per lo straordinario talento, anche per la sua stravaganza ed i repentini cambiamenti di passione. Una dimostrazione la diede proprio nell'anno che lo rese celebre, il 1952. A venti giorni scarsi dall'Olimpiade di Helsinki, Russell si presentò al GP di Parigi nelle vesti di vincitore uscente. Stavolta, non poteva giocare sull'arma della sorpresa perché era da tutti temuto. Bene, uno alla volta mise di nuovo in fila ogni avversario, irridendo persino il campione mondiale dei professionisti, l'inglese Reginald Harris, ovvero quello che era considerato il velocista più forte di quei tempi. Questo ulteriore schiaffo all’olimpo mondiale della regina della pista da parte di Mockridge, anche per lamentele dei prof,  spinse gli organizzatori del gran premio parigino a dividere le edizioni future del Gran Premio fra dilettanti e professionisti. E quando tutti si aspettavano "Mocka" come l'uomo da battere alle Olimpiadi nella prova di velocità, soprattutto Guido Costa che di lui era veramente terrorizzato, l'australiano lasciò il posto all’amico, ma ben più modesto Lionel Cox, che arrivò alla finalissima dove poi fu facilmente sconfitto da Sacchi. Russell si schierò nel "Km con partenza da fermo" e vinse l'oro senza patema alcuno e poi, assieme a Cox, andò a vincere il titolo olimpico anche nella velocità-tandem. Fu un vero capolavoro, soprattutto se si pensa che Mocka era salito una sola volta su un tandem, ed i due aussie avevano montato lo strumento, la sera prima del torneo olimpico. Due medaglie d’oro dunque per il portentoso occhialuto e potevano essere addirittura tre, se solo avesse avuto il coraggio, o la volontà, di schierarsi anche nella velocità individuale. Ed una prova della sua straordinarietà la diede proprio nel tandem, quando, stando in posizione anteriore, trascinò letteralmente Cox, ad una strepitosa rimonta in semifinale, ai danni della coppia azzurra composta da Cesare Pinarello e Antonio Maspes.
[Immagine: Mockridge_2.jpg]
La progressione di Mocka aveva fatto il giro del globo, al punto che il mondo delle "sei giorni" fu ben lieto di poterlo accogliere a fine ’53, all’atto del suo passaggio fra i professionisti. La caccia ad un compagno come lui, capace di quei repentini cambi di ritmo però, andò in parte delusa, perché Russell iniziò quello che potremmo definire un dubbio amletico circa il suo futuro in bicicletta. Anche nei caroselli delle "sei giorni" i suoi valori fuoriuscirono, ma non lineari come si poteva pensare e, alla fine del 1954, dopo aver vinto in Belgio il Gran Premio Marcel Kint, cambiò completamente rotta tra lo stupore di tutti: decise di diventare stradista costante, con l'intento di partecipare al Tour de France.
Per lui, velocista dal fisico possente, improvvisarsi stradista di spessore orizzontale era per gli ortodossi del ciclismo come bestemmiare. Ma le virtù di "Mocka" non si conoscevano fino in fondo. "Ci vorranno anni - diceva Russell - ma alla fine diventerò un buon stradista".
Ed infatti, l'incredibile Mockridge, al primo anno utile, il 1955, partecipò al Tour de France finendolo al 64° posto. Prima della Grande Boucle, aveva vinto alla grande il Tour du Vaucluse  e, alla fine dell'anno, trionfò nella Seigiorni di Parigi con Reginald Arnold e Sidney Patterson. Nel 1956-'57-'58 vinse i campionati australiani su strada, dimostrando costanti miglioramenti. Soprattutto strabiliarono, fra le tante vittorie continentali, le sue condotte alla celeberrima Melbourne-Warrnambool, classe 1895, ovvero la seconda gara più vecchia del globo, dopo la “Doyenne” Liegi Bastogne Liegi (alla faccia dei “quaraquaqua” dirigenti e scrivani ciclistici d’oggi quando spalmano ortica sugli zebedei a proposito della mondializzazione del ciclismo).
[Immagine: russell-mockridge-the-man-in-front.jpg]
Bene, Russell “Mocka” Mockridge, percorse per la gran parte in solitudine e con la bici-cancello di quei tempi, i 258 chilometri della classica australiana del ‘56, in 5 ore, 47 minuti e 5 secondi, alla media di oltre 44,5 kmh!  Ormai era pronto per essere protagonista anche su quel terreno, ma proprio nell'anno che doveva sancire la consacrazione della sua evoluzione come stradista pronto per la Grande Boucle, trovò un autobus sulla sua traiettoria di riscaldamento prima dello start del Tour of Gippsland ‘58. Doveva ancora compiere 30 anni.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#9
                                                             Karen Moras, una carezza sull'acqua.

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Lei non nuotava, ma scivolava sull’acqua come fosse un grazioso pesce dalle forme umane. E che forme, tra l’altro. Quando arrivava, ti avvolgeva con quel sorriso e quegli occhi che ti ipnotizzavano nell’azzurro verde del loro sfondo. Erano i segni del suo amore verso quel liquido di vita che da lei si faceva accarezzare e che si lasciava domare, perché, in fondo, la riconosceva come reginetta e ben si prestava ad esaltarne la grazia.
Karen Moras non è stata una super, o una leggendaria del nuoto, ma ha ugualmente segnato un’epoca, per le sue pregevolezze tecniche e per aver superato, nelle prove di mezzofondo, le frontiere dell’allenamento fin lì conosciute. Avesse avuto i mezzi fisici di talune colleghe, o fosse nata al servizio di un sistema come quello della DDR, probabilmente, oggi parlerei di lei, come della più grande della storia. Ma è stato meglio così.......e la graziosa Karen, senza farsi crescere la barba di un maschietto, s’è guadagnata ugualmente uno spazio d’evidenza, negli echi perenni della disciplina. Potrei dire: un monumento di bellezza stilistica, nonché di richiamo per una terra, l’Australia, capace come nessuna di radunare, ad ogni suo tratto, un fascino ed un trasporto che mai s’allontanerà da te.

Vidi Karen per la prima volta nella per lei agrodolce Olimpiade messicana e mi colpì. Era bellina, ed i miei tredici anni si specchiavano sui suoi sedici, con occhi che ben lascio immaginare. Trovai persino una sua foto a colori, all’epoca assai rara, perlomeno per uno come me, fino a farla diventare una figura familiare nei miei itinerari di sguardo sullo sport e di quei sogni tanto comuni per un ragazzino. Quella fotografia che aveva resistito al pari di altri cimeli della fanciullezza, alla trasformazione completa della mia casa, scomparve, una sera delle mie ventiquattro primavere, nella borsa di coccodrillo di una ricca e gelosissima ex, sempre pronta ad allontanare figure e “fantasmi” femminili dal mio intorno. Non era l’unico riporto finito nelle idrovore di quella signorina altezzosa e velleitaria, ma ne rimasi male. In fondo, era un ricordo che mi piaceva rivedere, perché già allora, la mia nostalgia per gli anni sessanta, si faceva sentire. Quando poi, poche settimane dopo, incontrai dal vivo dell’infatuazione una Karen italiana, che tanto somigliava alla Moras del nuoto e dei sogni della fine di quella meravigliosa decade, la mancanza di quel tassello di passato, mi lasciò un fastidioso senso di vuoto. Certo, erano sensazioni che mi piace oggi riportare, perché di queste, spesso, si vive, fino a scolpirle sul sempre suggestivo confine che si eleva come un istmo, fra razionale ed emozionale. Lo scrivere sincero, non deve mai dimenticarlo, se si vuol essere se stessi.
                                                  [Immagine: s-l400.jpg]
Gli anni erano quasi quelli di oggi, ed ancora una volta, una sera, s’offrì a rinfrescare il personale ricordo giovanile di quella Karen che accarezzava l’acqua. Davanti a me una mezza dozzina di amici, ed una pizza accompagnata da litri di birra per richiamare il bisogno di tenere alti quegli addominali dall’interno, che hanno sì tanto inciso una parte del mio invecchiare. Su quella tavola, si richiamavano i segni dell’antica Godwana, oggi Australia, attraverso la presenza di un suo figlio mattacchione come Danny Clark: un grandissimo dello sport, incapace di mettere la parola “fine”, al bisogno di tingersi di titoli sportivi. Lì, in onore dell’amico Danny, col quale, da quando ci conosciamo, il ripercorrere la storia dello sport con una lingua a mezzo fra il mio inglese maccheronico ed il suo italiano sgangherato, rappresenta un tratto costante, iniziai i miei voli di ricordo, nell’attesa delle sue interlocuzioni. Ne scaturì l’ennesima attrazione per i presenti, coperti di stupore per le pagine dai nobili temi sportivi che, da anni, apriamo ogni volta che si ha l’occasione di incontrarci.
Quella sera, l’alcol, che su di me produce effetti mnemonici e di comprensione dell’inglese come mai nella normalità, mi scatenò al punto di far risalire sulla bicicletta della lingua, anche il buon Danny e...... ne uscirono autentici quadri di campioni. Uno di questi, forse il più particolare, e non poteva essere diversamente, ebbe come protagonista proprio Karen Moras.
Quando raccontai come affascinava le mie osservazioni agonistiche e non, di adolescente, l’amico Clark, di lei più anziano di un anno, si illuminò. “Era bella – esordì – carina fino al punto di far arrossire uno come me che non aveva timore di nulla. Mi piaceva, le volevo fare la corte e gliela stavo facendo, quando fummo divisi dagli itinerari dei nostri sport. La rividi alle Olimpiadi di Monaco: io ero al massimo e vinsi l’argento nel ‘chilometro con partenza da fermo, mentre lei, non riuscì a superare la concorrenza e l’ingombrante presenza di Shane Gould, finendo per deludere. La prese bene, in fondo è una vecchia legge dello sport, ma i suoi occhi mi diedero l’impressione di essere ancora più belli. Stavo ripartendo nel mio corteggiamento, ma stavolta, ad allontanarmi da lei, fu la firma del contratto da professionista che vennero a propormi. All’indomani dei Giochi io presi la strada dell’Europa per correre ai migliori livelli e lei se ne tornò in Australia, ma lasciò l’attività agonistica poco dopo. Il suo modo di nuotare affascinava, era il migliore stilisticamente e lo si è visto dopo, quando è diventata una grande allenatrice e manager. Morris, certo che da bambino avevi l’occhio lungo....Karen era davvero bellina, ma se la vedi oggi cambi idea. E’ vecchia!”.
“Hei Danny...cambia registro, mica tutti continuano a fare l’atleta come te, altri si lasciano invecchiare....Forse lo dici, perché non la puoi mettere sul lungo elenco delle tue conquiste....”.
“Ne sei proprio sicuro? Potrei aver raccolto di più di quello che ho raccontato... A parte gli scherzi, Karen ha ancora lo stesso taglio di capelli di un tempo, ed è una bella signora. Ha sempre un certo fascino, ed è molto considerata nel mondo del nuoto e dell’Istituto dello Sport australiano, il vostro Coni. Scrivi su di lei, se lo merita!”.
“Già, prima o poi lo farò Danny, è una promessa!”.
Infatti, queste righe, le inviai a Clark, in attesa di un suo ritorno dalla Gold Coast nel Queensland, dove si sta godendo la pensione, accanto alla tanto più giovane Sabina, la sua compagna romagnola.
          [Immagine: 640px-Karen_Moras_1971.jpg]

Karen Moras arrivò ai vertici del nuoto australiano, non ancora quindicenne. Eccelleva nel mezzofondo, 400 e 800 metri crawl (stile libero), dove poteva mettere a frutto la sua leggerezza nell’interpretare lo stile e le distanze. Il suo crawl, rappresentava la versione moderna della scuola australiana, forgiata da grandi interpreti come Murray Rose, fra gli uomini e l’immensa ed insuperabile Down Fraser, fra le donne. Ad ogni bracciata facevano contemporaneamente leva due colpi coi piedi: una differenziazione evidente con lo stile americano o europeo classico che ne contempla sei. Lo stesso approccio agli allenamenti, fatto di lunghe ore in vasca, a carichi lenti, rivoluzionò talune concezioni del nuoto femminile fin lì prevalenti. Karen, sapeva seguire con evidente determinazione e abnegazione la preparazione e le tabelle del coach Forbes Carlile, ma dimostrò di metterci del suo, non cercando mai nella potenza e nell’irrobustimento muscolare, una via utile per migliorare le prestazioni, anche sulle sue distanze.
Il suo fisico leggero e dal buon coefficiente di galleggiamento, esaltava le fibre rosse e non mortificava le risultanze, anche di fronte ad una non eccelsa capacità toracica. Stilisticamente e fisicamente, per fare un esempio comparativo, la Moras assomigliava più alla grande specialista delle medesime distanze che, all’epoca, era l’americana Debbie Mayer, o alla nostra Novella Calligaris, piuttosto che alla divina connazionale (che poi l’oscurerà) Shane Gould. Una farfalla acquatica, insomma. Col tempo, mentre i risultati divenivano tangibili, Karen affinò quel suo modo originale e leggero di nuotare fino ad eleggersi evidente riferimento.
Giunse alla selezione olimpica per i Giochi di Città del Messico, appena sedicenne, con la fama di una che poteva arrivare a medaglia. Ed infatti, sui 400 metri, nonostante un calo nel finale, dovuto all’affaticamento ulteriore creato dall’altura, raggiunse la Medaglia di Bronzo. Vinse la Meyer, come nelle previsioni, davanti alla connazionale Gustavson.
Il peso dell’altura fu invece decisivo per Karen nella prova degli 800 metri dove, dopo l’ottima gara sulla distanza minore, poteva essere prevedibile per l’argento, dietro la solita Meyer. Mentre si giocava proprio questa medaglia, che, fino ai seicento metri pareva essere sua, ebbe un calo sensibile e finì per perdere anche il bronzo, a vantaggio della messicana Ramirez. A divedere lei e l’atleta di casa, un solo centesimo, scaturito dopo minuti di discussione e la visione di apparecchiature fotografiche simili a fotofinish. Una beffa, che rese alla sua Olimpiade una punta d’amaro, dovuta essenzialmente a quelle difficoltà. Era troppo abituata al mare della sua Sydney, ed i 2500 metri di Città del Messico, le furono fatali.

Nel 1969, batté i primati australiani sui 200, 400 e 800, avvicinandosi in maniera sensibile, soprattutto sulle distanze lunghe, ai mondiali della Meyer: era ormai in grado di lasciare un’impronta indelebile sulla storia del nuoto.
Ed infatti, nel 1970, il primo marzo, nella tarda estate del nuovo Galles del Sud, in quel di Sydney, migliorò il record mondiale degli ottocento metri, avviandosi a quella che resterà la sua stagione d’oro. A luglio, ad Edinburgh, ai Giochi del Commonwealth, per un paese anglosassone importanti quasi come un’Olimpiade, entrò definitivamente nella storia, vincendo l’oro in tutte le distanze nelle quali si schierò: 200, 400 e 800. Nella prova più lunga del mezzofondo, arricchì la sua vittoria, polverizzando il proprio record mondiale, con un miglioramento cronometrico tra i più sensibili dell’intera storia del nuoto femminile.
Nel giro di pochi mesi, Karen, aveva abbassato il primato della Meyer di ben otto secondi: un abisso. Era così diventata la numero uno in tutti i sensi e le sue performance, spostarono le attenzioni dalle vasche americane a quelle australiane, dove una ragazzina, Shane Gould, poco più che bambina, stava bussando a quella porta che poi l’eleggerà, a giudizio di chi scrive, come la più grande nuotatrice di crawl della storia. L’arrivo impetuoso di questo autentico mostro, ebbe un peso non indifferente sull’evoluzione agonistica della Moras. Il prodigio si allenava con lei, ed entrambe seguivano i programmi differenziati per caratteristiche, del medesimo allenatore: Forbes Carlile.
Karen, la regina, che aveva aggraziato col suo stile inconfondibile le piscine del mondo, stava subendo l’onta di una fanciulla già formata come un’adulta e dalla potenza di un uomo. Capì ben presto che non avrebbe potuto contrastarla a lungo.
Il primo maggio 1971, a Londra, la regale Moras, diede fondo a se stessa e riuscì nell’impresa di far suo anche il record mondiale dei 400 metri, cancellando ancora la Meyer, la cui sconfitta si consumò sulla medesima piscina. Ma fra quelle che erano le due litiganti di classe eccelsa, ma umana, rispose la marziana Shane che, a luglio, proprio sul tempio americano di Santa Clara, in California, si prese il primato mondiale dei 400, ed a fine anno anche quello degli 800.
Karen provò a resistere, contrastandola il più possibile in previsione dei Giochi di Monaco, ma in questi, capì che anche la sua migliore stagione, non avrebbe potuto scalfire il personale incontro con la leggenda della connazionale. Le sue gare furono incolori e nemmeno la sorella Narelle, presente lei stessa all’Olimpiade, riuscì a farla recedere dalle intenzioni di ritiro.
La Moras lasciò l’agonismo all’indomani dei giochi, ma la sua figura, imponente anche per risultanze, classe e femminilità, seppe tradurre ben presto su nuovi ruoli, la qualità che un tempo l’accompagnava da atleta.
[Immagine: Karen-Stephenson-Moras-PLC-2017.jpeg]

A Sydney fu l’ispiratrice di un centro per il nuoto, da considerarsi uno dei più belli, suggestivi e qualificati della terra, il “Karen Moras Drive”. Divenuta allenatrice, si distinse al punto di ereditare ben presto un ruolo preminente nell’ambito del sempre più evidente e crescente nuoto australiano, fino a raggiungere l’incarico di manager. Ruolo che ha occupato fino a non molto tempo fa.
Insomma, la ragazza che accarezzava l’acqua, è sempre una protagonista, col suo indelebile sorriso, di quelle piscine che la conobbero graziosa principessa.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#10
[Immagine: 800px-A_la_memoire_de_Roger_Riviere_2.JPG]

A Roger Riviere

Da https://www.ilnuovociclismo.com/forum/Th...er+riviere

................Arrivai al circuito di gara con un viaggio che si consumò in piedi, sulla pedana della Lambretta, in mezzo alle gambe di babbo. Erano i mezzi di allora, soprattutto quando temperatura e sole lo consentivano. Erano testimonianze di minor qualità della vita, solo per chi non ha avuto la fortuna di vivere quei tempi stupendi, addirittura vicini all’utopia della felicità. Babbo andò a pagare il biglietto e mi disse di non muovermi, di stare lì, in piedi sulla pedana della Lambretta, opportunamente installata sul cavalletto. E poi, a due passi c’era il mio dado, corridore di casa, che era venuto al Tendicollo con la bici da corsa. Ad un certo punto, dietro di me, sentii un gran chiasso, ed un corridore con una fiammante maglia bianca e gialla con strisce blu sulle spalle, mi passò accanto e si voltò facendomi un sorriso. Non sapevo chi era, e poi vederlo così da vicino, con tutta quella gente che lo seguiva, mi aveva fatto uno strano effetto, quasi di paura. Dado e babbo che, che nel frattempo, stava ritornando dopo aver pagato il biglietto, avevano visto tutto e mi dissero che quel corridore era Riviere. Mi sentii immediatamente orgoglioso e durante la corsa mi immedesimai come un suo vecchio amicone, seguendolo con affetto. Sì, era sufficiente un sorriso, per creare gioia in un bambino di quei tempi magnifici. Chissà, forse anche per questo ricordo dei particolari così nitidi di quando ero piccino, sveglio, magari prodigio come diceva qualcuno, ma pur sempre piccino; mentre oggi, mi scordo cosa ho mangiato cinque minuti prima. Non credo sia solo un fatto di anzianità…No, non potevo e non posso dimenticare Riviere.
 
Quel maledetto dieci luglio…..
Il giorno del Tendicollo, era il 16 giugno 1960. Neanche un mese dopo, il 10 luglio, mentre giocavo con la fiammante Maserati gialla di plastica, di cui ricordo perfettamente l’odore, che la Dada mi aveva regalato due giorni prima, per il miei vispi 5 anni, il Dado disse a nonna Argia che era triste, perché aveva sentito alla radio che Riviere era caduto in un burrone al Giro di Francia e che rischiava la morte. Anche se ero intento ad improvvisarmi nella passione di babbo e fare l’immaginario Sterling Moss, con relativo “bruuum bruuum”, capii tutto. Andai dal Dado, gli tirai i pantaloni e gli dissi: “E’ quel corridore che m’ha sorriso sulla Lambretta a Forlì, vero?”.
“Sì Pestifero, è proprio lui”.
“Non morirà vero?”
“No, non morirà. Almeno lo spero, ma non tornerà più a correre, ne sono convinto”.
“Mi viene da piangere, Dado”.
“Piangi Pestifero, sfogati che non ti fa male”.
Presi la Maserati gialla, la posi sulla mensola dove tenevo i giochi e corsi a mettere il volto fra le ginocchia della nonna, seduta sulla solita poltrona di vimini a guardare la via Emilia. Lo facevo sempre quando c’era qualcosa che non andava. Io piangevo e lei mi accarezzava i capelli…“Babin, Babin, at voi bén, ci sénsebil cume i tù”.

[Immagine: 300d4b025c477d4659476b209c0ebcad--champions-tour.jpg]
La caduta di Roger Riviere lungo la discesa del Perjuret, con tutto quel che poi ne seguì, è stato il primo grande dolore sportivo che ho provato. Ho tenuto per decenni le impressioni di quel giorno e con la lucidità che un tempo mi seguiva, ho scritto quel che segue….

A Roger Riviere

Mamma con gli occhi tristi
mi disse che era un pomeriggio di sole
ideale per innalzar l’intima verve
che dalla gioventù vuol dipingere il cielo.

Dada mi raccontò che Roger volava
su un Pegaso d’acciaio e ruote
sostituendo la frusta
con le carezze dei suoi piedi divenuti mani.

Dado mi disse che guardava lontano
come volesse anticipare il volo
verso il sole giallo dell’alba
perché sapeva d’essere stella anche lui.

Dada mi raccontò che sciolse l’incantesimo
cercando l’onda delle fiabe
ma senza quel cavallo non aveva ali
era un uomo come tutti.

Mamma mi disse che si posò pesante
diviso a metà su un letto di foglie
come nelle commedie della tivù del parroco
dove il secondo atto cancella il primo.

Dado mi raccontò del vecchio senza memoria
affinché dimenticassi il sorriso di Roger
quando mi guardò in piedi sulla lambretta:
non l’avrei mai più potuto vedere così.

Babbo con gli occhi che confondevano il pianto
mi disse che ero un bambino
e che mettessi nel cassetto della memoria
il volo di Roger sul burrone del Perjuret.

Non l’ho mai dimenticato.
(10 luglio 1993)

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#11
[Immagine: Rafer_Johnson_1960c_%28cropped%29.jpg]                                                                          
                                                              RAFER JOHNSON

                                                                          Caleidoscopio d’atletica
 
Atleta monumentale, troppo sconosciuto, dimenticato o riconosciuto solo come l’attore che poi è diventato dopo la carriera sportiva. Rafer, fin dai teneri anni della High School, apparve come un predestinato, un talento mostruoso per le possibili risposte polidisciplinari.
Poteva essere un big nel football, nel baseball, nel basket: ove si cimentava vinceva, o mostrava qualità uniche. Ma quando vide Robert Mathias, due volte campione Campione Olimpico di decathlon, allenarsi assieme ai migliori americani, nel campo d’atletica della sua scuola, avvicinò il suo allenatore e gli disse: “Potrei battere quasi tutti quei tipi, anche se non ho mai gareggiato in atletica. Voglio provare”. Di lì, si sviluppò un’avventura entusiasmante.
Nel 1954, entrato all’UCLA, non perse una gara e fu autore di un crescendo che lo portò a battere il primato mondiale juniores della specialità. Nel 1955, era già il più forte decatleta degli States e, a Città del Messico, vinse i Giochi Panamericani. Chi lo vedeva non tardava a giudicarlo imbattibile, soprattutto in considerazione delle sue incredibili capacità agonistiche. Deciso a vincere i Giochi di Melbourne, seppe avvicinarsi come meglio non si poteva all’evento, trionfando ovunque gareggiasse. A Kingsburg, stabilì il nuovo primato mondiale della specialità amata e ai Trials vinse pure la gara del salto in lungo. Ma alle Olimpiadi un infortunio rimediato proprio nel primo salto del “lungo”, gli impedì di giocarsi al meglio le possibilità nel decathlon. L’allenatore capo della squadra americana, vedendo la brutta ferita di Rafer, disse: “Solo un pazzo può gareggiare nel decatlon in simili condizioni, ma Johnson, non è uno normale”.
Infatti, quel giovane così particolare, gareggiò, eccome se gareggiò! Non vinse, ma rimediò un argento che aveva il sapore dell’oro, ma pure della beffa, perché pur fra mille motivi di giustificazione, quella sconfitta resterà l’unica della sua carriera e si concretizzò per opera del connazionale Milt Campbell, uno che Rafer batteva sempre con disarmante facilità.
[Immagine: 3260260.jpg]
Nel 1957, Johnson, a causa di un infortunio non gareggiò mai sul decathlon, ma nel 1958, andò a Mosca, a raccogliere la sfida del russo Vasily Kuznetsov, il bronzo di Melbourne che, nel frattempo, si era preso il suo record mondiale. Il 16 e 17 maggio, lo stadio della città moscovita, conobbe un ufo: Rafer Johnson, perfetto ed incattivito per le avverse condizioni che gli avevano tolto un oro olimpico ed un anno di attività, distanziò Kuznetsov di quattrocento punti e migliorò il record del mondo di trecento. Era lui il re e tale voleva rimanere, ma l’anno successivo gli giocò un altro brutto scherzo, materializzatosi in uno spaventoso incidente stradale. Uscì dalle lamiere della sua auto rotto e con la convinzione dell’osservatorio, di non poterlo vedere nel ’60, a Roma, a prendersi l’oro olimpico sfumato a Melbourne. Ma erano, appunto, le convinzioni degli altri, perché lui, Rafer Johnson, texano d’origine, californiano di residenza e di portamento, era come il ferro e si saldava col calore.
Infatti, contro ogni pronostico, riuscì a bruciare le tappe del recupero e l’8 e 9 luglio 1960, in quel di Eugene, nell’Oregon, vinse i Trials e stabilì nuovamente il record del mondo: un primato che per la miseria di 55 punti il solito russo Kuznetsov gli aveva portato via l’anno prima. Johnson, scacciò gli occhi delle ferite, delle fratture e delle ammaccature dell’incidente, distanziando nuovamente il russo, stavolta di trecentocinquanta punti: poteva andare a Roma da favorito, come era accaduto alla vigilia di Melbourne. Nello Stadio Olimpico della città che resterà eternamente, nonostante le balzane visioni di molti italiani, come la più fascinosa del mondo, Rafer, doveva raccogliere la sfida dell’ormai ipersolito Kuznetsov e di un compagno di allenamento dagli occhi a mandorla, anch’egli seguito dal grande coach Elvin “Ducky” Drake, venuto a studiare negli States da Taiwan, Chuan-Kwang Yang. Era proprio questo suo amico il più pericoloso, perché ben consapevole di quanto, sotto la scorza del duro, Johnson nascondesse un cuore grande. L’amicizia verso il principale avversario e la foga di dover vincere un Oro sfortunatamente sfuggito quattro anni prima, non deviarono però la concentrazione di Rafer, che svolse una gara senza cercare acuti, ma solo per vincere e cementare definitivamente il suo nome nella storia dell’atletica leggera: divenne così, finalmente, Campione Olimpico. Alla fine, il podio dei Giochi (con un Johnson rimasto in sicurezza quasi trecento punti sotto il proprio primato mondiale), lo vide primo con 8392 punti, secondo Yang con 8334 e terzo Kuznetsov, con 7809.
[Immagine: P16-201204-322.jpg]
Come aveva anticipato agli amici, con l’Oro di Roma, Rafer, abban-donò l’atletica e si diede al cinema. Ma il set, non era tutto per lui e Robert Kennedy che, per chi scrive, rappresenta il più avanzato statista statunitense degli ultimi sessanta anni, lo portò all’impegno attivo in politica. Quando Bobby fu assassinato, Rafer era presente, e fu proprio lui che stese sul pavimento, salvandolo dal linciaggio, l’autore materiale del delitto, Sirhan Sirhan. La morte di Robert, lasciò una profonda ferita in Johnson e lo spinse a mantenere il suo impegno sociale in direzione dei più deboli, soprattutto di pelle nera come lui. Nel 1984, in occasione dei Giochi di Los Angeles, fu il primo atleta di colore, ad essere scelto per accendere la fiamma olimpica.
Rafer Johnson, morto ad 86 anni agli inizi di dicembre 2020, per chi scrive, rappresenta un riferimento ben posizionato, nella soggettiva graduatoria dei più grandi atleti del secolo scorso.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#12
"Sporco" questo topic solo per ringraziarti per tutte queste perle.
 
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#13
LYUDMILA TURISHCHEVA

Donna Libellula

         [Immagine: Ludmilla-TourischevaTonyDuffyGettyImages...4a092a.jpg]

Quando si parla di ginnastica artistica femminile, in tanti ancora pensano a Nadia Comaneci e Olga Korbut come le più grandi, ma il mio parere è diverso e più mi invecchio e più l’ombra di qualche dubbio su quelle due ed altre di quella generazione aumenta. Troppo graciline e bambine, troppo invecchiate dopo, troppo schizzati i loro occhi grandi, troppi altri segni che mi spingono ad un particolare ricordo e mi tengono sempre legato al sospetto; troppo ingigantite dai media, insomma troppo, per uno sport duro, dove le doti naturali sono fonda-mentali, altrimenti anche 24 ore di allenamento al giorno, non bastano.
E poi gli imprevisti della crescita, l’arrivo del menarca “da allontanare”, perché può portare a quegli “scombussolamenti” interni che, se da una parte fanno crescere quella meravigliosa creatura che è la donna, dall’altra, tendono a far diminuire la flessibilità e quelle molle miste, di grazia e creatività nello sforzo, che fanno della ginnasta una libellula. Sì, la ginnastica artistica mi è sempre piaciuta, non l’ho mai praticata, ma l’ho sempre seguita con attenzione, fin dai tempi della grande Vera Caslavska fra le donne e di Sawao Kato fra gli uomini. La concomitanza con l’adolescenza e la primissima gioventù, mi ha forse spinto di più a guardare con l’occhio del maschietto che cresce, il roteare di quelle ragazzine, alcune delle quali pronte a farmi fantasticare, perché davvero carine. Ecco perché oggi, vecchio, mi è più facile fare confronti e rendermi conto di certi aspetti, allora assolutamente impossibili da ponderare. Riportare il magazzino di memoria visiva sull’esperienza, gli studi, l’osservazione, l’ascolto di tecnici che mi sono passati davanti in tutti questi anni, alcuni dei quali nella mia stessa attività all’interno della gloriosa società nella quale mi sono formato, nonché le conoscenze sul doping via via crescenti, anche grazie alle affermazioni di grandi figure dello sport provenienti dall’est europeo, hanno arricchito e allungato l’ombra dei dubbi.
Ecco dunque, una conferma ragionata e solo personale se si vuole, ma io non metterei mai il duo Comaneci-Korbut, davanti a Turishcheva-Casvlaska. Queste ultime mi sono piaciute di più, le vedevo sincroniche alla loro età e forti da superare infortuni gravissimi. Le vedevo donne vere e ginnaste sublimi, ed oggi, da quelle osservazioni e da quei ricordi d’un tempo ormai lontanissimo, mi sento di dire: non figlie dei laboratori o di qualche spregiudicato praticone. La loro affabilità e quella bellezza che ha superato i confini del tempo e delle rughe, mi sembrano dimostrazioni ulteriori. Donne, insomma. Donne, un tempo atlete col seno che si vedeva crescere come la natura, da sempre, costruisce ed esige attorno a quel portamento che crea la femminilità. Erano belle, così belle da accettare, oggi, come bellezza, i loro chili in più, e quelle rughe che dimostrano il segno delle lancette trascorse. E poi quegli occhi, rimasti normali come un tempo, senza lo spiritismo di chi, dentro, ha un fuoco che spegne la naturalità del sorriso. Non voglio sfregiare nulla, sono solo riflessioni, ma sento il dovere di esprimermi liberamente su quello che rimarrà perennemente il mio grido verso una disciplina che ho saldato, fin dalla tenera età, come la perfezione della gestualità di un corpo. Ed un corpo, ha il diritto di essere se stesso. Se si nasce donna, frenare il menarca, rappresenta una trasformazione peggiore delle oceaniche alchimie insistenti da millenni nello sport.
[Immagine: Dominis-john-us-gymnast-ludmila-turishch...ympics.jpg] 
Liudmila Turishcheva, era uno stereotipo di quello che ho sempre cercato in questa disciplina: l’ultima grande ginnasta donna. Rispetto alle bambine che stavano arrivando, lei era “vecchia”, ma era vera. Dimostrava la sua età ed il segno della cultura e dell’etnia nelle quali era nata e cresciuta, anche quando invecchiava, ed era ancora fortissima. Lyudmila sorrideva e guardava la telecamera come poteva guardare te, se eri di fronte a lei e, magari, volevi accarezzarla o, addirittura, sognare di baciarla. Il suo corpo era sinuoso, come ogni ragazzino, quasi della sua età, stereotipava per l’eventuale coetanea, un sogno che balenava nelle giovani menti, con la danza e la molla di una postura naturalmente flessibile. Anche i tratti forti del suo viso, sapevano prendere il gesto artistico del suo sport, fino a produrre loro stessi.
Era sublime Lyudmila, una protagonista dei miei voli e dei miei sogni, cercando la sua mano per sentire il calore di quel sorriso che immaginavo mi potesse donare, nel secondo atto di quel fantasticare tipico degli uomini sensibili in tenera età. Un idolo? O forse l’intima trasposizione di una figura che si stava eleggendo a simbolo, attraverso la sempre più profonda trasmissione della propria arte? Domande, a cui non importa dare risposte: è solo piacevole e gratificante rivivere, a distanza di mezzo secolo, quelle sensazioni. Un modo forse originale per dire che lei era davvero grande, perché le altre, le decorate bambine che sul finire della sua carriera riuscirono a batterla, mai mi hanno donato simili voli di fantasia e di trasporto. E mai mi hanno entusiasmato nella perfezione dei loro esercizi. Oggi, credo di aver capito il perché. Mi vien quasi di dire: ”grazie Lyudmila per esserti eletta ginnasta, ad un’età non distante dalla mia”.
[Immagine: Fddf7805a79ec03368164db4ef61ae152f1635f9.jpg]

La sua carriera
Nata il 7 ottobre 1952 a Groznyi, in Russia, Lyudmila si dimostrò subito molto portata per la danza classica e la ginnastica artistica. La scelta di quest’ultima disciplina, si concretizzò quando aveva undici anni. Vladimir Rastorotsky, un allenatore un po’ burbero e grasso, notò la straordinaria predisposizione della piccola Turishcheva, nel muovere un corpo straordinariamente flessibile, ai ritmi della musica. Decise immediatamente di portarla nel suo centro e di allenarla con dovizia. Il richiamo alla danza che Liudimila portava con sé, ebbe poi un ruolo decisivo nella sua carriera di ginnasta, in particolare negli esercizi al corpo libero.
La ragazzina bruciò le tappe e, nel 1967, a quindici anni, era già la prima nella Coppa dell’Urss. Poco dopo vinse le Spartakiadi, una manifestazione che i sovietici erano soliti sostenere prima di ogni anno olimpico, anche come una forma di selezione fra i tanti atleti di quel paese immenso. In questa occasione si vide tutta la regalità, la freddezza e la resistenza allo sforzo di Lyudmila. Un’errata e palese valutazione dei giudici sul suo esercizio a corpo libero, suscitò le vivaci e plateali proteste di Rastorotsky, il quale riuscì nell’impresa di far ripetere la prova alla sua atleta. La fatica di dover svolgere nuovamente un esercizio appena terminato, nonché la tensione che una simile anomalia in uno sport sì duro provocava, non fermarono la Turishcheva, che si ripeté in maniera perfetta, al punto di segnare un punteggio ancor più elevato di quello che lo stesso allenatore si aspettava.
Così, a suon di successi, Lyudimila si guadagnò la selezione per le Olimpiadi di Città del Messico, dove vinse subito l’Oro nella prova a squadre. Nel 1969 continuò a crescere conquistando tre bronzi agli Europei, ma, soprattutto, mettendo assieme quella versatilità che l’ha poi eletta suprema.
Nel 1970 divenne, a tutti gli effetti, la prima ginnasta del mondo. Nella rassegna iridata di Ljubljana, vinse tre ori, un argento e un bronzo, cominciando quel dominio sul concorso generale individuale, la quintessenza della ginnastica (ed il titolo che più di ogni altro stabilisce la migliore con buona pace di quei media che sul femminile hanno fatto della Korbut, ad esempio, un’eroina, senza che costei abbia mai vinto nulla di importante nel concorso individuale), che la vedrà dominatrice per oltre un lustro.
Nel 1971, Lyudmila, s’elevò regina agli Europei, ancora con tre ori e due argenti. La sua stella brillò senza i riflettori mediatici alle Olimpiadi di Monaco, dove vinse due ori, un argento ed un bronzo. Furono i Giochi della perfezione stilistica e dell’interpretazione e lei dimostrò come ci si possa esibire nella ginnastica, richiamando la danza e la musica. Un capolavoro oscurato, come detto, dalla determinazione dei media nel voler costruire personaggi, anche in una disciplina pura e dall’immensa difficoltà intrinseca, come l’artistica. Si costruì un’eroina in Olga Korbut, una bambina nel fisico, non certo per i suoi 17 anni, e la si fece un mito che il disattento pubblico tedesco, cadendo nella rete, contribuì in maniera decisiva a formare. Olga però, era una ginnasta certo brava, ma incompleta, strana e non paragonabile per classe a Lyudmila. Certo, faceva “cose “ che possono riuscire alle bambine che non hanno ancora conosciuto il menarca e questo la dice lunga…Poi venne la Comaneci, perché il dado era già stato tratto…..
Alla luce di queste constatazioni, che si immergono nella storia e nelle scoperte che poi arriveranno, non riesco ancora, a distanza di 38 anni, a digerire l’assurdità di aver immolato come simbolo di quella Olimpiade una ginnasta, ripeto, bravissima, ma che nel concorso dei concorsi, era giunta solo settima! Ma che Lyudmila fosse la più forte e la più brava, pur con l’handicap di essere donna (!), lo si vide nel 1973, quando agli Europei, al cospetto ancora delle più forti del mondo (che nel femminile, a quei tempi, erano tutte del vecchio continente), vinse, unica nella storia, tutti gli ori disponibili! E si ripeté nell’anno successivo, quando, ai Campionati Mondiali, nonostante i primi malanni che si trasformeranno poi in un infortunio che la tenne ferma quasi un anno, vinse quattro ori un argento e un bronzo. Era la più forte anche per il cemento che stava sotto le pedane, ma per il pubblico ignaro della conoscenza, ovvero la maggioranza, la ginnastica artistica femminile era la Korbut, che remava a notevole distanza dalla Turishcheva. Un aspetto che, dall’insulto, si stava velocemente trasformando in un’opera comica. Poche settimane dopo i Mondiali, Lyudmila subì una lesione alla schiena, probabilmente dettata dall’esigenza di adeguare il suo sublime e splendido corpo di donna, in quello di un’amorfa bambina. Si fermò a lungo e ne approfittò per laurearsi a Rostov.

Ritornò, con la determinazione dei grandi della storia dello sport, attraverso la sofferenza di atroci dolori, e si ripresentò, pur ancora in fase di allenamento, agli Europei del 1975, dove colse il bronzo nel corpo libero. Qualche settimana dopo, a dimostrazione della sua regalità unica, grazie ai pochi giorni di allenamento efficace aggiuntivi, si prese una clamorosa rivincita di fronte all’ambiente, vincendo a Londra, unica nella storia, tutti e cinque gli Ori in palio nella World Cup! La sua esibizione ebbe dello straordinario, tanto più alla constatazione che non erano certo lontani i tempi in cui, per l’infortunio e per l’età, era stata data per finita. A 24 anni, ai Giochi di Montreal, di fronte all’arrivo massificato delle bambine che, nel frattempo, avevano trovato il loro alfiere nella romena Nadia Comaneci, Lyudmila Turishcheva interpretò il suo canto del cigno. Fu un sussurro armonioso, degno della immensità di questa atleta leggendaria. All’Oro nella prova a squadre (il 19° in grandi competizioni!), aggiunse l’argento nel corpo libero e il bronzo nel concorso individuale. Dopo sette anni di dominio assoluto, consegnò alla romena dagli occhi grandi e schizzati, il suo regno. Era stata una perla di questo sport stupendo, ed era ancora nell’alveo della sua bravura, dunque il momento migliore per lasciare l’agonismo. Lei lo fece ricevendo la massima onorificenza dello sport sovietico. Non poco, pur al cospetto delle enormi ombre di quell’impero.

Il "dopo carriera"
[Immagine: lyudmila-turischeva-an-outstanding-soviet_7.jpg]
Nel 1977, Lyudmila, sposò il connazionale Valeri Borzov, anch’egli eroe olimpico a Monaco ’72, ma non certo, anche per altro, uno che poteva valere la sua grandezza. Oggi i due vivono a Kiev, in Ucraina, dove la Turishcheva dirige la Federazione Ucraina di Ginnastica, ed è ella stessa una delle allenatrici della squadra nazionale. Hanno una figlia, Tanya, che ha cercato invano di seguire le orme velocistiche del padre (Presidente del Comitato Olimpico Ucraino) sulle piste dell’atletica leggera. Lyudmila, è stata anche membro del comitato tecnico della Federazione Internazionale di Ginnastica. Per gli ucraini è una dea, la chiamano con riverenza intrinseca, “la signora”.
Nel 1996, una delle sue protette, Lilya Podkopayeva, diventò la prima ginnasta di nazionalità ucraina a vincere il Titolo Individuale Olimpico e anche la prima ginnasta, dopo la stessa Turishcheva, a detenere il Titolo Mondiale, Europeo e Olimpico contemporanea-mente. Nel 1998, Lyudmila, é stata introdotta nell'International Gymnastics Hall of Fame.

Il particolare
Nella completezza che l’ha sempre contraddistinta, il suo fulcro radioso era la specialità del corpo libero. Lì poteva esprimere tutto il suo amore per la danza. Ad ogni più importante manifestazione, unica nella storia della ginnastica artistica, presentava sempre una nuova coreografia. I suoi esercizi non presentavano difficoltà incredibili, ma erano svolti con perfezione impareggiabile, come fosse all’interno stesso dell’esercizio, ed un segno della sua partecipazione totale alla recita di cui aveva pure scritto il copione, veniva dalla sua imperturbabilità. Un giorno, appena finita magistralmente un’esibizione alle parallele, l'attrezzo cadde al suolo. Lei non batté ciglio, salutò la giuria e non si girò nemmeno per vedere cos’era successo! Solo dopo, si rese conto dello scampato pericolo.

La dichiarazione
Come vede la ginnastica del futuro Lyudmila Turishcheva?
“Il ginnasta dovrà prima di tutto amare dal profondo questo sport difficilissimo e dovrà essere in grado di trasmettere nella comprensione di tutti, complessità, tolleranza e maturità. Un compito più duro delle sedute d’allenamento più pesanti. Sarà un compito più mentale che fisico. D’altronde, nello sport di oggi, più che in quello di ieri, anche se pochi ancora lo riconoscono, è la mente a fungere da componente principale”.

Il suo sublime palmares
[Immagine: ludmilla_tourischeva.jpg]


1968
Olimpiadi
oro-concorso generale a squadre

1969
Europei
bronzo-concorso generale individuale
bronzo-parallele
bronzo-corpo libero
 
1970
Mondiali
oro-concorso generale individuale
oro-corpo libero
oro-volteggio
argento-parallele
argento-trave

1971
Europei
oro-concorso generale individuale
oro-corpo libero
oro-volteggio
argento-parallele
argento-trave

1972
Olimpiadi
oro-concorso generale individuale
oro-concorso generale a squadre
argento-corpo libero
bronzo-volteggio

1973
Europei
oro-concorso generale individuale
oro-concorso generale a squadre
oro-volteggio
oro-parallele
oro-trave
oro-corpo libero

1974
Mondiali
oro-concorso generale a squadre
oro-concorso generale individuale
oro-corpo libero
oro-trave
argento-volteggio
bronzo-parallele

1975
Europei
bronzo-corpo libero

World Cup
oro-concorso generale individuale
oro-volteggio
oro-parallele
oro-trave
oro-corpo libero

1976
Olimpiadi
oro-concorso generale a squadre
argento-corpo libero
bronzo-concorso generale individuale

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#14
ADDO KAZIANKA, da farmacista mancato a possibile campione

[Immagine: Kasianca%20(Copia).jpg]

Sul Viale dei Graffiti non abitano solo campioni, ma anche chi non lo è diventato, pur avendone magari le potenzialità.  Certo, ci sono gregari, spalle, luogotenenti, personaggi che hanno recitato copioni sbagliati; altri che lo hanno fatto mancando l’interpretazione, altri ancora che sono stati semplicemente se stessi, ed altri che hanno impreziosito il loro tratto con un unico dipinto, ma sufficiente per essere immortalati nel grande romanzo d’uno sport. Il protagonista di questo graffito è diventato un corridore in bicicletta quando in famiglia, il padre medico farmacista, l’aveva designato come futuro collega e coadiuvante in farmacia. Lui però, educato, gentile ed istruito come pochissimi colleghi ciclisti del suo tempo e col portamento d’un camice bianco su cui sottolineavano una sorta di coerenze anche i non tanti capelli, alla fine lasciò che a laurearsi fosse il fratello. Diventò ciclista vero, con fasce dalle tinte mondiali, ma anche quando i risultati fra i professionisti del pedale si dischiusero nello scarno, mai pensò di giungere anzitempo a mettere la bicicletta al chiodo, per andare a gestire l’albergo che il padre, nel frattempo, aveva comprato in Milano. Insomma un personaggio silenzioso, a modo, ovviamente dimenticato dalla progressiva idrovora che sovraintende e coinvolge come un virus l’osservatorio ciclistico. Voi che mi leggete, vi chiederete chi è e come è finito qui. Bene, lui è Addo (un nome sul quale si potrebbe scrivere pagine circa l’origine e sulla quale, insiste come distinguo dominante... un sottinteso di “nobile stirpe”) e di cognome Kazianka. Italianissimo, cremonese per la precisione, anche se con antenati, comunque non vicini, polacchi. Di polacco però, c’è l’indicazione in francese del leggendario che, per taluni aspetti, me lo ha spinto qui: l’amico Charly Gaul. A mia domanda su chi era stato il più forte compagno-spalla che aveva corso nelle sue squadre, l’Angelo della Montagna mi rispose che era stato Aldo Moser, ma aggiunse che anche “Le polac italien”, aveva qualità per una carriera molto migliore. “Charly, vuoi dire Addo Kazianka!”. “Sì, proprio lui” - annuì con un’espressione che mai scorderò.
                 [Immagine: 51273957811_6c1fe56a3a_b.jpg]

La sua carriera
Nato a Cremona l'11 maggio 1931. Passista, alto 1,70m. per 65. Professionista dal 1959 al 1961 con 3 vittorie. Oggi si direbbe che la sua struttura fisica sia quella classica dello scalatore, ma in realtà questo cremonese di origine polacca, possedeva una pedalata armoniosa e composta, da gran cronoman. In altre parole, allora come oggi, checché ne dicano i dottori preparatori-zambottini che hanno assassinato il ciclismo con la loro specializzazione, se un corridore è naturalmente talentuoso, può arrivare a testimoniarsi dove vuole, indipendentemente dalla propria naturale struttura. Ed Addo Kazianka era davvero un talento, poi a ridimensionarne la carriera, ci ha pensato una discontinuità a lunghi segmenti i cui motivi, consapevoli o inconsapevoli, li può conoscere solo lo stesso Kazianka. Di certo, al ciclismo che conta, il corridore cremonese è giunto con tangibile ritardo. D’altronde allora, con le Olimpiadi aperte solo ai dilettanti, esisteva quel gruppo di Probabili Olimpici, comunemente conosciuto solo con la sigla P.O., che, di fatto, con lo stipendio che garantiva, compassava non poco le motivazioni verso quel professionismo non sempre in grado di garantire compensi migliori.  
L’avventura di Addo nel ciclismo partì nel 1947 e nella permanenza nelle categorie giovanili, che si prolungherà, fra vittorie eclatanti e fasi oscure, fino al giugno del 1956, ebbe modo di evidenziare doti di assoluto valore nazionale e, perché no, internazionale. Non a caso il 26 ottobre 1954, al velodromo Vigorelli, stabilì il Primato del Mondo sui 5 km in 6’25”60 e due giorni dopo, sempre sulla magica pista milanese, fece suo anche il Record Mondiale sui 20 chilometri in 26’52”40.
[Immagine: 15105030797_43c11eea26_b.jpg]
Nel 1955 conquistò assieme a Campana, Pellegrini e Pizzali il Titolo Italiano nell’Inseguimento a squadre, indi, nel ’56, vinse in maglia Aurora Desio, con Domenicali, Tonero e Chiesa, la Coppa Italia e chiuse 3° il Tricolore nell’Inseguimento individuale. Fra le diverse vittorie in corse in linea, la più importante fu la Coppa San Geo nel 1951. Poi, a fine giugno ’56, quando vide che non sarebbe arrivato all’azzurro per i Giochi di Melbourne, accettò le proposte della professionistica Leo Chlorodont che aveva come capitano Gastone Nencini e nello scorcio di stagione rimasto, riuscì ad evidenziarsi solo al Giro del Ticino, chiuso al 15° posto. Il 1957 fu però un anno da dimenticare: corse pochissimo e parve sempre l’ombra di se stesso. A fine anno rimase senza contratto e passò il 1958 fra gli indipendenti, col sostegno parziale della Prevalle di Brescia e del G.S. Morosini. Nella stagione mostrò un piccolo risveglio al Giro della Regione siciliana in linea, che chiuse 12°. C’era però chi non s’era scordato di lui, niente popò di meno che Fausto Coppi, il quale lo volle con sé alla Tricofilina per la stagione 1959. Ed Addo, a dispetto della poca fiducia dei più, rispose da par suo, vincendo da campione la tappa di Argentona del Giro di Catalogna, corsa nella quale giunse pure terzo nella frazione di Lerida. In Italia finì 2° nel GP Boldrini, una crono coppie che corse con Gismondi, fu poi 4° nel GP Pontremoli e 4° nel GP di Chignolo Po, chiuse 8° il Trofeo Baracchi corso con Casati e 11° il Giro di Lombardia e 16° nella Milano Torino. Fece un buon Giro d’Italia chiuso 44° con un 7° posto nell’ultima frazione di Milano. A fine stagione con la chiusura della Tricofilina, poco prima della scomparsa di Coppi, firmò un contratto con l’Emi di Charly Gaul per il 1960.  Fu l’anno migliore di sempre per  Kazianka. Vinse da fuoriclasse la tappa di Cervinia al Giro d’Italia, manifestazione nella quale corse a fianco del suo capitano Gaul. Chiuse la “Corsa rosa” al 27° posto. Andò poi al Giro di Lussemburgo dove finì 3° nella tappa inaugurale di Esch sur Alzette. Tornato in Italia vinse da corridore di categoria superiore il Giro delle Alpi Apuane e corredò la sua bella annata col 2° posto a Ponzano Magra, il 2° nella Classifica finale del GP U.V.I., il 3° nel GP di Pistoia, il 5° nella Milano Mantova, l’8° nel GP di Cerro Maggiore e il 9° nel GP Foivizzano. A fine stagione l’Emi lasciò il ciclismo e Kazianka si accasò per il 1961 in quella che poteva considerarsi la discendente della squadra disciolta, ovvero il G.S. Vov. Con le maglie giallo-azzurro del celebre liquore, Addo entrò in uno dei suoi proverbiali segmenti d’ombra. Il 4° posto nella tappa di Vittorio Veneto al Giro d’Italia, fu una sorta di personale canto del cigno. Al Giro si ritirò alla penultima tappa, ed a fine stagione appese la bicicletta al chiodo.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#15
JEFF FENECH
il pugile guerriero di Sydney

                                                 [Immagine: 2c817131bbd11522a7318a35c792c330.jpg]
Un boxeur che si è saputo costruire una carriera di spessore assoluto, pur non venendo pronosticato come un super. 
Di lui s’è detto che era un combattente casalingo, privo di tecnica e di pugno. Si disse persino che gli compravano gli avversari e che sarebbe caduto in disgrazia, al primo match credibile. 
Jeff ha smentito tutti. 
Certo, è vero, la quasi totalità degli incontri sono stati organizzati nella città natale di Sydney (dove nacque il 28 maggio 1964), ma questo, da solo, non è fatto che possa dimostrare modestia. Per capire l’errore, basta verificare il ruolino di questo “supergallo” e poi piuma”, vittorioso su pugili forti, ed essi stessi campioni. 
Si segnalò alle Olimpiadi di Los Angeles dove finì l’avventura ai quarti, ma si capì che la sua boxe piena di irruenza, mal si coniugava con la linearità del pugilato dilettantistico e fu forse questo aspetto, ad allontanare da lui gli sguardi dell’osservatorio. Ma Jeff, passato all’indomani dei Giochi fra i professionisti (esordì a Sydney il dodici ottobre 1984 vincendo per KO alla seconda ripresa contro Bobby Williams), dimostrò subito di che pasta era fatto, inanellando una serie di vittorie prima del limite alcune delle quali davvero terrificanti: il solo Percy Israel, fu capace di superare la sesta ripresa. 
Per motivi di “geopolitica” fra le troppo numerose organizzazioni mondiali della boxe, già al settimo incontro da prof, fu data a Jeff Fenech, dalla IBF (International Boxing Federation), la chance mondiale. 
Sul ring di Sydney, il ventisei aprile 1985, sconfisse il campione Satoshi Shingaki per il titolo dei supergallo, con un inequivocabile KO alla nona ripresa. Qualcuno pensò al colpo della domenica, in quanto il match fino a quel momento era apparso equilibrato, ma nella rivincita, il coreano fu abbattuto alla quarta ripresa. Ancora una volta però, la diffidenza accompagnò l’allora ventunenne di Sydney, eppure era riuscito in una impresa che non aveva pari nella storia della boxe: la conquista del titolo mondiale dopo soli sette incontri. Il pensiero dominante dell’osservatorio si mosse sulla convinzione di una carriera pilotata, in sincronia con quello che spesso avveniva nell’IBF. 
Le difficili difese del titolo contro Jerome Coffee, ai punti sulle 15 riprese e quella per KO con Steve Mc Crory (KO alla 14a ripresa), parvero confermare le diffidenze, ma in realtà si trattava di due ottimi pugili. Per la verità, più Mc Crory di Coffee. 
Fenech continuò a vincere prima del limite senza titolo in palio, ma alla prima occasione utile, decise di abbandonare l’IBF, per prendersi il titolo del più prestigioso WBC (World Boxing Council). La sfida per questa cintura avvenne l’otto maggio 1987, contro Samart Payakaroon e Jeff lo seppellì di colpi prima di mandarlo al tappeto definitivamente, al quarto round! La prima difesa del nuovo titolo fu con Greg Richardson e si concluse con un’altra perentoria vittoria per KO (5° ripresa). Quindi, il temibilissimo Carlos Zarate (ex campione mondiale), ed ancora una vittoria senza discussioni (KO 4° ripresa). 
Jeff Fenech cominciò così a conquistarsi l’interesse dell’osservatorio, ma sentì ancora troppa diffidenza attorno e, per dimostrare che non aveva paura di nessuno, decise di sfidare per il titolo dei piuma, uno dei pugili più forti di quel momento a livello di tutte le categorie, il giamaicano Victor Callejas. 
L’incontro svoltosi il sette marzo 1988, rappresenta, tutt’oggi, il capolavoro di questo pugile fortissimo e troppo sottostimato. Sul ring di Sydney, il giamaicano giustiziere per ben due volte del nostro Loris Stecca, fu distrutto da un’autentica lezione di pugilato, in perfetto stile “fighter”. Jeff Fenech lo tenne all’angolo a lungo, demolendolo pian piano, fino a stenderlo definitivamente alla decima ripresa.
[Immagine: Fenech-GettyImages-1787882-990x557.jpg?r...C557&ssl=1]
Non c’erano più dubbi, combattimenti in Australia o meno, questo pugile di Sydney, aveva finalmente conquistato il suo spazio fra i grandi pugili contemporanei. 
La forza devastante di Fenech però, non era sopportata dalle sue mani e Jeff cominciò a sentire troppi dolori, a cui nemmeno le punture di novocaina prima dei match, riuscivano ad ottenere lo scopo. Ciononostante, vinse con grande autorevolezza le difese del titolo con Tyrone Downes e con George Navarro, entrambe per KO alla quinta ripresa. Ma il dolore cresceva e la vittoria per quanto limpida con Marcos Villasana, si consumò solo ai punti. Tutto questo lo indusse a pensare ad una sospensione dell’attività al fine di curarsi, anche perché sul finire del 1989, senza titolo in palio, vinse un incontro incolore contro Mario Martinez, ancora ai punti. 
Subì così, un’operazione ad entrambe le mani, ma i dubbi su una sua piena ripresa permanevano. Nel 1991, dopo quasi quindici mesi di inattività, incontrò John Kalbhenn, battendolo con un limpido KO alla quarta ripresa. Questo match però, gli creò l’illusione di essere quello di prima. Si trattava, infatti, di un pugile troppo scarso per verificare le condizioni del grande pugile di Sydney. Ciononostante Jeff Fenech, che nel frattempo aveva abbandonato il titolo dei piuma, accettò di incontrare Azumah Nelson per il titolo dei “leggeri junior”, ancora vacante. 
Azumah era un pugile molto tecnico, con grandi doti di incassatore, mentre Jeff non era più lui. Ne uscì un incontro in cui l’ugandese comandò il gioco e Fenech ne uscì sconfitto, ma i giudici, con un verdetto contestabilissimo, per non fargli perdere l’imbattibilità, gli accordarono un pari chiaramente immeritato: Jeff non era davvero più lui. Il successivo incontro con Nelson, lo sancì definitivamente, determinando la prima sconfitta ed il primo KO della sua grande carriera. 
Come molti, anzi troppi pugili, commise l’errore di voler continuare a portare il suo nome sui ring, incappando in quelle sconfitte che si poteva risparmiare. Fu battuto per KO alla settima ripresa da Calvin Grove, un ottimo picchiatore, ma non degno di paragone con lui. Dopo due facili vittorie con pugili di non trascendentale livello, la definitiva sconfitta con Philip Holiday (KO al 2° round), per il titolo dei leggeri IBF, mise fine alla carriera del grande fighter di Sydney. 
In totale 28 incontri, 24 vittorie (20 per KO) con solo 3 sconfitte (tutte per KO) ed un pari. 
Chi era Jeff Fenech? Un grandissimo pugile, uno che potremmo definire un combattente col punch! 
Un vero piacere vederlo boxare.
[Immagine: marrickville.jpg]
Lasciato il pugilato attivo, nel breve volgere di un paio d’anni, s’è trasformato in manager ed allenatore di grande successo, capace di gestire ottimi pugili come il campione del mondo dei supermedi Danny Green, che per un buon lasso è stato uno dei migliori boxeur “ognipeso” del panorama pugilistico mondiale, nonché un altro iridato nella medesima categoria come Saxio Bika, ed evidenti di valore internazionale, come Hussein Hussein e Nedal Hussein. Nel 2005 divenne allenatore anche di Mike Tyson nel tentativo di questi di recuperare una carriera già fortemente compromessa. Nel bel mezzo di questa attività manageriale e d’allenatore Fenech fu sull’orlo di cedere alle lusinghe danarose di una possibile sfida con Anthony Mundine, un ex giocatore di rugby a tredici, il quale, sotto la spinta e la regia del re delle TV Murdoch, stava imbrattando il mondo della boxe, con incontri farseschi. Nel 2008 però, a 43 anni, dopo aver concesso spazi al suo caratteraccio che gli creò problemi fuori dal ring (mentre usciva da un ristorante, fu aggredito da quattro brutti ceffi, un paio dei quali armati, i quali col collo di una bottiglia spaccato, lo sfregiarono ad una guancia), accettò di ritornare sul ring, per la sfida delle sfide col 49enne Azumah Nelson che, per inciso è stato considerato dall’International Boxing Hall of Fame, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. Per quell’inutile match che si tenne all’Hisense Arena di Melbourne il 24 giugno 2008, Fenech si preparò a puntino perdendo 22 chilogrammi, ed alla fine gli fu assegnato il verdetto ai punti, per due giudici ad uno. Una delle solite semi-farse volute dalle pay tv che non aggiunse nulla ai contenuti delle carriere di entrambi. Ed a perderci, come sempre, fu la credibilità della “noble art”. In seguito, Jeff continuò la sua attività di allenatore rincontrando Mike Tyson nel 2020, quando l’ex iridato affrontò in esibizione Roy Jones junior. 

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#16
                                                                        LUIS ANGELO FIRPO
                                                                       L’Enkidu delle Pampas

Per anni mi son chiesto quale fosse stato l’incontro più selvaggio della storia della boxe. Una curiosità e nulla più. Anche perché non ho mai amato questo sport come diretta conseguenza di una personale sete di violenza. Dalle letture, sono arrivato fino agli anni venti, quando, sul mondo dei pesi massimi, imperava la figura di Jack Dempsey, un pugile che è entrato nella leggenda, ma che ha saputo tracciare ricordi e interlocuzioni anche al di fuori del pugilato.
Non certo senza sorpresa, ho scoperto che proprio il grande Jack, fu uno dei due protagonisti del match che ricercavo, perlomeno secondo l’opinione di tanti dei più autorevoli osservatori della storia del pugilato. Ma non è di Dempsey che voglio parlare, bensì di quel Luis Angelo Firpo che fu, il breve, ma selvaggio avversario dello statunitense del Colorado. Guardando la foto di questo erculeo argentino, mi è venuta subito alla mente, la teoria nata degli studi di un antropologo e psichiatra della fine dell’ottocento, Cesare Lombroso. Per intenderci, l’antesignano della criminologia, il cui credo potremmo riassumerlo in questa massima: il delinquente lo vedi dalla faccia. Quel figlio della “Pampas”, infatti, possedeva un volto ed una montagna di muscoli, in grado di mettere in fuga, anche persone che si dichiaravano coraggiose. Ma chi era costui e quale è stato il suo tratto?
[Immagine: Firpo01.jpg]
Con Firpo andiamo dunque indietro negli anni, nel tempo della boxe eroica ed empiristica, dove gli aspetti di forza bruta erano tanto più evidenti rispetto alle epopee più nobili. Prendiamo Luis Angelo, come un esempio dei tanti che potremmo scegliere per dimostrare che un pugile non è quell’essere suonato e deficiente che un certo mondo pseudo intellettuale definisce. E questo vale anche quando l’esteriorità appare selvaggia e simile a quella di “pesanti e cretini” animali. Firpo morì ricchissimo, con un patrimonio in grado di farsi polpette di tanti imprenditori italiani presi ad esempio dalla cenere lavica piovuta sulle nostre menti, per dimostrare che la ricchezza è sempre frutto di intelligenza e lungimiranza o segno di superiorità. Argentino, di origine italo-spagnola, Luis Angelo Firpo nacque a Junin vicino a Buenos Aires nel 1896. Passò al pugilato spinto dagli amici che avevano potuto vedere di quale forza bruta fosse dotato. Ben presto soprannominato “il toro selvaggio delle Pampas”, alla potenza animalesca e ad una formidabile resistenza nel punire o ricevere punizioni, non accostava una tecnica pugilistica in grado di sorreggere la sua immensa forza fisica. Tutto questo, se rappresentava da una parte il suo limite, dall’altra, fungeva da richiamo sulle platee migliori del grande pugilato di quei tempi, allora più di oggi attestate sui ring statunitensi. Avesse avuto un minimo di tecnica, Luis Angelo avrebbe stroncato chiunque e sarebbe divenuto il rampollo preferito della mafia americana, per costruire su di lui, un dorato itinerario di risultanze “claunistiche e bugiarde”. Ma quanto la natura gli aveva donato, fu sufficiente per distruggere una lunga serie di pugili e, fra gli altri, anche Jess Wallard (ex campione del mondo), in quella che fu considerata la semifinale mondiale. La vittoria sullo statunitense, valse all’argentino lo scontro mondiale con Jack Dempsey per il titolo dei massimi.
La sfida, avvenne nel 1923 e rappresentò qualcosa di incredibile al punto di essere, ripeto, tutt’oggi considerata come il combattimento più selvaggio e brutale della storia della boxe. L’incontro si concluse con la vittoria per ko dell’americano alla seconda ripresa, ma la repentina conclusione, non deve ingannare sull’intensità dello scontro.
                                     [Immagine: 410px-Luis_Angel_Firpo_-_El_Gr%C3%A1fico_487.jpg]
Dempsey andò dritto al volto indifeso di Firpo, al punto di atterrarlo ben sette volte (allora non c’era il limite dei tre atterramenti) nel primo round. Anche nel secondo lo atterrò due volte, ma Firpo, incapace di difendersi, aveva nelle braccia la forza per sollevare un toro, ed i suoi colpi fecero volare il campione del mondo fuori dalle corde. Jack, ebbe la fortuna di vedersi non contestate le “mani amiche” di alcuni giornalisti che gli consentirono di ritornare in tempo utile sul ring. Rimessosi in sesto, incrociò di nuovo i colpi del brutale argentino che gli fecero piegare le ginocchia, proprio qualche attimo prima del richiamo, su un singolo pugno, di tutte le risorse che possedeva, per atterrare definitivamente Luis Angelo. Il grande Jack a costi di sofferenza immane, aveva dunque abbattuto l’Enkidu delle Pampas, ma quell’incontro aveva condensato nei pochi minuti della sua lunghezza, quanto di più brutale si sia mai visto.
       [Immagine: firpo-dempsey-1-660x400.jpg]
Successivamente, Luis Angelo Firpo, non riuscì più a ripresentarsi per una sfida mondiale e capitalizzò i soldi guadagnati sul ring, per acquistare una piccola “fazienda”. Da quella piccola fattoria si trasformò, negli anni, in un grande allevatore di bestiame. Quando morì per un attacco cardiaco nel 1960, lasciò agli eredi un patrimonio oggi stimabile in circa cinquecento milioni di euro.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#17
Morris sempre un piacere leggerti

Una delle squadre piu' famose di calcio del El Salvador
prende il nome dal pugile argentino
la sua popolarità negli anni 20 nei paesi latini era enorme
 
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#18
  ROBERTO "Manos de piedras" DURAN
[Immagine: roberto-duran.jpg]
Un pugile che tanto mi è piaciuto e che ha, come tanti, purtroppo, portato la sua stanca figura sul ring, oltre i limiti del tempo della ragione e della competitività. Uno che ha continuato a combattere er allontanare e vincere, quei fantasmi che vedeva attorno a lui da quando era bambino. Un ragazzino che non s’è potuto invecchiare, perché la vita gli ha donato la povertà e per sconfiggerla è diventato uomo, quando altrove si giocava con le automobiline o la palla. Un uomo forte, con un pugno, il destro, in grado di stendere un bue, a dispetto della piccola statura e del peso non certo di nota. Stamina e volontà, coraggio, e la cattiveria che serve per dimenticare. Valori chiari e pochi, perché il tempo e le rincorse non davano occasioni. 
Lo chiamavano, ed ancor lo chiamano, “Manos de piedras”, un nomignolo terribile, come terribile era il suo ghigno quando avanti a lui c’era un pugile, figlio di quel potere che, a suo modo, ha sempre combattuto. 
Eccolo qua, Roberto Carlos Duran, nato a Chorillo alla periferia di Panama il 16 giugno 1951. Secondo di nove figli di una famiglia poverissima, di cui divenne, ben presto, l’unico sostegno. 
“Non racconterò mai cosa ho dovuto fare per vivere da piccolo e per portare soldi alla mia mamma. E’ un ricordo atroce e umiliante che non si distacca da quello che sentite di brutto nel mondo e che coinvolge i bambini. Il pugilato è stata la mia rivincita con la vita, l’unico modo per risorgere da quelle umiliazioni”. 
Con questa frase, solo questa e niente altro, Roberto Duran “Manos de piedras”, il più grande peso leggero della storia della boxe, si raccontò una sera ad un amico comune. In lui, gli occhi nerissimi, brillavano di una luce mista, fra odio e soddisfazione. Mentre scandiva quelle poche parole, il suo sguardo mostrava il ghigno, tanto simile ai disegni su Attila, il re degli Unni. Nemmeno il pizzetto leggero e la barba curata, come a dire che il suo volto nonostante il pugilato ha sempre mantenuto i suoi tratti di stereotipo di indio, potevano renderlo più dolce. 
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Roberto era lì, coi suoi silenzi più espressivi di mille parole, coi suoi sguardi che tanto hanno stuzzicato le paure di decine di avversari, prima ancora della sua terribile “mano di pietra”. Era lì, e diceva quanto e come la boxe sia spesso un termometro di vita, un segno della sofferenza della maggioranza delle persone di questo mondo, abituate a combattere per non morire subito. A suo modo pure un grande oratore, certo senza l’esecuzione di sillabe, vocali e consonanti, ma col geroglifico delle sue espressioni nel volto e nell’intensità del ghiaccio dei suoi occhi. Un figlio di Satana spiritato e criminale? Niente di tutto questo, solo un pugile segnato da quella vita in cui, le botte degli avversari, non sono state nulla al cospetto della sua stessa origine. 
Roberto Duran iniziò a boxare all’età di quattordici anni. Da dilettante vinse 13 dei sedici incontri disputati senza mai andare al tappeto. Le tre sconfitte furono dovute essenzialmente alla sua boxe ben poco dilettantistica, già adatta al combattimento da “prof”. 

Al professionismo passò l’otto marzo 1967, quando ancora non aveva compiuto i sedici anni. Fino ai vent’anni, Duran, combatté sempre a Panama e in Messico, senza perdere un incontro e spedendo praticamente sempre gli avversari a gambe levate. Si creò la fama di picchiatore e gli organizzatori del Madison Square Garden di New York, in quanto peso leggero, lo chiamarono al debutto negli States il 13 settembre 1971, come contorno al mondiale della categoria. La cintura, in quell’occasione, vedeva di fronte Buchanan e Laguna. Il suo avversario, Benny Huertas, finì KO in 66 secondi dal suono della campana. Fu un’esecuzione terribile, anche perché Huertas godeva di buona fama. Gli attenti occhi del Madison capirono che, da Panama, era arrivato un fenomeno. 
Ray Arcel, un vecchio allenatore di 72 anni, ritornò in attività pur di allenarlo e di lì a poco, il 26 giugno 1972, Roberto Duran ebbe la possibilità di combattere per il titolo mondiale WBA contro lo stesso Ken Buchanan. 
Vinse il titolo con un combattimento che era il sunto del suo modo di boxare, insofferente alle regole e ai limiti, sempre all’attacco. Duran stese il grande pugile scozzese alla tredicesima ripresa, colpendolo con un terrificante destro che gli valse l’immortale appellativo di “Manos de piedras”. Conservò il titolo per più di sei anni e difese la cintura tredici volte, fino a riunificarlo per tutte le sigle. Tredici incontri tutti vinti prima del limite, salvo quello con Edwin Viruet, un pugile che seppe resistergli anche in futuro ai limiti dei welter. 
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Sei anni in cui la grandezza di Duran si vide tutta, in particolare al cospetto di Esteban De Jesus, un portoricano da considerarsi uno dei più grandi pugili della storia senza aver mai conquistato la considerazione che meritavano le sue qualità. Ad onor del vero, De Jesus (morto di Aids nel 1992), era un tecnico sopraffino, che una volta sconfisse Duran, ma il match era sulle 10 riprese e non era ovviamente valido per il titolo mondiale dei leggeri. Fu proprio quell’incontro ad eleggerlo sfidante ufficiale di “Manos de piedras”, ed i due si incontrarono per la rivincita il 16 marzo 1974. Vinse Duran, non senza soffrire, per KO all’undicesima ripresa. Vi fu poi una bella il 21 gennaio 1978, ed in quell’occasione Roberto vinse, sempre per KO, alla dodicesima ripresa. Furono incontri da prendere ad esempio come stereotipi: fra il pugile supertecnico ( De Jesus) e il picchiatore (Duran). 
Il terzo incontro col portoricano, portò il panamense ad una drastica decisione: privo ormai di stimoli e di avversari, tutti più o meno schiacciati dalla sua potenza, decise di abbandonare il titolo e di cimentarsi fra i welter, saltando completamente la categoria dei superleggeri. 
Un errore, perché Duran, al peso non suo, andava ad aggiungere quei centimetri che, per uno come lui, già piccolino e picchiatore, potevano costituire un grosso problema. Ma “Manos de piedras” era troppo forte per non conquistare anche altre categorie. Dopo otto vittorie, di cui la metà prima del limite, coi chiari successi sul forte Viruet e, soprattutto, su Carlos Palomino (ex mondiale poi divenuto attore), si guadagnò la chance iridata contro quel mostro sacro dei media, che rispondeva al nome di Ray Leonard. Costui, è sempre stato un pugile pieno di talento, ma pure esageratamente protetto da un ambiente che l’aveva eletto “Sugar”, il nome che accompagnò la carriera del grande Robinson.
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Il 20 giugno 1980 a Montreal, Duran impose la sua legge battendo, selvaggiamente, Leonard. In quell’occasione si vide quanto la stella eletta dal pugilato americano come unica ed irripetibile, fosse in realtà meno fenomenale, sia sul piano tattico che della stamina. Ray Sugar Leonard accettò di scendere sul piano della potenza e del combattimento contro un leggero come Duran, il quale, tra l’altro, rendeva a Leonard quasi 10 centimetri. Duran vinse bene, conquistando così il titolo mondiale in una categoria nuova. 
Cinque mesi dopo, la rivincita a New Orleans. Qui, Leonard, sfoderando tutto il meglio del suo repertorio ed umiliò “Manos de piedras”, deridendolo. Anche il pubblico iniziò a ridere e Duran si demoralizzò al punto che, improvvisamente, nel mezzo dell’ottava ripresa, voltò le spalle a Ray Sugar dicendo all’arbitro: “No mas, no mas” (basta), si diresse al suo angolo e lasciò il ring. 

Il panamense decise così, di salire ancora di categoria ottenendo una sfida col tecnico portoricano Wilfredo Benitez (uno che conquistò il mondiale dei superleggeri a 17 anni e che non ha mai dribblato i più forti, tra l’altro un maestro nella difesa usando l’elasticità delle corde), ma fu sconfitto ai punti. E non poteva essere diversamente, visto che in uno degli incontri di preparazione, opposto al non certo trascendentale italiano Luigi Minchillo, vinse in maniera stentata. 
Testardo come sempre, Duran, proseguì nella categoria, tanto da prendersi un’altra lezione da Kirkland Laing e se in quel match non finì al tappeto fu solo per il suo incredibile orgoglio. Ma una stupenda vittoria contro Josè “Pipino” Cuevas (gran pugile e poi affermato imprenditore nel settore petrolifero), conclusa con la sua “mano di pietra” alla quarta ripresa, gli aprì le porte per un’altra chance mondiale. Il 16 giugno 1983 incontrò il campione della WBA dei medi junior Davey Moore e lo stese alla sua maniera, nel corso dell’ottava ripresa. Una serie di colpi e poi, l’immancabile destro finale che spense le lampadine del giovane pugile americano. Quel colpo fu davvero terrificante, perché Moore non seppe più riprendersi, fino a chiudere anticipatamente la carriera. L’allora trentaduenne Roberto Duran aveva dunque conquistato il terzo titolo mondiale in tre diverse categorie di peso. Era allora il primatista mondiale assieme ad altri pugili, ed il sogno del quarto titolo e del primato in solitudine, cominciò a serpeggiare in lui. 
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Ancora una volta la sua impulsività lo guidò immediatamente nella direzione del tentativo, ed accettò la supersfida col campionissimo del medi Marwin “Marvellous” Hagler (indimenticabile artista del ring che si ritirò a causa del furto subito da Ray Leonard), un pugile tecnico come pochi e potente, in più, medio naturale. Senza dimenticare di esser stato un leggero, Roberto Duran dimostrò con Hagler tutta la sua grandezza, mettendo in difficoltà il grande pugile americano (poi divenuto attore ….semi-italiano), fino a tumefargli un occhio. Perse ai punti, ma aveva fatto capire a tutti che anche da medio poteva dire la sua. Sulle ali dell’entusiasmo per la bella e significativa prestazione, accettò di mettere in palio il suo titolo dei superwelter contro il “cobra” Thomas Hearns, un pugile poco incassatore, soprattutto con una mascella di vetro, ma con una tecnica non inferiore a quella di Leonard, ed un pugno superiore. In più, altissimo. Forse il fatto che Hearns fosse stato ridicolizzato da Hagler, giocò un peso non indifferente sulla sua decisione. Duran al cospetto del “cobra” sembrò un nano, gli arrivava si e no al petto, ed andò incontro all’unica umiliante sconfitta della sua carriera, perdendo, praticamente senza combattere per KO alla seconda ripresa. Un’umiliazione, per un campione lui. 
Con una simile sconfitta, la razionalità avrebbe indotto chiunque all’abbandono della carriera, ma “Manos de piedras” non era uno dei pochi, lui si sapeva unico e continuò. Una serie di belle vittorie fra i medi con la sola sconfitta, per quanto immeritata, contro Robbie Sims e, finalmente, la chance di un altro mondiale nella categoria che gli poteva valere il quarto titolo.
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Il 7 dicembre 1989, a 38 anni e mezzo salì sul ring contro Iran Barklay, campione mondiale WBC. Iran era un pugile tecnico e potentissimo, per giunta molto alto, non come Hearns, ma quasi. “Manos de piedras" si ricordò ancora una volta che, sul combattimento, nessuno al mondo gli era superiore e Barklay commise l’errore di accettarlo, anche perché non avrebbe mai pensato che quel vecchietto potesse superarlo. Duran, fu semplicemente magnifico, ed atterrò un paio di volte il campione, fino a vincere nettamente ai punti. Roberto “Manos de piedras” era così arrivato al quarto titolo della sua carriera. Un percorso che aveva svolto senza evitare avversari, ma guardandoli tutti in faccia, lasciando loro praticamente sempre tanti centimetri, spesso però ininfluenti, di fronte alla paura che la sua mano incuteva. 
Era il combattente che tutti volevano vedere. Era il pugile immacolato, in una categoria, dove il fatto di trovarsi di fronte ad avversari più grandi e grossi di lui, esaltava la sua recondita voglia di emergere da quella povertà e da quelle umiliazioni che l’avevano marcato da fanciullo. 

Continuò a combattere. Fece ancora l’errore di accettare una terza sfida con Ray “Sugar” Leonard, ben sapendo che l’americano non avrebbe accettato la rissa, ma si sarebbe limitato alla scherma per ottenere il verdetto. Sapeva che sarebbe fuggito dall’alto della sua tecnica sopraffina. Ed infatti, Duran, perse nettamente ai punti. Ma il vero errore lo fece dopo, continuando a combattere fino all’alba dei cinquanta anni, sempre ottenendo tante vittorie e poche sconfitte. Si fermò solo perché, in Argentina, ebbe un incidente dai postumi pesantissimi. 
La carriera del vero Duran però, finì con lo stupendo successo su Barklay. Il resto è stata solo una lotta fra lui ed i suoi fantasmi, ed a me, sinceramente, non piace parlarne. 
La mia grande stima verso il pugile non s’è incrinata nemmeno verso l’uomo con la mano di pietra. In fondo, merita il rispetto di chi ha provato cose che noi non conosciamo nemmeno lontanamente. La mia è una scelta sportiva, perché gli altri venticinque incontri dalla sconfitta con Leonard, non valgono il suo mito, anche se a sprazzi s’è visto quel pugile tanto amato dalla gente. Per me, Roberto Duran è quello che, in diciassette anni, ha conquistato quattro titoli mondiali in quattro categorie di peso, passando, unico nella storia, dai leggeri (suo peso naturale) ai medi. 
Insomma, un fenomeno, e non mi va di macchiare quel ricordo con degli incontri che potranno servire alle statistiche, ma non a chi ama il pugilato.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#19
JOHNNY FOMECHON, il piuma iridato di Melbourne
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Nacque a Parigi il 28 marzo 1945. Le condizioni della sua famiglia, già in origine povera, con la guerra, si aggravarono fino alla disperazione. S’aprirono così le porte per quella emigrazione che tanta parte ha avuto nella storia di quello stato, quasi continente, in cui i Famechon si trasferirono, l’Australia.
Johnny, vero nome Jean-Pierre, cordiale ragazzo, ma tenace e testardo nella ricerca di una sua dimensione, nella nuova terra, divenne pugile come fosse la caduta naturale del suo io, e non perché suo zio Ray Famechon era stato Campione Europeo dei pesi piuma nonché avversario del grande Duilio Loi. Non era violento Johnny, il suo corpo era esile e la statura era simile a quella di un pigmeo, ma quando i più grandi lo tartassavano fino all’arrabbiatura, non ce n’era per nessuno. Faceva male per difendersi e, per questo, ben presto venne orientato verso una “prova” in palestra. Già al sacco, dimostrò di saper portare i colpi, poi, al primo contatto con un avversario, lo mandò a gambe levate. Fu subito chiaro che aveva stoffa.
Stabilitosi definitivamente a Melbourne, per le necessità sue e della famiglia di portare qualche dollaro a casa, saltò praticamente la categoria dei dilettanti, passando professionista a soli sedici anni, nel 1961. Debuttò alla Festival Hall della sua città, pareggiando sulle quattro riprese, con Sammy Lang. I suoi inizi non furono brillantissimi: incassò un paio di sconfitte ai punti, ma coloro che riuscirono a batterlo, Roy Spackman e Max Murphy, si ritrovarono entrambi a perdere nettamente la rivincita. La crescita di Famechon, s’avviò così verso l’inarrestabile. Le sue qualità di pugile ardimentoso e veloce, capace di portare tutti i colpi, con un destro non potentissimo, ma tagliente, ed una predisposizione tra le più evidenti ad incassare senza punti sensibili nel corpo (una dote rara nella storia dei piuma), trovarono via via importanti conferme. Nel novembre del 1964, a soli 19 anni, conquistò il titolo australiano dei piuma, sconfiggendo ai punti un pugile che, poi si rivelerà forte (conquisterà il titolo europeo) Domenico (Antonio) Chiloiro, tarantino emigrato in possesso del doppio passaporto, col quale ingaggerà i guantoni ben 4 volte (due vittorie di Johnny e due pari).  Nel 1967, dopo aver messo a tacere tutte le velleità dei connazionali, si avventurò verso il titolo del Commonwealth, per un australiano quasi un mondiale. Sul ring della Festival Hall di Melbourne, il 24 novembre, sconfisse ai punti il britannico John O’Brian, con un perentorio KO all’undicesima ripresa. Successivamente, andò nella natia Parigi per un “assaggio” extra-australiano con Renè Roque, un idolo dei suoi ex connazionali. Vinse l’incontro, ma il verdetto fu un casalingo “pari”. Il 13 settembre 1968, sempre a Melbourne difese il titolo del Commonwealth con lo scozzese Billy McGrundle, demolendolo con un terrificante KO alla dodicesima ripresa.
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L’ascesa di Famechon, tanto visibile, ma col neo di troppi combattimenti in patria, trovò la conferma più importante nella possibilità di battersi per il titolo mondiale WBC, a Londra, col cubano Josè Legra, un pugile con la bellezza di 109 incontri e solo 6 sconfitte. Johnny, convinto dei suoi mezzi, si trasferì in Inghilterra, ed accettò di combattere solo dieci giorni prima del match iridato, sul medesimo ring, con l’ispanico Miguel Herrera. Fu un buon allenamento, con un chiaro successo ai punti. Poi, il 21 gennaio 1969, il gran giorno del mondiale. Famechon, con una serie fittissima di colpi, dominò Legra per undici delle quindici riprese dell’incontro e la sua vittoria ai punti fu netta. Il sogno suo e della sua famiglia s’era così avverato. Accolto a Melbourne come un eroe, non si montò la testa e decise di testarsi per la difesa della cintura, attraverso incontri con pugili che oggi varrebbero tranquillamente un titolo mondiale. Su tutti, l’italiano Giovanni Girgenti, un tecnico di nota ma non potente che era da considerarsi, aldilà dei titoli, uno dei migliori piuma d’Europa. Col pugile di Marsala, aveva già combattuto un paio di volte: pareggiando la prima e vincendo la seconda. Sul ring ormai amico di Londra, Johnny dominò il pugile italiano, vincendo praticamente tutte le 10 riprese.
Il 28 luglio 1969 sul ring del Sydney Stadium, difese il titolo mondiale dall’attacco del fortissimo giapponese Masahiko Harada. Fu un incontro fra titani: alla maggior classe dell’australiano, s’oppose la maggior potenza del pugile nipponico. Alla fine, con tre atterramenti dell’australiano contro uno del giapponese, a cui andava con diversi punti di scarto il verdetto finale, i giudici, intimiditi  dal pubblico, consegnarono la vittoria a Fomechon. Fu una conclusione abbastanza scandalosa, quanto basta perché lo stesso WBC, a quei tempi molto vicino alla boxe giapponese, imponesse una rivincita da svolgersi nel Sol Levante. E così, il 6 gennaio 1970, sul ring di Tokyo, i due si ritrovarono di fronte, per chiarire meglio chi fosse il più meritevole della cintura iridata. Davanti a diecimila spettatori inneggianti Masahiko, Johnny Famechon servì il suo capolavoro. I colpi del giapponese, delle autentiche rasoiate, trovarono un muro nell’elasticità della difesa di Johnny, mentre la gragnola di destri e sinistri dell’australiano, cominciarono a lasciare effetti devastanti sul viso e sui fianchi del nipponico. Alla dodicesima ripresa, l’incontro, ormai completamente nelle mani di Famechon, registrò il disperato attacco di Harada, il quale, sulle ali del tifo, richiamò le ultime forze per cercare un liberatorio KO. Masahiko puntò tutto sui ganci, il colpo più facile e naturale quando le forze si affievoliscono, ma le gambe ed il tronco di Johnny, si trasformarono in cavallette e gomma. Alla fine della ripresa, il nipponico andò all’angolo distrutto e si capì che solo un colpo fortunoso, poteva salvarlo dalla sconfitta netta o dal KO. Nel round successivo, Famechon ancora perfettamente in forze, ragionò come meglio non si poteva: attaccò senza scoprirsi, seppellì di destri il giapponese senza dargli una sola occasione per sferrare un efficace gancio. All’inizio della penultima ripresa l’epilogo: Johnny, dapprima con un paio di diretti sinistri fece vistosamente traballare Harada e poi, con un destro al fulmicotone mandò a gambe levate e fuori dalle corde il giapponese, che non si rialzò. Fomechon, aveva vinto da maestro, a soli 25 anni, nella bolgia del tifo avversario, il match più difficile della sua carriera. L’etichetta di “grande”, giunse siamese alla sua cintura iridata. Melbourne lo accolse ancora una volta con onori regali, ma in lui cominciò, dopo dieci anni di boxe, a serpeggiare l’appagamento, il bisogno di mettere un punto. Quattro mesi dopo la grande notte di Tokyo, andò solo per soldi a Johannesburg, per incontrare, senza titolo in palio, Arnold Taylor, idolo locale, nonché ottimo pugile. Vinse nettamente ai punti, ma ormai la sua voglia di combattere e concentrarsi si stava affievolendo. Decise così di ritirarsi all’indomani del mondiale di Roma, col campione WBA, il grandissimo picchiatore messicano Vicente Saldivar. Giurò a se stesso che non avrebbe cambiato idea, nemmeno di fronte ad una sconfitta. Da persona intelligente, Johnny aveva capito che per rimanere ai vertici serviva una determinazione che non aveva più. D’altronde a venticinque anni, dopo dieci anni di combattimenti da professionista, una forte flessione della tensione agonistica era più che normale, soprattutto per uno come lui sì denso dell’acume necessario per non farsi del male. Nella sua mente c’era il sostegno alla famiglia in altro modo, pensava al padre che macinava chilometri su un camion negli sconfinati itinerari d’Australia.
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Andò così a Roma per mettere la parola fine alla carriera, senza quello spirito che fu determinante nel successo con Harada. Ciononostante fu un degno avversario per l’emergente pugile messicano. Saldivar, vinse ai punti, ma con uno scarto minimo e, soprattutto, nemmeno il gran picchiatore centroamericano fu capace di far piegare definitivamente le ginocchia di Famechon. Non c’era riuscito nessuno e Johnny si ritirò come aveva promesso a se stesso: su 67 combattimenti da professionista aveva subito solo 5 sconfitte ai punti.
Diversi anni dopo il match romano, quando i postumi di un gravissimo incidente gli avevano imposto una perenne menomazione, Famechon, si confessò al mio grande amico Thomas Christou. “Certo – gli disse – dopo il match con Harada a Tokyo, la caduta della mia concentrazione verso il pugilato mi coinvolse completamente. Era giusto smettere al più presto. Andai a Roma con Saldivar per onorare un impegno, ma niente m’avrebbe fatto cambiare idea, nemmeno se l’avessi messo KO”.
Johnny era stato grande a sufficienza e chi lo ha visto combattere, non lo dimenticherà mai.
Oggi, Famechon, vive a Melbourne, come negli anni d’oro della sua carriera.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#20
                                                                         Rubin Carter - Hurricane

Parlando di pugilato spesso mi sento chiedere notizie di “Hurricane”, il pugile immortalato da Bob Dylan, scampato all’ergastolo, anche per il peso che giocò sull’opinione pubblica la canzone a lui dedicata dal grande cantautore americano.
Ma omettendo completamente le vicende umane e civili, chi era Rubin Carter come pugile? Un fenomeno, come dice qualcuno? O un modesto che deve tutto a Dylan, come sostiene Rino Tommasi?
Vediamo......
                         [Immagine: 500px-Giardello-Carter_U1451931.jpg]
Indubbiamente Rubin Carter (Hurricane), nato a Clifton, nel New Jersey il 6 maggio 1937, morto a Toronto il 20 aprile 2014, deve a Dylan e al risveglio della spesso rattrappita opinione pubblica americana, gran parte del suo mito e di quelle vere e proprie leggende che su di lui sono state scritte. Non era però come ha sostenuto Tommasi uno sprovveduto o un brutto anatroccolo trasformato in cigno dalla mente di un artista. La sua luce di ottimo pugile, non fenomeno comunque, Rubin la possedeva intatta. A dirlo sono alcune sue imprese che, se si fossero consumate negli anni ottanta e nei primi novanta (l’epoca d’oro della vendita mediatica di Rinone), avrebbero spinto Hurricane (già l’appellativo, pugilisticamente dice molto) al ruolo di riferimento d’audience. Non si straccia come un pupazzo di pezza un pugile come Emile Griffith, stroncato con tre atterramenti alla prima ripresa, nel 1963, a Pittsburgh, se non si hanno doti. E dire che il pugile delle Isole Vergini, di Rubin più giovane di soli otto mesi, poi divenuto star anche per il pubblico italiano, in virtù dei suoi tre incontri con Benvenuti e quello ben condotto, da vecchio, con Monzon, all’epoca del match con Carter, aveva già conquistato per ben tre volte il titolo mondiale (due volte nei medi ed una volta nei superwelter). Notevoli pure le vittorie su Jimmy Ellis, poi divenuto peso massimo d’evidenza, capace di prendersi pure la cintura iridata nel periodo in cui Cassius Clay (allora lo chiamavano tutti così…), fu fermato per il suo rifiuto di combattere in Vietnam, indi Fiorentino Fernandez, Farid Salim, George Bentos, Fate Davis, ottimi pugili. Anche la sconfitta ai punti più che onorevole con Joey Giardiello per il titolo mondiale dei medi, mise in evidenza le facoltà di Hurricane: un pugile animoso, di buona tecnica, ma poco incline alla difesa. Nel suo palmares, prima della prigione, si ritrovano anche molte sconfitte, alcune delle quali, forse, pilotate da quell’anima grigia di stampo mafioso, che ha spesso accompagnato il cammino di molti boxeur made in Usa, specie di pelle nera. Inoltre, perdere di misura ai punti, con gente come Dick Tiger, Luis Rodriguez, Joey Archer non può in alcun modo dimostrare poche capacità. Va pure detto che a quei tempi, le sigle erano solo due: la WBA e il WBC. Un buon pugile dunque……direi a metà strada fra quello che sostengono in molti e Rino Tommasi. Di sicuro, uno che al giorno d’oggi, con tutte quelle sigle, ed i bisogni di far passare il poco, come il tanto, sarebbe sicuramente diventato campione del mondo.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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