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Spruzzi di Giro d'Italia...
#1
Spruzzi di Giro d'Italia......sul passato delle località di tappa dell'edizione 2021

1961 - Giro del Centenario dell'Unità d'Italia

1a Tappa: Torino – Torino

La prima frazione del Giro del Centenario, denominata “Trittico Tricolore”, si svolse interamente a Torino, città cuore per le sue benemerenze risorgimentali, nonché prima capitale d’Itala dal 1861 al 1865. La tappa proponeva un percorso affatto semplice, lungo 115 chilometri, con i 716 metri del Colle della Maddalena e nel finale la salita dell’Eremo. Il giovane Franco Balmamion, dopo aver animato la corsa, scattò sull’ultima asperità, ed alla sua ruota Arnaldo Pambianco. I due furono ripresi in discesa da Aurelio Cestari e dal grande corridore spagnolo Miguel Poblet. Non riuscirono a completare l’aggancio Fabbri, Bruni e l’irlandese Elliott. Gli ultimi chilometri della frazione si consumarono, tra lampi, tuoni e una bufera di grandine. Proprio il maltempo che trasformò la giornata in tregenda, fu la causa di diverse cadute. Ne fece le spese un corridore atteso come Ercole Baldini, che fu costretto al ritiro. Idem il belga Jos Hoevenaers e Tonino Domenicali. Nello sprint decisivo a quattro, facile successo di Poblet. Arnaldo Pambianco finì quarto, ma contentissimo dell’inizio, perché incamerò più di un minuto sui più pericolosi avversari e, soprattutto, dimostrò di essere in forma. Le gambe giravano molto bene. A fine tappa Gabanì non perse tempo per indurre i cronisti ad annotare il suo nome fra i favoriti del Giro.  

 Ordine d'arrivo:

1° Miguel Poblet (Esp) in 2h48'49" media di 40.873 kmh
2° Franco Balmamion (Ita) 
3° Aurelio Cestari (Ita) 
4° Arnaldo Pambianco (Ita) 
5° Dino Bruni (Ita) a  41”
6° Seamus Elliott (Irl) 
7° Nello Fabbri (Ita) 
8° Rino Benedetti (Ita) a 1’19”
9° Silvano Ciampi (Ita) 
10° Loris Guarnieri (Ita) 

Sul vincitore di tappa Miguel Poblet ....
[Immagine: 13817741955_0ff902bfc6.jpg]
Nato a Montcada i Reixac il 18 marzo 1928 deceduto a Barcellona il 6 aprile 2013. Passista veloce alto 1,69 x 69kg. Professionista dal 1945 al 1962 con 193 successi.

Dire che Poblet rappresenta uno dei massimi campioni che la Spagna possa vantare è verità, anche se il tempo e la fresca memoria di un Indurain, di un Olano, di un Heras, di un Freire e dell'ancora odierno Valverde, può far apparire il tutto con luce più offuscata. Fisicamente molto potente, possedeva uno spunto velocistico di nota primaria che gli consentì di vincere copiosamente, sia in terra iberica che in Italia, dove ha svolto la maggior parte della sua carriera e dove era popolarissimo. Di lui si ricorda con particolare affetto il modo gentile di proporsi e il protagonismo che riusciva a recitare anche quando veniva sconfitto. Era persino un'icona, come diremmo oggi, del pubblico femminile dell'epoca. Le sue più importanti affermazioni, tra l'altro, portano dritte nel nostro Paese. Si impose nella Milano-Sanremo del 1957 superando il belga, poi giornalista, Fred De Brune e si ripeté nel '59, stavolta davanti al celeberrimo Rik Van Steenbergen, mentre nell'anno di mezzo fra i due successi, nel '58, giunse secondo, bruciato dall'emergente ed imperioso Van Looy. Un altro aspetto evidente della presenza ciclistica di Miguel Poblet, ci giunge dal suo essere stato, per un lustro, il più grande cacciatore di tappe al Giro d'Italia. Nel suo palmares figurano ben 20 successi in sei partecipazioni alla corsa rosa: quattro nel '56 e altrettante nel '57, tre nel '58, '59, '60, '61. In Italia vinse inoltre la Milano Torino '57 e la Sassari- Cagliari '60, affermazioni, che unite alle altre e al fatto di militare nell'Ignis, contribuirono a creargli un'enorme simpatia fra gli italiani anche perché Miguel non perse mai occasione di proporre ripetute attestazioni di amicizia verso il nostro paese. 
L'altra parte del suo bottino è data dalle vittorie in Spagna, a cui si aggiungono quelle in terra francese al Midi Libre '55 e da tre tappe del Tour. Nella sua terra passò professionista da subito, a soli sedici anni, approfittando della promiscuità delle gare e, già a diciassette, si dimostrò vincente come i corridori più navigati. Una rapida disamina ci evidenzia successi nel campionato spagnolo della Montagna nel '47, '48, '49 (quando era ispirato, Miguel, si difendeva benissimo in salita, basti citare il suo successo sul Bondone al Giro d'Italia '57, nel giorno della famosa fermata per pipì di Gaul, che costò al lussemburghese un successo pressoché sicuro); nelle gare a tappe come il Gran Premio di Catalogna '47-'48, il Gran Premio Marca '48, Il Giro di Catalogna '52 e '60 e il Giro di Majorca '54. Fra le corse d'un giorno ha vinto il Campionato di Sabadell '45, il Trofeo Jaumandreu '45-'47, il Campionato di Catalogna '46-'47-'48, il Gran Premio Amorebieta '47, il Gran Premio di Pamplona '48, il Campionato di Barcellona '51, '56, '57, il Trofeo Mansferrer '54 oltre a tre tappe della Vuelta di Spagna che ha corso solo due volte. Per le sue doti di sprinter è stato validissimo anche su pista, vincendo sette volte il campionato spagnolo di velocità, uno di americana (con Sant) e imponendosi in tre Sei Giorni: a Barcellona, Buenos Aires e Madrid. Dopo aver chiuso la carriera nel 1962, è rimasto per lunghi anni nel ciclismo spagnolo come figura carismatica, ha presieduto la Federazione Catalana nonché assunto il ruolo di massimo organizzatore del Giro di quella regione per diversi anni. Un monumento per il ciclismo iberico.

Il vincitore del Giro del Centenario dell'Unità d'Italia 1961 fu poi Arnaldo Pambianco
[Immagine: stadio_Pambianco_1961.jpg?ssl=1]

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
Non mi sono dimenticato....
Domani, a ritmo di una località al giorno.....arriverà uno zoom, fra tappa e personaggi, coinvolgenti Novara.....
 
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#3
1968 – 2a tappa del 51° Giro d’Italia

Campione d’Italia - Novara

Per chi scrive, i 128 chilometri senza difficoltà di questa tappa novarese, rappresentano il teatro di una delle più strabilianti performance del vastissimo emporio dell’infinito Eddy Merckx. Il non ancora 23enne belga, con addosso la Maglia Iridata ed un curriculum già sufficiente per eleggerlo epocale, era entrato in forza alla Faema, un marchio che il grande Vincenzo Giacotto aveva riportato al ciclismo professionistico di vertice, col chiaro scopo di condurre Eddy a trasferire anche nelle grandi corse a tappe, il vittorioso incanto che aveva già tracciato sugli orizzonti delle classiche. Alla vigilia del Giro, l’osservatorio ed giornali italiani, nutrivano dubbi sulla tenuta del giovane belga sulle lunghe salite: evidentemente il Giro del 1967 di Merckx, dove vinse la tappa sul Block Haus e fu protagonista con poche spinte sulla “frazione delle spinte” alla Tre Cime di Lavaredo, aveva insegnato poco. 
In “Casa Faema”, invece, non erano di certo i valori sulle asperità del pupillo di Giacotto a preoccupare, bensì quella esuberanza che Eddy mostrava in ogni dove e che avrebbe potuto consumarlo oltre quei comunque amplissimi confini dei suoi valori psicofisici. Per questo, il grande manager torinese che viveva a Milano, aveva voluto portare sull’ammiraglia biancorossa il milanese Marino Vigna, Oro Olimpico a Roma ’60, poi buon professionista, ma, soprattutto, persona estremamente saggia. Per Giacotto, Marino era il nocchiero ideale per smussare il grezzo dell’incredibile diamante belga e Vigna, per raccogliere la volontà dell’amico Vincenzo, aveva posto la bicicletta al chiodo a soli 30 anni, stracciando addirittura un probabile contratto per continuare a pedalare tra i prof. Ma la mente del manager, non s’era fermata al direttore sportivo. In Faema aveva portato corridori scudieri belgi ed italiani di provate capacità e si era attrezzato pure con l’innesto di un altro big, avente eccellenti qualità di spalla. Costui era Vittorio Adorni, così bravo a far crescere Gimondi anche quando questi non gli era superiore, ed a fargli addirittura vincere corse come il Lombardia, danneggiando proprio lo scatenato nuovo compagno di colori Eddy Merckx. Adorni, tra l’altro, conosceva benissimo Vigna, fin dai tempi delle Olimpiadi di Roma, dove fu riserva del milanese. Nei mesi precedenti il Giro, il neo direttore sportivo cercò di insegnare a Merckx la pazienza e quello che poi lui definì come “l’insegnamento dell’andar piano”. In sostanza far imparare ad Eddy l’attesa, la concentrazione sull’acuto al momento opportuno, le pedalate defaticanti e il far lavorare i compagni per lui e non lui a trascinare i compagni verso avventure e velocità che non potevano sopportare. Un compito difficile, a tratti persino imbarazzante, visto lo spessore inimmaginabile di questo campione straordinario e senza freni. Ci fu un episodio, l’iniziale nella preparazione per la stagione 1968, che aveva ben fatto capire a staff e corridori Faema, d’essere di fronte a qualcosa di secolare. Al raduno in Calabria, i corridori del sodalizio erano arrivati rodati e già preparati, nonché desiderosi di far vedere d’essere degni del prestigio storico del marchio per il quale avrebbero corso. Vigna, su consiglio di Adorni, aveva proposto l’uscita su un circuito d’allenamento abbastanza duro, da considerarsi perfetto banco di prova per vedere valori e stati di forma. Eddy, a differenza di tutti gli altri, era arrivato al ritiro dopo un inverno anomalo: s’era sposato, non aveva certo fatto la vita che si voleva del corridore, con bicchieri di birra e persino sigarette in più, rispetto al narrabile come eccezioni nel “galateo del ciclista”. Sulla bicicletta, solo un paio di Seigiorni ed una gara dietro derny su pista. A quella prima prova di rodaggio in terra calabrese, ben presto si portò in testa, mettendo in fila i circa venti compagni senza chiedere cambi. Continuò in quel modo per un lasso decisamente troppo lungo per i terresti colleghi, al punto di spingere Vittorio Adorni ad avvicinare Vigna in ammiraglia, e dirgli: “Marino trova il modo di cambiare programma, perché quello fra meno di un minuto ci stacca tutti!”.
[Immagine: 14387998413_427248f5b3_b.jpg]
L’episodio e le difficoltà a frenare un poco il dispendio d’energie di Eddy, negli allenamenti e nelle prime corse, spinsero Giacotto a consultarsi con Jean Van Buggenhout, l’amico procuratore o manager personale di Merckx: un personaggio che si sapeva influente come nessuno sul campione, ma che il mondo dei giornalisti non ha mai zoomato più di tanto, lasciando i lettori e l’osservatorio all’intorno della sola definizione di “uomo ombroso”. Resta il fatto che l’ambiente Faema giunse alla vigilia del Giro d’Italia ’68, certo farcito di altisonanti vittorie, ma altrettanto consapevole che la volontà di Eddy, era quella di arrivare subito alla Maglia Rosa, per far capire a tutti che avrebbe portato a termine l’effige vincente che aveva fatto intravvedere l’anno prima. 

La tappa di Novara, breve e piatta, doveva essere un festival per quei velocisti che, ai tempi, potevano avere a disposizione un compagno o due, ben lungi dunque dai treni di oggi. Il velocista della Faema era Guido Reybrouck un tipo che al pari degli altri colleghi sprinter, sapeva arrangiarsi da solo, nel senso che non si perdeva o demoralizzava se non aveva compagni a disposizioni. Sta di fatto che la tappa fu anomala: sorniona e paradossalmente lenta nella prima parte, indi esplosiva e coi big in prima linea nella seconda. La miglior generazione di ciclisti italiani di sempre, a tre quarti di corsa, lungo il “tavoliere” precedente l’arrivo in via Kennedy, iniziò a recitare attacchi e  contrattacchi che fecero impennare la media e misero in difficoltà nomi altisonanti. Iniziò Motta, provò Bitossi, riprovò Motta proseguì Gimondi che spese non poco per non guadagnare nulla e s’inserì fra gli acuti italiani quel gran corridore belga che rispondeva al nome di Edward Sels. Tutto inutile, ma con un gruppo impazzito, a 60 kmh, che stava per ricevere l’ulteriore tempesta di un gesto da finisseur epocale. A 4 chilometri dal termine, Martin Van Den Bossche, il perticone della Faema, consapevole delle volontà di Eddy di giungere al Rosa, non sicuro delle possibilità di Reybrouck, vide un varco e urlò al capitano di partire. Merckx, che fino a quel momento era stato un fresco controllore degli altri, partì come una scheggia, fino a superare di slancio la moto del cronista Rai Adone Carapezzi (figlio di Anteo, storico direttore del Vigorelli). La sparata fu eccelsa, ed il gruppo, con tutti i big impegnati come medesimi soldati della stessa squadra, si pose in un veemente inseguimento, ma Eddy era una MV Agusta sulla bici. I 30 metri guadagnati d’impeto iniziarono a crescere su un vortice d’andatura che superava lautamente i 66 kmh. Al traguardo di Novara, sfrecciò con 6” secondi. Una performance impressionante che il sottoscritto non dimenticherà mai. Al pari di una analoga dello stesso Merckx, nella tappa finale della Parigi Lussemburgo nell’agosto del 1969.
[Immagine: e133c3c0fde2cc72bbfeb3bd511852af.jpg]

Ordine d’arrivo:

1° Eddy Merckx (Bel) km 128 in 2h58'56" alla media di 42,918 kmh
2° Marino Basso (Ita) a 6"
3° Guido Reybrouck (Bel)
4° Aldo Pifferi (Ita)
5° Edward Sels (Bel)
6° George Vandenberghe (Bel)
7° Giorgio Destro (Ita)
8° Gianni Motta (Ita)
9° Vito Taccone (Ita)
10° Jean Baptiste Claes (Bel)

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#4
1964 – 21a tappa del 47° Giro d’Italia

Torino - Biella

Dopo l’assaggio sul Sacro Monte d’Oropa dell’anno precede, la penultima tappa del Giro d’Italia 1964, segnò il primo arrivo nella Città di Biella. Teatro d’epilogo, lo Stadio La Marmora, la cui pista d’asfaltoide bituminoso si prestava perfettamente per un evento ciclistico. 
Fu una prima al Giro anche per il vincitore, l’appena ventunenne Gianni Motta, autore di una gran prova, nel primo giorno di libertà reale, dopo tanto lavoro come spalla di Guido De Rosso, capitano designato della Molteni. Un Motta che confermò nell’occasione quanto fossero vere le attese su di lui dell’osservatorio. Inoltre quella classe e quella completezza che il giovane biondino di Groppello d’Adda aveva mostrato fra i dilettanti e nella vittoriosa cronotappa al Giro di Romandia di un mese prima, col trionfo di Biella, grazie alla TV, assicurarono al corridore lombardo un aumento considerevole di simpatie e di tifo. Gianni era il baby di quella che, nonostante due mostri del pedale come Anquetil prima e Merckx dopo, si dimostrerà come la più forte generazione italiana d’ogni tempo. 
 La difficile tappa Torino-Biella s'avviò da subito come una battaglia coinvolgente i più forti corridori del lotto e della classifica. La grande andatura sui 43 kmh, il vento, ed i continui scatti, spezzarono il gruppo in due tronconi. Nel primo, la Maglia Rosa Jacques Anquetil coi migliori di classifica, escluso il due volte vincitore del Giro Franco Balmamion, chiamato ad una giornata di grandi inseguimenti e di fatica. A Donnaz, in Val d'Aosta, quando già i corridori avevano affrontato asperità sufficienti a dare speranze di rientro ai più forti del secondo troncone, se ne andarono in cinque: Pambianco, Rostollan, Battistini, Bailetti e Minieri. Lungo lo strappo di Montjovet i veloci Minieri e Bailetti si staccarono ed alle Terme di St. Vincent, ai piedi del Col de Joux, il terzetto rimasto al comando aveva 3' e 50" di vantaggio sul grosso. Sui  tredici chilometri del Joux, il passo imposto da Pambianco fece crollare Battistini ed in cima il vincitore del Giro '61, transitò primo con qualche metro sul francese, 2'20" su Neri, 5'20" su Battistini, e a 5'40" il gruppo di Anquetil. La discesa ripidissima, pietrosa e polverosa seminò forature a iosa, ma lanciò appieno le velleità di un trio composto da Motta, Renzo Fontona e dal protagonista principale del Giro fin lì consumato, ovvero quel Franco Bitossi già vincitore di 4 tappe fra le quali la leggendaria Cuneo-Pinerolo. I tre raggiunsero Neri ed iniziarono la caccia alla coppia Pambianco-Rostollan. Le preoccupazioni per la tanta battaglia e la promessa fatta a Motta di poter fare la propria corsa in quella frazione, spinsero Giorgio Albani, nocchiero della Molteni, a fermare Guido Neri per aiutare De Rosso. A Brusson i 3 inseguitori marcarono 6' di ritardo, portati a 3' in quel di Bard, fino a giungere ai piedi della dura salita finale, la Croce di Serra, a poco più di un minuto dai battistrada. L'ascesa evidenziò la grandissima classe di Motta, inseguitore fin lì ben poco aiutato da un Fontona in difficoltà e da un Bitossi che, da gran corridore, ben aveva capito di quale pasta fosse fatto il giovane lombardo e pensò solo a spendere il meno possibile per vincere la tappa. Davanti, un Pambianco sempre più affannato anche per la passività di Rostollan, cominciò a cedere, ed a metà del Croce Serra avvenne il ricongiungimento. A quel punto l'alato Gianni, aumentò la cadenza e scattò. Nessuno fu capace di tenergli la ruota. In cima, a 22 chilometri da Biella, Motta passò con una trentina di secondi su Bitossi, più staccati gli altri col gruppo di Anquetil a 2 minuti. Giù verso Biella e lungo la pianura finale si potè assistere ad un duello incredibile fra i due prodigi italiani, con Franco che guadagnò in discesa, ma non riuscì a togliere in pianura il vantaggio che rimaneva a Gianni. Sulla pista del La Marmora di Biella, il biondino di Groppello d'Adda, raccolse gli applausi  del pubblico, l'ammirazione dell'osservatorio e fece capire che era in possesso di qualità straordinarie. Il Giro andava cosi all'epilogo per consegnare al leggendario Anquetil la sua seconda Maglia Rosa finale, ma da Biella gli orizzonti del ciclismo s'erano arricchiti di una nuova aurora, avente tutti i colori-traguardi possibili. 
[Immagine: 1051.jpg] 

Ordine d’arrivo:
1° Gianni Motta (Ita) km 200 in 5h29'36" alla media di 36,408 kmh
2° Franco Bitossi (Ita) a 5"
3° Italo Zilioli (Ita) a 1'07"
4° Guido Carlesi (Ita)
5° Franco Balmamion (Ita)
6° Rolf Maurer (Sui)
7° Vittorio Adorni (Ita)
8° Carlo Chiappano (Ita)
9° Aldo Moser (Ita)
10° Arnaldo Pambianco (Ita)

Il ritratto del vincitore di tappa....

GIANNI MOTTA
Nato a Cassano d’Adda (Milano) il 13 marzo 1943. Completo. Professionista dal 1964 al 1974, con 89 vittorie. 
Sicuramente il miglior talento puro della grande generazione italiana degli anni sessanta. Gianni Motta, possedeva un poker di distinguo che i pur illustri colleghi suoi contemporanei non avevano: classe, coraggio, inventiva e completezza. Ad esaltare quelle qualità, interveniva nel “biondino di Groppello d’Adda” come da definizione a lui siamese fin da giovanissimo, un carattere spontaneo, venduto per difficile e contorto, quando in realtà era solamente non conformista. Voleva vederci chiaro il Gianni, e lo diceva magari con un fraseggio sgrammaticato, ma la sostanza era evidente. Passava per antipatico e la sua spavalderia non lo aiutava di certo, ma l’oggettività dei suoi valori, a distanza di oltre mezzo secolo è ancora lì, a gridare le sue grandezze e, diciamolo pure, le sue sfortune. Già, perché sul curriculum di Motta, giocò un ruolo notevole il dolore ad una gamba, nato probabilmente in seguito ad una caduta in Romandia nel ‘65, dove un’auto al seguito, gli passò sul ginocchio sinistro. Anni dopo, al termine di peripezie e continue visite presso specialisti, alcuni dei quali completamente fuori rotta, gli fu diagnosticata una strozzatura e una lesione traumatica alla arteria iliaca sinistra. Era così evidente, che un intero staff medico, si chiese come avesse fatto a correre e vincere in quelle condizioni. Eppure lo aveva fatto, intingendosi di giornate luminose e, sempre o quasi, guardando in faccia gli avversari con fierezza. 
[Immagine: Gianni_Motta_1966.jpg?1620643397355]
Gianni Motta, era figlio di un agricoltore di Groppello d’Adda, una famiglia umile e laboriosa che lo indirizzò, tanto involontariamente quanto in sincronia coi tempi, a pensare presto al lavoro. Ed il giovane cresceva longilineo e volonteroso. A quattordici anni vantava già un’esperienza sui campi del padre e l’ingresso alla omonima azienda dolciaria per imparare e svolgere la professione di pasticcere. Per andare alla Motta, Gianni era costretto a sobbarcarsi chilometri e chilometri in bicicletta, incontrando così la passione per quel mezzo che lo faceva eccellere ad ogni confronto spontaneo con coetanei e più grandicelli. Era così bravo che fu subito segnalato ad una squadra come il G.S.Faema di Milano, una consorella giovanile dell’equipe professionistica, a quei tempi da considerarsi come la leader. In quel sodalizio Motta passò tutta la sua esperienza ciclistica prima di passare prof. In quegli anni, il dominio del biondino, vissuto come traduzione di una bellezza stilistica e di un’efficacia da lasciare a bocca aperta, si aprì con tangibilità.
Immediatamente i tecnici azzurri pensarono di fare di Gianni un riferimento, ma il ragazzino, intelligente, li fermò pagando quell’affronto per anni. In sostanza non si voleva spompare perché aveva già capito che il ciclismo vero, quello che crea fama e sostanza, era solo quello dei prof. In particolare Motta non voleva correre quella 100 km a squadre che giudicava troppo pesante per le gambe di un giovane, accettando così di far nascere in superficiali osservatori che al talento unisse svogliatezza. Gli furono precluse così le porte azzurre anche per i mondiali dilettanti su strada del 1963, prova alla quale avrebbe preso parte volentieri perché non la giudicava gravosa: in fondo stava passando al professionismo. Del Motta “puro” resta l’immagine di un atleta longilineo, scalatore, passista e stilista nel contempo, in altre parole un gioiello a cui tutto il mondo professionistico era proteso e non solo per la miriade di vittorie colte, comprese quelle mai bugiarde del Giro della Valle d'Aosta e nella San Pellegrino. Un episodio non di gara, ma dimostrativo delle qualità incredibili del “biondino di Groppello d’Adda” si consumò quando era ancora allievo. Imerio Massignan, allora uno dei migliori scalatori mondiali, stava provando il Muro di Sormano, la terribile salita che in quegli anni faceva parte del percorso del Giro di Lombardia, quando per strada incontrò il ragazzino biondo. Vedendolo indisponente alla sua ruota, scattò per togliersi il fastidio, ma il piccolo Motta non solo non si staccò, ma addirittura replicò, mettendolo alla frusta. Un match pari, ma uno dei due aveva 17 anni! 
Il salto di categoria si concretizzò con la Molteni, nel 1964, e fu subito un boom. Motta era straordinario. La sua purissima classe favorì un folgorante inizio. Alla fine del primo anno aveva già collezionato otto vittorie… e che vittorie! Basta citarne tre: il Giro di Lombardia (1), la tappa di Biella al Giro d’Italia (chiuso al 5° posto) e il Trofeo Baracchi (in coppia con Fornoni). L’anno seguente non poté partecipare alla corsa rosa per quella caduta al Giro di Romandia che poi si rivelerà disastrosa per la sua carriera. Ciononostante assorbì stoicamente l’infortunio e si presentò al Tour de France giungendo terzo, dietro Gimondi e Poulidor. Era il preludio alla sua vittoria al Giro d’Italia del 1966, vinto con spavalderia e senza nessun aiuto dettato da interessi sinergici. Quell’edizione della corsa rosa, mise veramente in evidenza un corridore superiore, bello da vedere e capace di tradurre la bellezza nell’efficacia.
[Immagine: Gianni-Motta.jpg]
Irrequieto e anticonformista fuori corsa, grintoso e spavaldo in gara, Gianni Motta si fece la sua bella corte di tifosi e nacque da lì una rivalità con Gimondi che non si aggiustò mai. Rivalità che ebbe il suo punto più caldo nel 1967 quando  Motta, già in preda ai suoi dolori alla gamba sinistra, preparò i mondiali di Heerlen in maniera inconsueta sotto la guida del dottor De Donato e fuori dal novero della squadra azzurra. Poi in gara, partì dopo pochissimi chilometri favorendo la nascita  della fuga decisiva, ma subì il peso totale della corsa e nella volata decisiva, cotto, finì soltanto 4° dopo Merckx, Janssen e Saez. Di lì nacque una polemica bruciante.
Dopo la vittoria al Giro d’Italia ’66, non seguirono altre grandi prove nelle corse a tappe e le sue vittorie, pur se numerose, non furono più di gran risalto. Di rilievo i quattro successi nella Tre Valli Varesine e i tre nel Giro dell'Emilia, anche se una corsa come la Milano-Sanremo gli sfuggi sempre: lo vide due volte secondo, nel '67 e '72. Ma, come detto sopra, il peso di quel doloroso disturbo alla gamba, giocò un ruolo enorme. Quando, nel 1970, riuscì a risolverlo, ormai era concettualmente un ex, perché aveva speso risorse mentali ed economiche nella sua attività commerciale e il rapporto di concentrazione verso il ciclismo, non fu più quello che doveva essere. Inoltre, i 4 anni di attività ridotta e sofferente pesarono non poco sul suo fisico. Il 1974 fu la sua ultima stagione, anche se due anni dopo la fine  della carriera, nel 1976, fece un'apparizione nel Giro delle Puglie. 
Gianni Motta passa alla storia come bello e breve, ed anche se non poté raggiungere il palmares che valeva, resta agli occhi di chi scrive, un corridore verso il quale bisogna togliersi tanto di cappello.

IL PALMARES DI MOTTA
1964 - Molteni
Cronotappa Le Lacle (Giro di Romandia) Tappa Biella (Gira d’Italia); Coppa Bernocchi; Circuito Busto Arsizio; Prova di Corsico - Trofeo Cougnet; Gran Premio Molteni-Arcore; Giro di Lombardia; Trofeo Baracchi Cronocoppie (con Fornoni).
1965 - Molteni
Tappa Midi Libre (Francia); Tre Valli Varesine; Gran Premia di Sormano-Desio;  Gran Premio di Robbiano; Circuito di San Venanzio; Corsa di Coppi; Circuito Triuggio; Circuito Groppello. 
1966 - Molteni
Gran Premio di Manaco; Giro di Romagna; Tappa di Losanna (Giro di Romandia);  Giro di Romandia; Tappa di Levico (Giro d’Italia); Tappa di Moena (Gira d’Italia);  Giro d’Italia; Criterium Seignelay (Francia); Tre Valli Varesine; Gran Premio Giussano;  Criterium Vergt (Francia); Tappa Parigi Lussemburgo; Circuito di Foligno;  Circuita di Collecchio; Frazione cronostaffetta Ghisallo.
1967 - Molteni
Milano-Torino; Circuito Ospedaletti; Tappa Les Diablerets (Giro Ramandia); Tappa Silvaplana (Gira Svizzera); Tappa Locarno (Giro Svizzera); Giro della Svlzzera; Circuito di Consonno; Tre Valli Varesine; Teramo-Montorio (frazione Cronostaffetta)
1968 - Malteni
Circuita Laveno Mombello; Criterium La Limounziniere (Francia); Tappa Ginevra (Giro Romandia); Circuito Ghignolo Po; Lanzio-Plesio (frazione cronostaffetta);  Giro dell'Appennino; Giro dell'Emilia; Circuito di Scorze.
1969 - Sanson
Vicenza – G.P Campagnolo (prova Trofeo Cougnet); Circuito di Ponte a Egola;  Cronoscalata Mantjuich (Spagna); Montjuich class. finale; Giro dell'Emilia; Circuito di Vanegono; Criterium di Villamblard
1970 - Salvarani
Circuito di Urbisaglia; Gira dell’Umbria; Civitella-Teramo (frazione Cronostaffetta); Tre Valli Varesine; Giro dell'Appennino; Montjuich (Spagna) - prova in linea
1971 - Salvarani
Tappa Fiuggi (Tirreno-Adriatico); Circuito di Tavarnelle Val di Pesa; Giro di Reggio Calabria; Circuito di Col San Martino; Circuito di Chignolo Po; Tappa Friburgo (Giro Romandia); Tappa Lugano (Giro Romandia); Giro di Romandia; Giro dell’Emilia.
1972 - Ferretti
Circuito di Pontoglio; Tappa Fermo (Giro d’Italia); Circuito di Monsummano; Ceserano - seconda prova Trafeo Cougnet; Circuito di Castiglion del Lago
1973 - Zonca
Circuito di Bruceto; Tappa Iseo (Giro d'Italia); Mante Campione - frazione in linea; Criterim Deunieres (Francia); Circuito di Segromigno; Circuito di Strabella; Circuito di Como
1974 - Magniflex
Tappa Martinafranca (Giro di Puglia); Giro di Milano

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#5
Bellissimo Morris Applausi

Quando hai un attimo, faresti un salto sul topic di Merlier?
 
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#6
Gianni Motta  Wub Wub Wub  

Grazie Morris!  Ave 
Fu forte la sensazione che senza quella caduta avrebbe duellato addirittura con Merckx per anni... Avrebbe potuto essere un vero gigante della storia del ciclismo. 
Che i due talenti azzurri più limpidi dagli anni 60 ad oggi (lui e Pantani) abbiano avuto entrambi una carriera fortemente limitata dagli incidenti è un grande rammarico. 
 
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#7
Ah, la butto lì a te e Paglia. 
Intervallando racconto e analisi tappa per tappa di questo Giro, con pezzi su singoli corridori come quello scritto da Luca su Merlier, insieme agli spruzzi che stai dipingendo, potrebbe venir fuori un signor libro...

(P.S.: una copia firmata poi me la regalate, poi lo compro comunque e lo regalo!). 
 
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#8
1971 –  10a tappa del 54° Giro d’Italia

Forte dei Marmi – Sestola / Pian del Falco

Il rapporto fra Sestola - località appenninica posta al centro del Parco del Frignano ed ai piedi di quel Monte Cimone che ha segnato la storia dello sci italiano, per aver forgiato la crescita sciistica degli olimpionici Alberto Tomba e Giuliano Razzoli - ed il Giro d’Italia, iniziò nel 1971, con la Forte dei Marmi – Sestola (Pian del Falco) di 123 km. Un legame che poi si consolidò, ma che già all’esordio, portò alla ribalta un nome destinato a scrivere un capitolo nella storia del ciclismo: lo spagnolo delle Asturie, Josè Manuel Fuente detto “Tarangu”. Per l’osservatorio giornalistico  dell’epoca, un perfetto sconosciuto: era considerato “il neoprofessionista della Kas”, quando in realtà era già stato nell’elite ciclistica l’anno prima con la maglia della Karpy ed era stata salutata come prima la vittoria a Sestola, quando nel 1970 aveva già colto due traguardi, uno dei quali di buon valore, ovvero una tappa del Giro di Catalogna. Certo, la vittoria nella località appenninica della “Corsa Rosa”, rappresentò per Fuente un bel biglietto da visita internazionale in grado di porlo in alto nei programmi europei di quella Kas che è stato di gran lunga uno dei sodalizi più grandi della storia del ciclismo. Non va inoltre dimenticato che la Spagna del miglior Fuente, era ancora franchista, ed  alla povertà complessiva del Paese, aggiungeva una sorta di isolamento che si poteva cogliere quando atleti e squadre oltrepassavano i confini nazionali. 
E dire che il primo Giro d’Italia di Josè Manuel, non era partito coi migliori auspici. Anzi, nella seconda tappa, la Bari-Potenza, aveva rimediato una “cotta” che gli rese mezzora di distacco dai primi, per poco in tempo massimo. Crisi i cui postumi lo lasciarono ancora un paio di giorni sull’onda di un quarto d’ora di ritardo, al punto di pensare seriamente al ritiro. Tenne duro e pian piano migliorò, fino a giungere alla sua vittoriosa decima tappa.
La  Forte dei Marmi – Sestola / Pian del Falco, nella sua brevità, si propose senza un attimo di respiro. Già dopo pochi chilometri, la salita alla Galleria del Cipollaio (m. 825) mise alla frusta il . gruppo facendo emergere l’animosità di Guerrino Tosello passa prima sotto lo striscione del GPM, ma il gruppo è nella sua scia e torna compatto al termine della discesa. Al chilometro 54 sulle prime rampe della lunga ascesa del Passo delle Radici uno scatto di Lino Farisato creò le condizioni perché al comando si formasse un quartetto composto dallo stesso Farisato, da Giancarlo Bellini, Arturo Pecchielan e dallo  spagnolo Fuente. In cima al passo fu il corridore della Kas a passare per primo. In discesa, sui quattro, sopraggiunsero dapprima Andres Gandarias, indi Donato Giuliani, Josè Luis Uribezubia, Vittorio Urbani e poco dopo anche Eric Pettersson e Gino Cavalcanti. Sul drappello dei 10 al comando si posero all’inseguimento Wladimiro Panizza, Roger Swerts e Tony  Houbrechts, mentre il gruppo inseguiva a circa un minuto e mezzo. La salita finale che da Sestola portava a Pian del Falco, mise le ali Josè Manuel Fuente, al quale cercò di opporsi con tutte le sue forze Farisato, più staccati Eric Pettersson e Pecchielan e gli altri. Sulla linea, lo spagnolo anticipò di una decina di metri Farisato, andando così a vincere, per dedicare il successo alla fidanzata Maria Elena, proprio nel giorno del suo compleanno.
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Ordine d’arrivo:

1° José Manuel Fuente (Esp) km 123 in 3h38'18" alla media di 33,807 kmh
2° Lino Farisato (Ita) a 3"
3° Erik Pettersson (Sue) a 17"
4° Arturo Pecchielan (Ita) a 18"
5° Gino Cavalcanti (Ita) a 28"
6° Josè Luis Uribezubia (Esp) a 31"
7° Donato Giuliani (Ita) a 43"
8° Andres Gandarias (Esp) a 52"
9° Tony Houbrechts (Bel) a 59"
10° Roger Swerts (Bel) a 1'08"

Il ritratto del vincitore:

Jose Manuel Fuente Lavandera - El Tarangu

Jose Manuel Fuente Lavandera - El Tarangu
Di questo camoscio spagnolo delle Asturie, rimane intatto il ricordo per le sue doti di scalatore e per una simpatia dettata, certo da ragioni naturalmente presenti nel personaggio, ma pure per le sue infantili scelte tattiche che gli han tolto un palmares migliore, ma non nei termini che qualcuno sostiene. Jose Manuel Fuente Lavanderia, detto ben presto "Tarangu" in Spagna e "Cico" in Italia, non è stato un corridore facile, perché amava per indole, o necessità, gli estremi: bellissimo nelle vittorie e nelle imprese, sconsolante ed amarissimo nelle sconfitte. A suo modo, un istintivo che amava l'effetto, spesso con l'intrinseca convinzione di essere di ferro, ed imbattibile sul terreno che concepiva come unico: la salita, appunto. 
Lui ed il pubblico non lo sapevano, ma nelle vene dell'atleta che schizzava in salita, insisteva uno squilibrio della giusta percentuale di glucosio nel sangue, oggi correggibile, ma non a quei tempi e ciò favoriva la nascita di scompensi tali da provocare crisi all'atleta. In sostanza, Tarangu Fuente, aveva bisogno più di ogni altro di far convivere l'attività con una dieta perfetta nella quotidianità e nelle corse, ed un'idratazione sempre ottimale. Il fatto di non saperlo, spiega molte cose, ma non elimina completamente il gap che l'ha separato dal top. Josè Manuel era forte, fortissimo, ma non era Pantani: gli era inferiore in salita, non tanto nella sparata, ma nella tenuta di alte velocità sulle pendenze; era abissalmente più scarso del cesenaticense in discesa e, pure a cronometro, fra i due non c'erano paragoni plausibili. E' dunque ragionevole credere che, aldilà del disturbo fisico e delle stupidaggini tattiche, potesse comunque perdere nelle amate corse a tappe, da un asso totale come Merckx, o dall'altro della sua epoca nettamente superiore agli altri, ovvero il connazionale Luis Ocana. Ed è mia convinzione, contemplando la sempre aleatoria e fumosa dottrina del "se", che un Fuente, pur con le sue mancanze, con avversari come gli altri della sua epopea, ovvero i vari Gimondi, Zoetemelk, Van Impe, Gosta Pettersson, Thevenet, Van Springel, Battaglin, Poulidor, avrebbe sicuramente arricchito il suo palmares di almeno un Giro e un Tour. Il motivo? Era decisamente superiore a costoro in salita, ed anche lui, con l'arrivo della sicurezza dettata dalla cementazione dei successi parziali, avrebbe diminuito l'esigenza di darsi quelle condotte tanto istintive, quanto disperate, che contro un Merckx o un Ocana, aumentavano in maniera decisiva la fatalità dell'insuccesso. La storia comunque, va vissuta con l'onestà delle evidenze e delle sostanze, ed ora, a scanso d'equivoci, salutiamo pure il "Cico", come un corridore che ci ha fatto divertire e che ha saputo donarci, nella sua breve ma intensa carriera, aloni di grande ciclismo. Applaudiamolo e, visto che non c'è più, formuliamo voti affinché la terra gli sia lieve.
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La sua storia agonistica. 
Spinto dall'ammirazione e dal tifo verso Federico Martin detto "Bahamontes", il giovanissimo Josè Manuel, capì ben presto che era il ciclismo il suo sport e, per questo, allontanò da subito le chimere del calcio. Divenuto corridore dilettante, come tanti-troppi spagnoli dell'epoca, concepì la sua crescita basandola solo sul giudizio totalizzante le attenzioni di quella terra: la bravura in salita. Qui, Josè rispondeva bene e al resto, a quei miglioramenti tecnici, soprattutto in discesa, che, a quella età, sono correggibili per doveri naturali, non diede caso. Il Fuente da "puro", termine strano nella cultura spagnola che per anni ed anni non ha mai sviluppato una facile distinzione nelle categorie, non era comunque uno che poteva far pensare a sfracelli nell'elite. Era uno dei tanti nella traduzione finale, perché la grandezza del suo scatto sulle pendenze, era spesso resa meno letale, da una partenza ad handicap: troppe volte si trovava tagliato fuori a monte per la sua incapacità di stare attento in gruppo e affrontare le salite da posizioni decenti. In Josè però, superati di molto i venti anni, s'era concepita la convinzione che non poteva aspettare: doveva assolutamente provare il professionismo. Per farlo al più presto, tentò la strada individuale nel '68, cogliendo pure un bel successo nel GP Caboalles de Abajo e nel '69, s'accasò in una squadra, la Pepsi Cola che, come la consorella italiana del periodo, bruciò le ambizioni con un progetto troncato senza soverchi motivi. In sostanza, anche la stagione di fine anni sessanta, per Fuente, fu ben poco prodiga di confronti probanti. Sulle soglie dei venticinque anni, l'asturiano s'accasò alla Karpy, una formazione degna e con diversi corridori di nota fra gli spagnoli del periodo. Il nuovo sodalizio diede a Josè, divenuto "Tarangu", la possibilità di farsi conoscere in maniera compiuta. Nell'anno, dopo un ottimo Giro delle Valli Minerarie, dove giunse terzo nella classifica finale e secondo nella tappa più dura, nonché nel successo in una tappa della minore Vuelta di Guatemala, trovò nel Catalogna l'effetto che cercava. Vinse infatti, per distacco, l'ultima frazione della seconda corsa a tappe spagnola, proprio in quel di Barcellona. Il successo lo lanciò in orbita Kas, il sodalizio monstre della terra iberica, che decise di ingaggiarlo per il 1971. Nacque così il lustro d'oro, di Josè Manuel Fuente. 

La Kas lo schierò alla Vuelta, ma il fresco ritiro dell'asturiano complice una caduta, spinse i dirigenti del sodalizio a portarlo al Giro d'Italia e qui, Josè, si diede l'obiettivo di vincere la maglia di miglior scalatore attaccando su ogni vetta degna per prendersi punti. Attacchi sulle cime, ma anche distacchi nel finale di tappa: memorabile la crisi che coinvolse, per gli italiani il già divenuto "Cico", nella frazione del Grossglockner, dove partì a tutta per passare in testa sulla vetta e poi si sciolse in una crisi incredibile. Contraddizioni di comportamento che non gli impedirono di raggiungere la prima grande vittoria, grazie al suo scatto, nella tappa di Pian del Falco. A fine Giro, le sue altalene si tradussero in un 39° posto, a oltre un'ora e mezza dal vincitore Gosta Pettersson, ma con la certezza d'aver raggiunto lo scopo di vincere la maglia verde dei GPM, arricchita, tra l'altro, da un successo parziale. Un comportamento che spinse la Kas a portarlo pure al Tour de France, dove il Tarangu diede a tutti l'idea di che razza di  scalatore fosse. 

Dopo un inizio in sordina e tanti minuti sulle spalle, nella tappa pirenaica di Luchon, partì con uno scatto che ricordo bene sul Portet d'Aspet e scalò solitario anche il Mente e il Portillon giungendo al traguardo con 6'21" sui migliori regolati da Merckx. Si ripeté il giorno dopo a Superbagnères, giungendo solo dopo un perentorio acuto nel finale. Due vittorie di tappa, ma pure una instabilità derivata dal 72° posto finale e più di due ore di distacco da Merckx, che spingevano l'osservatorio a vedere in Fuente uno scalatore fine a se stesso, ed inimmaginabile come vincente in una grande corsa a tappe. La smentita arrivò copiosa l'anno successivo, alla Vuelta di Spagna, certo una manifestazione senza i nomi più grandi, ma pur sempre con un cast di buon livello e, soprattutto, lunga a sufficienza per verificare la tenuta dei corridori con velleità di vittoria. Bene, Josè Manuel, vinse alla grande.
Giunto al Giro d'Italia con le spalle coperte dal successo in patria, Cico provò a battere Merckx. Iniziò come meglio non si poteva, vincendo la frazione sulla Majella dove inflisse 2'36" al belga, ma subì tre giorni dopo sulle montagne calabresi, un attacco anticipato di Merckx, il quale gli sfilò la maglia rosa lasciando, a dimostrazione di quanto temesse lo spagnolo, la tappa allo svedese Pettersson che lo aveva aiutato nella fuga. Con Fuente, gli oltre quattro minuti di distacco, in quella  frazione conclusasi a Catanzaro, se li beccarono anche gli altri favoriti compresi i vanamente attesi italiani. Ulteriormente distanziato dalle cronometro di Forte dei Marmi, Cico provò di nuovo la strada dell'attacco, nella tappa che si concludeva sulla ripida salita Jafferau-Bardonecchia. Qui, aprì le vaporiere dei critici per il criterio sballato scelto (ma almeno Fuente ci provava a staccare Merckx, non si limitava a seguirlo, tra l'altro ben poche volte con successo, sperando in una crisi del belga, come faceva qualcun altro sempre in cima ai pensieri della gente italiana...), attaccando in pianura, contro vento per affrontare l'ascesa finale già con vantaggio, ma il suo ritmo calò, ed il "Cannibale" lo riprese e lo staccò a sua volta. Fuente non si diede per vinto e riprovò sulle cime della tappa di Livigno, ma ancora una volta, grazie soprattutto alla sua abilità di discesista, Merckx ritornò su di lui e lo staccò tangibilmente. Cocciuto, ma bello da vedere nella fierezza del suo modo di giocarsi le carte per vincere, Cico riprovò sullo Stelvio e stavolta lasciò il Cannibale a 2'05". Il Giro per lui praticamente finiva lì, ma alla fine, quei 5'30" che lo divisero da Merckx, se li era giocati e non era colpa sua se uno come il belga, possedeva troppe facoltà.
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Nel 1973, gli obiettivi di Fuente si concentrarono nuovamente sul Giro con l'aggiunta del Tour, ed un passaggio comunque di pregio sul Tour de Suisse. Non fece la Vuelta, dove si scontrarono in una regolazione di conti, gli unici, ripeto, gli unici corridori più forti di Tarangu nelle corse a tappe di quel lustro: Merckx e Ocana. Al Giro, il miglior Merckx di sempre, non gli lasciò scampo e si salutarono gli attacchi dello spagnolo (stupenda la sua vittoria ad Auronzo di Cadore), come una variabile necessaria per far capire che c'era qualcuno a stuzzicare un marziano. Per il terzo anno consecutivo Cico vinse la classifica del GPM, ma non salì sul podio.
Il Giro di Svizzera, invece, salutò con un vero e proprio dominio, il suo secondo successo in una importante corsa a tappe, ma al Tour de France, aldilà di tutte le distorsioni atte a far parlare o ingigantire le attese, Fuente fu piegato da uno che gli era superiore anche da prima: Luis Ocana. Tarangu lottò, perdendo per questo un possibilissimo secondo posto, ma il connazionale era di un'altra pasta, punto. Finì terzo, superato anche da Thevenet. Su chi lo aveva superato al Tour '73 però, si prese una gran bella rivincita alla Vuelta di Spagna '74. A contrastare il successo finale di Fuente fu il portoghese Agostinho (compagno di squadra di Luis) che lo impegnò al punto di giungergli a soli 11" nel foglio amarillo conclusivo. Ocana giunse quarto a 1'59 da Tarangu, che seppe mantenere la maglia leader per 12 tornate, mentre Thevenet si ritirò. 
Arrivò così il Giro d'Italia, che vedeva alla partenza il Merckx meno preparato della storia, vittima com'era stato in primavera di vari acciacchi che l'avevano costretto a disertare parte delle classiche e quelle poche perderle. Fuente, come sempre, attaccò per vincere e non per piazzarsi. Vinse cinque tappe, restò 12 giorni in maglia rosa, ma alla fine pagò la crisi che coinvolse nelle due tappe liguri. Dietro Merckx arrivarono Baronchelli e Gimondi e lui, forse il più forte di quella edizione, si dovette accontentare del quarto posto, dei singoli traguardi e della quarta vittoria consecutiva nella classifica del GPM.

Nel 1975 i suoi problemi fisici, mai concepiti prima, cominciarono a manifestarsi copiosamente e le sue flessioni furono palpabili: un solo successo in una corsa minore francese. Nel 1976, riuscì a vincere una tappa della Vuelta delle Valli Minerarie e poi lo stop imposto dai medici per una grave infezione renale. Finiva lì, la carriera di una delle icone degli anni settanta. Continuò a dedicarsi al ciclismo come direttore sportivo e, soprattutto come organizzatore, poi il 18 luglio 1996, l'irreparabile se lo portò via.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#9
Bravo Bellissimo, da standing ovation!! 
Groupwave Groupwave

Nelle interviste del dopo gara della famosa ultima tappa dello Stelvio, Giro 1975, Francisco Galdos, che aveva inutilmente tentato innumerevoli allunghi per staccare Bertoglio, disse amaramente al microfono di Adriano De Zan: "Purtroppo, io non sono Fuente." 
 
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#10
1957 – 4a tappa del 40° Giro d’Italia

Ferrara - Cattolica

Cattolica ospitò per la prima volta un arrivo di tappa del Giro d’Italia, il 21 maggio 1957. I 118 corridori rimasti in gara, partirono da Ferrara alle 12,15, con un ritardo di un quarto d’ora sul previsto, per evitare di incocciare in un passaggio a livello, posto in prossimità del luogo del via. La frazione aprì le sue prime fasi dense di scaramucce, con buona velocità, ma senza toccare l’intensità incredibile della tappa precedente, la Verona-Ferrara di 169 km, che si era conclusa con una media di 45, 583 kmh! Diversi tentativi, ma nessuno in grado di rompere la compattezza prevista per animare al massimo, quel circuito di Lugo da percorrere tre volte, che la fervida mente di Torriani aveva scelto per rendere più particolare e accattivante, una tappa piatta come quella che si sarebbe conclusa a due passi dal mare, in Cattolica. Le tre tornate lughesi, aventi un montepremi di mezzo milione di lire (circa 50.000 euro odierni), produssero una classifica a punti specifica, come sovente avveniva nei circuiti del periodo, che vide vincente l’estro velocistico del belga Willy Vannitsen. Il prosieguo della tappa verso la Riviera Adriatica visse ancora su varie scaramucce, e l’episodio cardine poco dopo Forlimpopoli, quando al comando  si formò un drappello di venti corridori: Grassi, Donker, Nencini, Sabbadin, Piscaglia, Cassano Ferlenghi, Massocco, Vlayen, Fallarini, Boni, Janssens, Defilippis, Assirelli, Ciampi, Impanis, Uliana, Voorting, Moresi e Carlesi. Trascinati da Gastone Nencini, che vedeva la possibilità di rientrare prepotentemente in classifica dopo la disattenzione di Verona e la cronometro di Boscochiesanuova dominata da Gaul, e Nino Defilippis che aveva concrete possibilità di conquistare a Cattolica la Maglia Rosa, i battistrada guadagnarono presto terreno. A venticinque chilometri dall’arrivo, nei pressi di Sant’Arcangelo, il vantaggio dei venti era di 1’52”, sufficienti per consentire a Defilippis di vestire la “Rosa”. La foratura di Carlesi rientrato spossato per l’inseguimento e l’altalenarsi del vantaggio dei battistrada furono i tratti più salienti degli ultimi chilometri. Il drappello giunse così nella graziosa Cattolica (per chi scrive, ieri ed oggi la più bella località della Riviera romagnola) per lo sprint decisivo. Fu una volata senza storia alcuna, in quanto evidenziò la progressione fantastica del Campione del Belgio André Vlayen (che correva con la maglia della Cora), che tagliò il traguardo con quattro macchine su Colombo Cassano e Ugo Massocco. Lo sprint di tappa di questo eccellente fiammingo e il successo di Vannitsen nel circuito di Lugo, convinsero i dirigenti della Ghigi di Morciano, località ad una decina di chilometri da Cattolica, ad allargare ai belgi la composizione della squadra professionistica che stavano allestendo assieme a Fausto Coppi per il 1958. Una tappa comunque significativa anche oer gli italiani: amara per Defilippis che per 8” non conquistò il primato in classifica, ma positiva per Gastone Nencini che poté rientrare fra i primi nella generale, al punto di guadagnare un bottino che alla fine risulterà peculiare per la sua conquista del Giro d’Italia ’57. Un Giro veloce, la cui media finale fu superata solo nell’edizione 1983, ventisei anni dopo.

Ordine d'arrivo:

1° André Vlayen (Bel) km 190 in 4h32'11" alla media di 41,884 kmh
2° Colombo Cassano (Ita)
3° Ugo Massocco (Ita)
4° Gastone Nencini (Ita)
5° Gianni Ferlenghi (Ita)
6° Antonio Uliana (Ita)
7° Giuseppe Fallarini (Ita)
8° Lino Grassi (Ita)
9° Nino Defilippis (Ita)
10° Alfredo Sabbadin (Ita)

Il ritratto del vincitore di tappa:

André Vlayen
[Immagine: 1224524397Vlayen,%20Andre.JPG]
Nato il 17 marzo 1931 a Herselt, ed ivi deceduto il 20 febbraio 2017. Passista veloce. Professionista dal 1952 al 1962 con 34 vittorie. Questo fiammingo, molto conosciuto in Italia a cavallo degli anni '60, per aver militato in formazioni della penisola, è uno stereotipo di come si possa essere tangibili, anche senza un maestoso palmares. Uno che c'era e si sentiva, al punto di appartenere al novero dei possibili protagonisti di vertice, per ogni gara di un giorno. Veloce, ma non velocissimo, dotato di progressione e sufficiente scatto, ottimo nella scelta di tempo, sia per quanto riguarda l'attacco solitario e sia nella doverosa attenzione che prestava verso quei tentativi di fuga a mo' di gruppetto, che potevano raggiungere un positivo esito. Un corridore che ha messo a segno dei colpi in grado di lasciare un segno anche sugli albi d'oro di un certo prestigio. Su tutti, la doppietta nel '56 e '57, nel Campionato Nazionale su strada (che era, è e rimarrà ancora a lungo, come l’unica rassegna nazionale equiparabile ad una classica), anche i trionfi al Tour de l'Ovest e nel GP Liberation nel '54, nel Giro del Belgio '56, nell'Attraverso il Belgio e nel GP Ockers nel 1958.
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Un gran bel corridore insomma, simpatico e sinceramente appassionato verso il suo sport divenuto mestiere, nonché capace, come pochi, di smettere quando la parabola iniziava a scendere un po' troppo, senza inutili e dispendiosi prosiegui. Anche a carriera finita, ha continuato ad andare in bicicletta e a divertirsi a gareggiare fra i Master. Sempre dispensando sorrisi, da gran signore, quale era per tutti. Fino a quando, sulla soglia di 85 anni, un arresto cardiaco se l'è portato via, proprio mentre pedalava.

Il ritratto del vincitore del Giro d'Italia 1957, protagonista nella tappa di Cattolica

Gastone Nencini
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Nato a Bilancino di Barberino sul Mugello (Firenze) l'11 febbraio 1930, deceduto a Firenze l'1 febbraio 1980. Passista scalatore. Professionista dal 1954 al 1965 con 25 vittorie. Gastone Nencini merita un posto al sole nella storia ciclistica italiana, sia per il valore del suo palmares e sia per le sue qualità, alcune addirittura da eleggersi a personaggio in grado di far scendere in campo la letteratura. Un giorno, alla partenza di una tappa del Tour, Jacques Goddet, andò in cerca del CT Binda, affinché portasse a Nencini la sua ammirazione per averlo visto il giorno prima cadere e raggiungere il traguardo in condizioni da ospedale. "Di certo si sarà ritirato"- disse il patron ad Alfredo, ma costui non fece in tempo a rispondergli qualcosa che fra la ressa della partenza facendosi largo a spallate arrivò il protagonista. Certo, un uomo che sembrava un insieme di cerotti e pezze, che non poteva parlare per un labbro gonfio e l'ennesimo cerotto appiccicato. Brontolava, ma si capiva cosa voleva fare e Goddet, ammirato come non mai, lo vide partire. Non solo, ma nel tardo pomeriggio, constatò quanto il votato all'ospedale, fosse il primo a passare il traguardo. Potremmo dire che Gastone Nencini stia tutto in questo episodio. Un incredibile combattente dalla scorza di ferro. Un volto da medaglia greca, ed un corpo che dell'antica olimpia richiamava l'essenza. Un toscano nell'anagrafe e nella sostanza della tenacia, ma anomalo nel comportamento, perché di poche parole. Uno che amava la vita e che non se la privava per correre: c'era spazio per il Chianti e le sigarette. Sincero fino al midollo, rude nel tratti, ma con un cuore grande, sempre capace di soffrire in silenzio e rinascere dopo le tante mazzate che subì. 

[Immagine: 712px-Giro_1957_Nencini.jpg]
all'ospedale, fosse il primo a passare il traguardo. Potremmo dire che Gastone Nencini stia tutto in questo episodio. Un incredibile combattente dalla scorza di ferro. Un volto da medaglia greca, ed un corpo che dell'antica olimpia richiamava l'essenza. Un toscano nell'anagrafe e nella sostanza della tenacia, ma anomalo nel comportamento, perché di poche parole. Uno che amava la vita e che non se la privava per correre: c'era spazio per il Chianti e le sigarette. Sincero fino al midollo, rude nel tratti, ma con un cuore grande, sempre capace di soffrire in silenzio e rinascere dopo le tante mazzate che subì. 
Scelse il ciclismo, perché poteva essere un mestiere in grado di dargli quelle risorse che il calcio, il suo primo sport, annunciava come chimera. Già perché Gastone era il portiere del Barberino, ma sapeva che non c'erano quattrini all'orizzonte. Così, facendo i lavori più umili e di circostanza, mise da parte i soldi per comprarsi la bicicletta da corsa e vinse pure l'ostilità del padre che non voleva praticasse quello sport. Gastone vinceva e il papà si doveva per forza quietare. Da dilettante trentacinque successi, un posto in Nazionale ai Mondiali di Varese e di Lussemburgo, nel 1951 e nel 1952. Il suo miglior risultato nel 1953, alla Rassegna Iridata di Lugano, dove finì secondo, quando sarebbe arrivato primo se il compagno Filippi, non lo avesse inseguito e battuto nella volata a due. Terzo arrivò un certo Van Looy..... "Ed ora che fò?" - parve chiedersi Gastone. Lo consigliarono di passare professionista e passò nel 1954. Una stagione appena discreta, con un primo posto nel Gran Premio Porretta. Come l'anno si chiuse, Nencini non trovò lavoro. Nessuno si interessava al toscano di Barberino, poi grazie anche a Bartali che aveva capito quanto Gastone fosse bravo, arrivò l'ingaggio della Chlorodont, ma col patto che facesse il gregario. Nencini accettò: in fondo anche così avrebbe potuto rimediare la pagnotta. Giunse il Giro d'Italia e Gastone senza disturbare i compagni vinse la tappa di Roma, poi quella di Scanno e si trovò Maglia Rosa verso la fine della corsa. Il trionfo pareva a portata di mano. Alla penultima tappa, il Giro doveva transitare per una strada dannata, con ciottoli e ghiaia. Coppi e Magni, lo sapevano e con le attenzioni del caso andarono in fuga. Nencini li seguì, ma bucò e gli altri andarono  dritto in perfetto accordo con annessi, connessi e ombrello al fair play. Lui, il Gastone, dovette aspettare il cambio e si sciolse. Finì terzo, con tante lacrime, nonostante il suo carattere metallico.
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Ma il grande Giro svolto, fece capire a tutti che era un campione e la sua carriera cambiò. Già ai Mondiali di Frascati l'olimpo ciclistico lo annotò ancora: finì terzo. Nel 1956 vinse una tappa al Giro, la tappa di Parigi al Tour e la Tre Valli Varesine. Sempre più solido al ruolo di vedette, nel '57 s'aggiudicò il Giro della Calabria, poi, al Giro d'Italia, gli giunse una rivincita sulla sorte. Nel duello fra Bobet e Gaul, col lussemburghese netta maglia rosa, capitò quello che nessuno s'aspettava. Charly si fermò a far pipì e il gruppo con Bobet in testa iniziò a correre a più non posso. Nencini seguì il transalpino e Gaul tramontò proprio in quella tappa che si concludeva su quel Bondone che l'anno prima l'aveva eletto leggenda. Nencini vinse per pochi secondi (diciannove) il Giro, controllando Bobet, con l'aiuto dello stesso Charly. "Io non potevo più vincere, ma Nencini era ben più meritevole di Luison e fu per me una piccola consolazione la sua vittoria" - mi disse tanti anni dopo Gaul. Il toscano di Barberino andò poi al Tour, raccogliendo i successi di tappa nelle prestigiose Briancon e Pau, conquistando pure la classifica del Gran Premio della Montagna. Insomma un protagonista anche se finì sesto. 
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Nel 1958 finì quinto al Giro ma vinse le frazioni di Roma e di Trento. Quinto pure al Tour con la vittoria di tappa a Gap. L'anno successivo parve in declino, ma vinse una tappa del Giro d'Italia e una al Gran Premio Ciclomotoristico. Invece, quel 1960 che poteva sancire la sua china pendente, divenne il suo anno d'oro. Aprì la stagione con la vittoria nel Gran Premio di Nizza. Al Giro finì secondo per soli 28" di ritardo da Jacques Anquetil. Andò al Tour per rifarsi e recitò perfettamente il copione d'obiettivo. Già maglia gialle fin dalla prima tappa al secondo giorno, dopo averla persa, la riconquistò alla decima frazione e la tenne fino al traguardo finale. Il suo avversario più pericoloso, il francese Riviere, per seguirlo in discesa dove Nencini era un asso, finì in un burrone fratturandosi la spina dorsale. Dunque un Giro e un Tour ed una doppietta nello stesso anno mancata per soli 28". Dopo quei fasti, l'inesorabile declino, complici condizioni fisiche che ebbero giornate tristi. Gastone arrivò fino al 1965, rendendosi utile ai più giovani ed insegnando loro a non mollare mai. Poi, agli inizi del 1980, un male incurabile stroncò la sua fortissima tempra.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#11
Ribadiamo, un secondo, l'ovvio: come uomo da corse a tappe Nencini > Gimondi
 
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#12
1988 – 2a tappa del 71° Giro d’Italia

Urbino - Ascoli Piceno

Il 24 maggio 1988, il Giro d’Italia tornò dopo mezzo secolo ad Ascoli Piceno. Teatro una tappa con partenza da Urbino, di duecentotrenta chilometri ondulati e densa di possibili trabocchetti, eppure, alla fine, la tanta attesa si concluse con un volatone. Si segnalarono alla cronaca un tentativo di Flavio Giupponi a poco più di venti chilometri da Ascoli e, nel finale, uno più consistente, ma solo per durata, di Franco Chioccioli e Walter Brugna. Poi entrò in scena Massimo Ghirotto che pilotò al meglio lo sprint potentissimo di Guido Bontempi, confermatosi, anche nell’occasione, in linea con la fama di velocista tra i principi a livello mondiale. La grande speranza  francese Jean Francois Bernard, gran vincitore il giorno prima della crono di Urbino, si confermò in Maglia Rosa. 

Ordine d'arrivo:

1° Guido Bontempi (Ita) km 230 in 6h20'56" alla media di 36,249 kmh
2° Rolf Sorensen (Den)
3° Paolo Rosola (Ita) 
4° Alessio Di Basco (Ita)
5° Roberto Pagnin (Ita)
6° Johan Van der Velde (Ned)
7° Urs Freuler (Sui)
8° Fabrice Philippot (Fra)
9° Eric Vanderaerden (Bel)
10° Pierino Gavazzi (Ita)

Ritratto del vincitore di tappa:

Guido Bontempi
Nato a Gussago (Brescia) il 12 gennaio 1960. Passista veloce, alto 1,85 m per 84kg. Professionista dal 1981 al 1995 con 83 vittorie. 
Fisico non comune e formidabile passista, a cui accostava doti velocistiche che erano il frutto di progressioni incredibili per frequenze di pedalata e potenza. Cresciuto su pista, fu un mezzo fenomeno nelle categorie minori (ha ottenuto titoli sia fra gli allievi, che gli juniores in pista e il record mondiale del chilometro a Mosca, dove si piazzò 4° alle Olimpiadi dell'80), ha mantenuto le promesse anche su strada, in particolare fra i professionisti.
[Immagine: Guido-Bontempi.jpg]
Fra le sue vittorie, svettano alcune classiche prestigiose, come la Gand-Wevelgem ('84-'86) e la Parigi-Bruxelles ('86); nonché gare di peso internazionale, come il Giro del Friuli '(82-'87), il Giro del Piemonte (''83), il Giro di Reggio Calabria ('86), la Tre Valli Varesine ('86), la Coppa Placci ('86) e la Coppa Bernocchi ('87). A questi successi, vanno uniti piazzamenti di prestigio in numero elevato. Il suo non comune spunto di velocità, gli ha permesso di realizzare un sostanzioso bottino anche in termini di quantità. Notevole il suo raccolto di tappe nei Grandi Giri: in tutto sono state 25 le frazioni conquistate al Giro, Tour e Vuelta. In carriera ha vestito per un giorno anche la maglia rosa ('81) e la gialla ('88). Azzurro anche su pista, venne brutalmente mandato all'ospedale nella semifinale del mondiale di velocità '81, dallo scorretto (più che grande) giapponese Koichi Nakano. Bontempi seppe conquistare la medaglia d'argento nel keirin'81 e nella corsa a punti '83. 
Tutte le sue vittorie, ed i migliori piazzamenti fra i professionisti. 
Successi: 1981: 1a Tappa del Giro d'Italia; 1a e 3a Tappa della Vuelta di Spagna; Campionato italiano del keirin; 1a Tappa della Ruota d'oro. Piazzamenti importanti: 2° nel Campionato Mondiale del Keirin. 1982: 15a Tappa Giro d'Italia; Giro del Friuli; 1a Tappa del Giro di Puglia; Circuito di Trapani. 1983: 2a e 8a Tappa del Giro d'Italia; Giro del Piemonte; 1a e 5a Tappa della Vuelta dei Paesi Baschi; 1a Tappa Tirreno - Adriatico; 1a Tappa Giro di Sardegna; 1a Tappa del Giro di Puglia; 1a Tappa della Ruota d'oro; Campionato italiano corsa a punti; Circuito di Napoli. Piazzamenti importanti: 2° nella Milano Sanremo; 2° nel Campionato Mondiale della corsa a punti. 1984: Gand-Wevelgem; 21a Tappa Giro d'Italia; Prologo Tirreno-Adriatico; 3a Tappa del Giro di Puglia; 1a Tappa della Ruota d'oro.
Piazzamenti importanti: 2° nella Milano Torino. 1985: 2a Tappa del Giro del Trentino; 5a Tappa del Giro di Danimarca; 2a e 4a Tappa Ruota d'oro. 1986: Parigi Bruxelles; Gand Wevelgem; 6a, 22a e 23a Tappa del Tour de France; 7a, 10a, 11a, 17a e 20a Tappa del Giro d'Italia; Classifica a Punti Giro d'Italia; Coppa Placci; Giro Provincia di Reggio Calabria; Tre Valli Varesine; Gouden Pijl Emmen, Challange San Silvestro d'Oro. 1987: 2a Tappa (cronosquadre) del Tour de France; 12a Tappa del Giro d'Italia; Coppa Bernocchi; Giro del Friuli; Giro di Puglia; 1a e 2a Tappa Giro di Puglia; 1a Tappa della Settimana Siciliana; Criterium di San Donà di Piave, Linne e Sint-Truiden.
Piazzamenti importanti: 3° nella Milano Sanremo. 1988: GP E3 Harelbeke; Prologo del Tour de France; 2a e 5a Tappa del Giro d'Italia; Coppa Bernocchi; Giro del Friuli; 1a e 5a Tappa della Settimana Siciliana; Circuito di Bologna. 1990: 19a Tappa Tour de France; 1a e 2a Tappa Vuelta Communidad Valenciana; Classifica a punti Vuelta Communidad Valenciana; Giro di Puglia; 1a Tappa del Giro di Puglia. 1991: 10a e 15a Tappa della Vuelta di Spagna; Tre Valli Varesine; 2a Tappa del Giro di Lussemburgo. 1992: 5a Tappa del Tour de France; 7a e 9a Tappa del Giro d'Italia; Criterium di Bavikhove e di Berlino (b). Piazzamenti importanti: 4° nel Campionato di Zurigo. 1993: 6a Tappa del Giro d'Italia; 3a Tappa Vuelta Communidad Valenciana; 1a tappa del Giro del Trentino. 1995: 3a Tappa (cronosquadre) del Tour de France.

Ritratto della Maglia Rosa:

Jean Francois Bernard
Nato il 2 maggio 1962 a Luzy in Borgogna. Completo. Alto 1,78 m per 63kg. Professionista dal 1à settembre 1984 al 1996 con 55 vittorie. 
[Immagine: 35c1442c7a8d899adff512bb3400afb8.jpg]
In pochi lo ricordano ma questo era un gran corridore, uno che avrebbe potuto vincere in GT e che, purtroppo, univa alla classe abbondante, anche una altrettanto abbondante sfortuna. 
Un corridore dalla pedalata armoniosa, fortissimo sul passo, ed eccellente in salita, niente a che vedere con tanti francesi dell'ultima generazione, strombazzati di qua e di la, solo sull'onda della speranza, vista la carestia di degni che la Francia vive nell'ambito delle grandi corse a tappe. Per essere  
Jean Francois Bernard dopo una buona carriera giovanile passò professionista alla Blois-Chaville ’84 all’interno della Vie Claire, voluto espressamente dal capitanassimo di quel sodalizio, Bernard Hinault. Soprannominato “Jeff”, visse l’apprendistato ben sapendo di non poter mettersi in ostacolo alcuno, non solo verso Hinault, ma pure a quel Greg Lemond, appena arrivato dalla Renault e che, di lui, era solo di un anno più anziano. Serio e con grandi doti immediatamente evidenziate anche fra i prof, Bernard piacque subito al nocchiero de la Vie Claire, lo svizzero Paul Koechli che lo schierò al Tour de Suisse ‘85, deve “Jeff” vinse in solitudine la frazione di Solothurn. Nell’anno colse pure la vittoria in una tappa del Tour de Limousin. Nel 1986 il talento di Bernard emerse copioso grazie a 12 vittorie di ottimo livello e la consapevolezza di poter ambire a qualsivoglia traguardo. Vinse il Tour Mediterranee vincendo la cronoscalata del Mont Faron, due tappe del Giro di Romandia (il prologo di Lugano e la crono di Neuchatel), due al Delfinato (ancora il prologo di Annecy e la crono finale di Nyons), la tappa di Gap al Tour de France, dove fu fondamentale nell'appoggio a Hinault e Lemond e chiuse la stagione con una bella vittoria nella Coppa Sabatini a Peccioli. L’anno seguente col ritiro di Hinault e l’assenza di Lemond a causa di un incidente di caccia, doveva essere la stagione dell’esplosione di “Jeff” al Tour, perlomeno era questo l’intentio eel corrdore e di Koechli. Bernard vinse in primavera il GP Rennes e la tappa del Mont Faron alla Parigi Nizza (chiuse 2° nella generale finale dietro Kelly). Venne al Giro d’Italia, la terra che amava di più dopo la Francia e nella “Corsa Rosa” fra alti e bassi potremmo dire di preparazione per l’obiettivo Tour, vinse la tappa in salita di Madesimo. Ed alla Grande Boucle sembrò essere il  padrone, quando fece sua la cronoscalata del Mont Ventoux rifilando 1'39'' ad Herrera e vestendo la Maglia Gialla con 2'34'' su Roche. Il giorno dopo però verso Villard de Lans, pagò lo sforzo fatto sul “Monte Calvo”, non mostrando la brillantezza necessaria e quando apparve in difficoltà forò e fu attaccato da tutti gli avversari. Chiuse la tappa con più di 4 minuti di ritardo e perse ovviamente la Gialla. Ritornò comunque sugli scudi vincendo alla grande la cronometro di Digione e salendo sul podio di Parigi con la consolazione della maglia della Combinata. A fine stagione tornò in Italia e vinse in maniera regale il Giro dell’Emilia. 
[Immagine: Jeff--673x556.jpg]
Su Giro e Tour impostò il 1988. Al Giro partì alla grande, vincendo il prologo di Urbino e tenendo la Maglia Rosa fino alla frazione di Rodi Garganico. Indi sempre papabile per la vittoria finale andò a vincere in solitudine la tappe di Chianciano e quella in salita a Merano 2000. In mezzo però, il suo Giro fu compromesso dalla famosa tappa della bufera del Gavia dove rimediò nella discesa un ritardo importante, nonostante la grappa che si fece mettere nella borraccia dai alcuni tifosi. All’arrivo furono comunque cinque minuti…. di gelo. Ma la Corsa Rosa di “Jeff” proprio quando sperava di recuperare nella cronometro del Colle del Vetriolo, su concluse sul tunnel all’Isarco, quando s’arrotò col colombiano Hernandez, dove rimediò una fortissimo botta alle costole. Si rialzò concluse la tappa, ma faticando a camminare fu costretto al ritiro. E sempre una caduta lo costringerà al ritiro anche dal Tour De France dove stavolta fu il ginocchio destro ad uscire malconcio al punto di compromettere un prosieguo di carriera nel pieno delle sue qualità. L'89 causa quei postumi fu praticamente nullo, il ginocchio lo fermò e fu operato. Nel 1990 la difficile ripresa di “Jeff” trovò i sorrisi di una bella vittoria nella crono del Col d'Eze alla Parigi Nizza e sempre a cronometro alla Vuelta di Spagna a Valdezcarey. Convinto che ormai le speranze di vincere un GT fossero tramontate , accettò nel 1991 di passare alla Banesto come spalla di Delgado e dell'emergente Indurain. Venne nuovamente nell’amata Italia per correre il Giro dove finì 2° dietro Bugno nella cronometro di Langhirano, ma non fu mai in lotta per classifica. Al Tour, invece, fu il gregario numero uno del vincente Miguel Indurain. Rimase alla Banesto fino al 1994 vincendo nel 1992 la Parigi Nizza (con la tappa del Mont Faron) ed il Criterium International. Nel 1995 andò alla Chazal e chiuse nel 1996 con la Agrigel. Un gran corridore, un peccato, perché senza quei problemi al ginocchio così disastrosi, avrebbe sicuramente potuto vincere un GT.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#13
Le cadute nel ciclismo e nelle grandi corse a tappe in particolare, meriterebbero un capitolo di approfondimento, sul quale coinvolgere quei dirigenti ciclistici così solerti su altri argomenti a sviluppare normative spesso eufemisticamente contestabili, o un po’…così.

Le cadute, purtroppo, ci saranno sempre, anche con quegli interventi illuminati che i dirigenti ciclistici mostrano quasi sempre di non possedere, ma è pur vero che molte potrebbero essere evitate, ed è in questa direzione che si dovrebbe andare.
Le cadute in volata sono le più difficili da rendere rare, tanto più oggi, che non si pensano possibili gli sprint senza treni. 
La bella Termoli (da visitare!) al Giro d’Italia dell’ormai lontano 1987, quando già le volate erano entrate nel regime dei treni,  fu teatro d’arrivo di una tappa che registrò la caduta più consistente, per il numero dei coinvolti, della storia della Corsa Rosa: ben 52 corridori.


1987 – 10a tappa del 70° Giro d’Italia

Bari - Termoli

La cronaca della tappa di una penna famosa: quella di Gian Paolo Ormezzano 

Nel giorno deputato al nulla per poco non è accaduto tutto. Tutto il brutto, vogliamo dire. La caduta ai 55 orari che ha tolto dal Giro d'Italia almeno due corridori, a un 400 metri dal traguardo, poteva distruggere chiunque, dalla maglia rosa in giù: parliamo di autentica distruzione fisica, dal momento che i rotoloni nell'ultimo chilometro non costano danni di tempo in classifica, e che se uno è portato all'ospedale viene anche esentato dal tagliare il traguardo. Un corridore come Saronni è finito nel mucchio quando già si era tolto dalla volata: dall'asfalto è passato all'ospedale, il suo Giro potrebbe essere è finito così. Mentre Rosola, gratificato dalla sparizione di molti forsennati al suo fianco, approfittava bene, con vera classe atletica, di un finale in leggera salita, saltava Freuler e andava a cogliere il suo secondo successo In una corsa dove il gran mattoide della Gewiss Bianchi ha pure totalizzato sinora due secondi posti, mentre Roche e Visentini passavano il traguardo insieme come tempo di giornata — l'irlandese però ben dopo, perché caduto anche lui — e sempre divisi da 32" in classifica, dietro, appena dietro, si raccoglievano corpi, si districavano mucchi di carne e ferro, uomini e biciclette. E si pagava l'ennesimo tributo di paura, di sangue, di dolore. Una caduta sull'asfalto ancora bagnato di fresca pioggia, uno scarto di Bontempi della Carrera chiuso da Hermans, olandese della squadra spagnola Caja Rural: l'italiano stava per lanciarsi, anzi rilanciarsi nello sprint, dopo un lungo treno, di almeno cinque chilometri, condotto da altri, quelli della Del Tongo per Saronni, poi quelli dell'Atala per Freuler. Bontempi toccava Calcaterra dell'Atala, ed Hermans finiva col finirgli addosso, stavolta con contatto. I tre si toccavano, si avvitavano, cadevano, facevano cadere. Bontempi, contuso, ha subito dato la colpa di tutto all'olandese: "Mi è quasi venuto addosso due volte, chiudendomi, ho dovuto sbandare, arrotarmi con Calcaterra". Subito si è fatto un mucchio. Questo non ci sembra un Giro di pirati, ma di incauti sì. Un mucchio principale si è poi frantumato — si tenga conto della velocità — in due, tre parti. E corridori arrivavano su corridori. Saronni è piombato su una bicicletta che prillava, facendo perno su un pedale: è volato spettacolarmente, è caduto su un fianco. Anche Roche è ruzzolato. "Male al sedere e basta, mi è andata bene"- ha detto in italiano. Sono andati giù in una cinquantina, chi ruvidamente chi morbidamente. All'ospedale San Timoteo di Termoli, vicinissimo al traguardo, sono finiti in sei: Mathieu Hermans con la clavicola sinistra rotta, Primoz Cerin, jugoslavo della Paini, con trauma cranico e ferita lacero-contusa alla regione occipitale mediana, Enrico Pochini della Fibok Sidermec e Marco Franceschini, stessa squadra, rispettivamente con una ferita al ginocchio destro e ferite varie alle gambe, Giuseppe Saronni della Del Tongo con forte contusione alla regione lombare e sacrale destra, Ezio Moroni dell'Atala con grossa ferita lacero-contusa (20 punti) alla gamba destra. Giro finito per Hermans, ingessato e dimesso, per Cerin trattenuto per precauzione, all'80 su 100 per Moroni la cui ferita è profonda. Qualche paura per Pochini, decisione stamane, mentre Franceschini dovrebbe ripartire. E Saronni? «Credo che la bici su cui sono finito fosse quella di Bontempi. Non ho mai perso lucidità. Ho già passato momenti come questo, potrei anche farcela a risalire in sella, dopo una notte che spero tranquilla".  In sala stampa hanno distribuito la classifica generale senza di lui e gli altri tre — Hermans, Cerin e Moroni — che non hanno passato il traguardo, un errore irriguardoso. Saronni è 23°, a 4'41 da Roche, ieri ha cercato abbastanza a lungo il successo di tappa. Gli auguri che facciamo a lui e agli altri sono caldi, conosciamo cosa rischiano, cosa soffrono. La caduta ha traumatizzato il Giro, ha fatto gridare di terrore tanta gente, a Termoli e — pensiamo — davanti al teleschermi. Hermans, se davvero è colpevole (difficile criminalizzare chi per la pagnotta deve andare come un matto, speculando sui centimetri, sulla strada bagnata), paga con l'osso rotto. La giornata era cominciata con un Argentin allegro andato in fuga al via, vantaggio di 50", sol per giocare a nascondino, celarsi dietro un bidone, farsi superare, accodarsi e creare il panico: ma lo hanno scoperto. E' finita con gente tesa, pallida, imprecante, sirene di ambulanze, urla nei corridoi di un piccolo ospedale fatto piccolissimo dalla ressa un po' professionale, un po' morbosa.

Ordine d'arrivo:
1° Paolo Rosola (Ita) km 210 in 5h37'08" alla media du 37,374 kmh
2° Urs Freuler (Sui)
3°  LucianoBoffo (Ita)
4° Pierino Gavazzi (Ita)
5° Johan Capiot (Bel)
6° Palmiro Masciarelli (Ita)       
7° Johan Van der Velde (Ned)
8° Dietrich Thurau (Ger)
9° Milan Jurco (Tch)
10° Alessio Di Basco (Ita) 

[Immagine: Paolo-Rosola.jpg]

Sul vincitore di tappa:


Paolo Rosola
Nato a Gussago (Brescia) il 05.02.1957. Velocista, alto m. 1,80 per kg. 80. Professionista dal 1978 al 1990, ha ottenuto 28 vittorie.
Un corridore che s'è determinato tardi, rispetto al ciclismo nel suo complesso e agli stessi terreni a lui più idonei. Già da dilettante, dove comunque si era fatto apprezzare, anche perché, allora, per passare nell'elite di questo sport, era necessario aver fatto punti superando una concorrenza che oggi, senza se e senza ma, non c'è. Giunto fra i professionisti, ha poi fatto il gregario per le sue doti sul passo, alternando pure esperienze sul ciclocross e su pista dietro motori, prima di dedicarsi completante alla strada e a a diventare, tre anni dopo il debutto, un vincente e, per tanti aspetti, un signor corridore. 
Ruppe il ghiaccio, quando sembrava destinato a diventare camionista, nella tappa del Giro d'Italia 1981, che si concludeva a Ferrara nel Giro d'Italia dell'81. Un altro anno di pausa e poi l'esplosione nel 1983, dove vinse ben tre tappe al Giro (Fano, Orta e Vicenza). L'anno seguente, s'aggiudicò la Milano-Torino, superando con uno sprint regale, l'amico nonché compaesano Guidone Bontempi e il sempre grande Roger De Vlaeminck. Quasi tre mesi dopo, il suo sprint potente, lungo e capace pure di esprimere guizzi di gran nota, tornò a ruggire, cogliendo, a Città di Castello, il quinto successo di tappa al Giro d'Italia. Divenuto "Cavallo Pazzo" per condotta e quei tratti tanto somiglianti ai pellerossa, conquistò nel 1985 altre due frazioni della "Corsa Rosa", a Crotone e Domodossola. L'anno seguente subì un appannamento, o meglio si incentivarono quelle amnesie nella concentrazione che ne hanno limitato il palmares. In stagione comunque, andò a segno in una tappa del Tour de Suisse e una della Settimana Siciliana. Proprio con un'altra frazione della corsa sicula, aprì, nel 1987, il suo migliore anno, cogliendo undici centri: oltre alla tappa di Ribera in Sicilia, tre frazioni del Giro d'Italia (San Giorgio del Sannio, Termoli e Como), la tappa di Valencia alla Vuelta di Spagna, quattro frazioni della Coors Classic negli Stati Uniti ed un paio di circuiti. Continuò il suo percorso vincente l'anno successivo, con altri due successi di tappa al Giro (Salsomaggiore e Lido di Jesolo), portando così a 12 successi il suo ruolino complessivo nella principale corsa a tappe italiana. Nel 1989 e '90, andò ancora a segno. Il suo "canto del cigno" a Gippingen, nell'impegnativo GP d'Argovia '90. 
[Immagine: rosola.jpg]
Insomma, un corridore più completo di quel che è divenuto costume pensare. Paradossalmente, ha vinto molto meno di quanto poteva esserci nei suoi mezzi. Nel dopo ciclismo, ha lavorato e lavora tutt'oggi per lanciare giovani, distinguendosi particolarmente nel fuori strada, dove è stato mentore della sua compagna, Paola Pezzo.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#14
Oltre che per le storie, in particolare quella di oggi, ringrazio per il termine "prillare" che non conoscevo
 
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#15
1962 – 8a tappa del 45° Giro d’Italia

Avellino – Foggia

Nel ciclismo odierno siamo abituati a vedere le squadre dominare la scena, con treni per la volata finale e altrettanti per proteggere il leader in salita, senza poi contare quando a scendere in campo è quel non senso per i GT, rappresentato dalla cronosquadre. Alla fine il marchio d’un team non si può certo dire che non appaia, anzi, il potere di una squadra nel contesto di una corsa, è così grande da rendere assai più sfumato, o meno percettibile, il valore del singolo capitano chiamato a vincere.  Anche un tempo le super squadre c’erano, ma lavoravano diversamente rispetto “alla compattezza in fila indiana” di oggi. Allora, lo squadrone con un capitano decisamente più ingombrante per spessore rispetto alla media degli odierni, si muoveva giocando le proprie pedine con la presenza di uno o due singoli nei tentativi di fuga; con l’acuto della spalla per il capitano, o con attacchi senza soluzione di taluni altri coequipier, per rendere corsa dura. In altre parole, si cercava di fare un gioco di squadra basato sull’intraprendenza, piuttosto che le trenate di team, come avviene oggi, le quali, alla lunga, azzerando o quasi i tentativi d’attacco, si rendono sovente siamesi alla rottura dei testicoli di chi guarda la corsa in TV. 
Bene, fra le tante occasioni in cui il Giro ha fatto tappa a Foggia, chi scrive ha scelto questa, proprio perché fu uno stereotipo di come un tempo gli squadroni ed un grande capitano si muovevano. Protagonista la Faema-Flandria di Rik Van Looy. Il “Sire di Herentals” con la maglia arcobaleno addosso e con in Maglia Rosa il compagno Armand Desmet, dispose all’attacco spalle, gregari e se stesso, sfiancando gli avversari in una lenta morsa anche psicologica. Fatto sta, che nella decina di tentativi fra pianura, salita e discesa, almeno uno dei protagonisti indossava la maglia biancorossa, addirittura in un paio di casi col Sire in iride a fare da iniziatore. Poi, a 19 chilometri dall’arrivo, a partire fu Huub Zilverberg, un olandese verso il quale Rik stravedeva, che si portò a ruota un italiano grande fra i dilettanti con tanto di iride, quanto comprimario fra i professionisti: Sante Ranucci. Costui rifiutò i primi cambi chiesti da Huub e l’olandese non fece una piega: continuò a mulinare le gambe fino al rettilineo d’arrivo di Foggia. E non si scompose nemmeno nella volata finale; gli bastò una leggera progressione per lasciare a tre macchine, l’alfiere di Montefiascone di Viterbo. 

Ordine d'arrivo:

1° Huub Zilverberg (Ned) Km 110 in 2h49'17"alla media di 38,988 kmh
2° Sante Ranucci (Ita)
3° Rino Benedetti (Ita) a 19"
4° Giorgio Zancanaro (Ita)
5° Rik Van Looy (Bel) a 36"
6° Vito Favero (Ita)
7° Gastone Nencini (Ita)
8° Emile Daems (Bel)
9° Mario Minieri (Ita)
10° Armando Pellegrini (Ita)

Il ritratto del vincitore di tappa:

Hubertus Zilverberg
[Immagine: rSQKLV2Z9BBbYmgfc0shRBfzb9sQpUa2aIj1yvNj...bBoIVarueo]
Nato a Goirle, il 15 gennaio 1939. Professionista dal 1961 al '69, con 11 vittorie. Grandissimo dilettante, era assai atteso fra i prof. Le premesse, nella categoria cuscinetto degli indipendenti, furono confermate: il passistone vinse infatti il Giro delle Fiandre '61, riservato appunto, ai corridori non ancora completamente professionisti. Tutto questo spinse la Lokomotief, la squadra dove Huub militava, a farlo esordire in una corsa a tappe di pregio come la Vuelta, ed il ragazzo se la cavò più che discretamente, giungendo secondo nella non facile tappa di Benidorm. Tornato in Olanda, vinse il GP Rijen. La Flandria Faema, fortissima equipe belga, nel 1962, lo ingaggiò col chiaro intento di proiettarlo ai vertici. La stagione di Zilverberg fu ottima: vinse due tappe al Tour de France, il GP Parisien, il GP d'Europa (cronosquadre), nonché i criterium di Schiedam e Leuze. Van Looy lo volle con sé in G.B.C. nel 1963 e per Huub si aprirono le porte che lo caratterizzeranno per il resto di carriera: fungere da spalla. Col "Sire di Herentals", Zilverberg rivinse il GP Rijen, ma per il resto solo piazzamenti e tanto lavoro. Provò così a staccarsi dal belga, e nel '64 ritornò alla Flandria, vincendo una tappa della Parigi Nizza a cui aggiunse tre significativi secondi posti: nei Giri di Sardegna, di Romandia e nel campionato nazionale di inseguimento. Dopo uno sfortunato '65, dove rimase fermo per un infortunio, nel '66 e '67 corse per la forte Televizier, vincendo il GP Hulst, ed una tappa del Dauphine Liberé. Chiusa la Televizier, tornò con Van Looy, di cui fu spalla nel '68 e '69 all'interno della Willem II-Gazelle, ma all'alba degli anni '70 chiuse col ciclismo.


…….A Guardia Sanframondi, comune di poco più di cinquemila anime in provincia di Benevento, il Giro d’Italia maschile arriva oggi per la prima volta, ma nel 2003, a rompere il ghiaccio fra la località e il grande ciclismo, ci pensò, con stile ed efficacia, il Giro d’Italia Femminile, al punto che a vincere la tappa fu un’atleta di assoluto vertice mondiale…..  


2003 – 1a tappa del Giro d’Italia Donne

Grumo Nevano – Guardia Sanframondi

La prima tappa del Giro d’Italia Donne che ha preso il via da Grumo Nevano di Napoli, per giungere dopo 119 chilometri a Guardia Sanframondi di Benevento, ha trovato il conforto di un pubblico d’altri tempi. Potremmo dire molto vicino alle grandi manifestazioni maschili del periodo aureo, dalla Roma-Napoli-Roma, al Giro di Campania, alle tappe di zona della “Corsa Rosa”. Ha vinto l’ex iridata Rasa Polikieviciute, in forza al Team 2002 Aurora di San Marino e seconda  per  completare il grande successo di famiglia e di squadra, s’è classificata la gemella Jolanta. Rasa s’è involata a dieci chilometri dall’arrivo sulla salita che da Castelvenere conduce a Guardia Sanframondi, già  percorsa una prima volta quando mancavano 22 km al traguardo. L’iridata di Lisbona 2001, ha guadagnato fino a 1’15”, quando al suo inseguimento si sono poste la connazionale Edita Pucinskaite, la svizzera Nicole Brandli e la gemella Jolanta nel ruolo di “stopper”. Al traguardo, pieno zeppo di pubblico festoso, è giunta con 47”. Il dominio di casa Pucinskaite non s’è fermato alla vittoria di tappa con Rasa, ma è proseguito con lo sprint per il posto d’onore di Iolanta, la quale, essendo passata in testa al primo GPM, è divenuta leader della speciale classifica delle scalatrici. Insomma, tante soddisfazioni per il diesse dell’Aurora RSM, l’ex professionista Stefano della Santa.    

Ordine d’arrivo:

1. Rasa Polikieviciute (Lit) km 119 in 3h07'01" alla media di 38,180 kmh
2. Jolanta Polikieviciute (Lit) a 47"
3. Edita Pucinskaie (Lit) 
4. Nicole Brändli (Sui) a 49"
5. Joane Somarriba Arrola (Esp) a 53"
6. Oenone Wood (Aus) a 1'03"
7. Zinaida Stahurskaia (Blr) 
8. Modesta Vzesniauskaite (Lit) a 1'05"
9. Olivia Gollan (Aus) a 1'09"
10. Eneritz Iturriaga Etxebarria (Esp) a 1'16"
[Immagine: M_le-sorelle-polikeviciute-fanno-saltare-il-banco-.jpg]

Sulla vincitrice:
Rasa Polikieviciutė 
[Immagine: RASA+POLIKEVICIUTE.JPG]
Nata il 25 settembre 1970 a Panevezys. Completa, alta 1,64 per 54kg. Professionista dal 1990 al 2008, con 47 vittorie. 
Rasa e la gemella Jolanta, stanno a tutti gli effetti tra le prime 10-15 cicliste mondiali nei tre lustri che vanno dal 1990 al 2005. Rasa ha colto traguardi più prestigiosi, per una più brillante condotta tattica ed una maggior efficacia sul passo, ma sulle salite lunghe, era leggermente inferiore alla gemella. Entrambe hanno iniziato a pedalare all'età di 13 anni, sotto l'influenza del loro allenatore atletico d'infanzia e hanno poi debuttato nel ciclismo internazionale nel 1990. Fra le oltre quaranta vittorie di Rasa, spiccano il Gracia Tour nel 1993, il Masters Féminin ’96, l’Hewlett Packard  Women's Challenge negli Stati Uniti (corsa a tappe di 11 giorni), il Tour de Suisse 1999, il Campionato Mondiale di Lisbona nel 2001, nonché una dozzina di tappe dei più grandi GT femminili. Insomma, una big a tutti gli effetti. Oltre al lituano, Rasa parla correttamente il russo, il francese, l’italiano. Meno bene l’Inglese e il tedesco.
Le vittorie di Rasa Polikieviciute:
1993 - 1ª tappa Berlin-Rundfahrt, 2ª tappa Berlin-Rundfahrt, Classifica generale Berlin-Rundfahrt, 2ª tappa Grand Prix Prešov a Pravda (cronometro), 4ª tappa Gracia Tour, Classifica generale Gracia Tour, 2ª tappa Tour de l'Aude.
1994 - 4ª tappa Grosser Preis des Kanton Zürich, Classifica generale Grosser Preis des Kanton Zürich, 13ª tappa Tour Cycliste, 14ª tappa Tour Cycliste, 1ª tappa Masters Féminin.
1995 - Campionati lituani Prova in linea, Campionati lituani a cronometro, 1ª tappa Étoile Vosgienne, 12ª tappa Tour de l'Aude, 3ª tappa Vuelta a Mallorca.
1996 - Classifica generale Masters Féminin.
1997 - 3ª tappa Grand Prix de la Mutualité de la Haute-Garonne, 1ª tappa Tour du Finistère, 2ª tappa Women's Challenge, Classifica generale Women's Challenge, 5ª tappa GP Krásná Lípa, 1ª tappa Trophée d'Or.
1998 - 3ª tappa Vuelta a Mallorca, 5ª tappa Tour of Britain, 6ª tappa Tour Cycliste, 2ª tappa Trophée d'Or, 1ª tappa Tour de Suisse, 4ª tappa Tour de Suisse, Classifica generale Tour de Suisse.
1999 - 4ª tappa GP Krásná Lípa, 2ª tappa Tour de Suisse.
2000 - 11ª tappa Grande Boucle, 1ª tappa Tour de Suisse.
2001 - Campionati del mondo in linea.
2002 - 12ª tappa Grande Boucle.
2003 - 1ª tappa Giro del Trentino, 1ª tappa Giro Donne, 6ª tappa Grande Boucle.
2008 - 6ª tappa Grande Boucle.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#16
1966 – 7a tappa del 49° Giro d’Italia

Roma – Rocca di Cambio

Il rapporto fra Giro d’Italia e Rocca di Cambio, minuscolo comune dell’aquilano, iniziò nel 1965 e vide il successo di Luciano Galbo, un padovano trapiantato in Piemonte, dove trovò lavoro e costruì i presupposti ideali per una buona carriera ciclistica, grazie a Vincenzo Giacotto, che lo portò alla Carpano prima e alla Sanson, poi. Con quest’ultima maglia, conquistò la tappa di Rocca di Cambio, aggiungendovi anche quella Rosa che è sempre un bel premio, anche se indossata per un sol giorno, come nel caso di Galbo (la perse il giorno dopo a Benevento per pochissimi secondi, a vantaggio di Albano Negro). Gli anni sessanta erano gli anni dell’inimitabile processo alla tappa di Sergio Zavoli, trasmissione nella quale impazzava Vito Taccone, un ottimo corridore che il genio di Zavoli seppe trasformare in personaggio popolare come pochi. Sta di fatto, che il “Tignoso” Vito, era abruzzese, aquilano di Avezzano, e l’altrettanto inimitabile patron Torriani (altro grandissimo che poi rovinò la sua reputazione e genialità ricercando oltremisura Giri per Moser e Saronni), capì che alla perfetta morfologia del territorio abruzzese per una corsa a tappe, si poteva e doveva aggiungere anche la popolarità di questo corridore che, vincente o meno, garantiva interessi mediatici, tanto nuovi, quanto importanti per l’economia del Giro d’Italia. Così, il traguardo in salita di Rocca di Cambio, al 1965, aggiunse anche il 1966, con una fama nuova, sia tecnica, che di attesa.
[Immagine: image.jpg]
E l’edizione del 24 maggio 1966, la Roma – Rocca di Cambio, sciopero dei giornalisti a parte, non deluse, anche se la smania di Taccone di farsi vedere vincente, gli giocò lo scherzetto di una per lui non felice giornata. I big s’attaccarono, salvo il favorito di tappa in Rosa, ovvero il forte scalatore spagnolo Julio Jimenez. Costui, compagno di squadra del grande Jacques Anquetil, pensò bene che avendo la Maglia Rosa addosso, non sarebbe stato un bel gesto attaccare, mettendo a rischio la non ancora perfetta forma del capitano, nonché favorito per la vittoria finale del Giro. Le scaramucce fra i grandi però, iniziarono quando la fuga di un gruppetto con all’interno forti corridori s’erano avvantaggiati al punto di potersi garantire il successo di tappa. Fra questi lo straordinario tedesco Rudi Altig, già vincitore della Vuelta di Spagna nel ’62, un corridore completo che il giorno prima sul traguardo di Roma aveva dato filo da torcere, ad un imperiale velocista come Raffaele Marcoli (poi tragicamente scomparso tre mesi dopo), ed il giovane trevigiano Silvano Schiavon, un buon regolarista della Legnano, tanto caro all’Avvocatt Ederardo Pavesi, davvero molto forte in salita. I due proseguirono insieme, amministrando al meglio il vantaggio: l’ultimo a cedere fu Giampaolo Cucchietti, un bravo ciclista piemontese di Dronero, nella Val Maira, paese caro al grande statista Giovanni Giolitti. 
Negli ultimi trecento metri, Altig, alfiere della Molteni Altig, staccò Schiavon e colse la sua nona vittoria stagionale. A poco più di un minuto, il compagno di squadra Gianni Motta, apparso come l’italiano più pimpante, completò il successo della Molteni. Julio Jimenez conservò la Maglia Rosa. 
  
Ordine d'arrivo:
1° Rudi Altig (Ger) km 158 in 4h50'46" alla media di 32,603 kmh
2° Silvano Schiavon (Ita) a 3"
3° Gianni Motta (Ita) a 1'11"
4° Michele Dancelli (Ita) a 1'13"
5° Felice Gimondi (Ita)
6° Italo Zilioli (Ita)
7° Jacques Anquetil (Fra)
8° Julio Jimenez (Esp)
9° Dino Zandegu (Ita)
10° Vittorio Adorni (Ita)

Il ritratto del vincitore di tappa:


Rudi Altig
Nato a Mannheim il 18 marzo 1937, deceduto a Remagen l'11 giugno 2016. Completo, alto 1,80m per 80kg. Professionista dal 1960 al 1971 con 131 vittorie fra strada e pista.
[Immagine: 887b099a21cca05d79b63f73419412a5.jpg]
Un corridore signorile, di eccezionali qualità, che ha saputo segnare la sua epoca, nonostante la convivenza con tanti super corridori. Un atleta a cui non è mai mancata una buona dose di generosità, sia verso i compagni e sia verso il pubblico. Gladiatorio in talune circostanze e con una classe sempre pronta a togliere dal cilindro qualche acuto. A sette lustri dal suo ritiro, i suoi echi sono ancora presenti, ed a mio personale giudizio è forse il tedesco più sottovalutato fra i connazionali che finiscono sui taccuini, o di cui si deve parlare nell'opera di divulgazione. Rudi ha saputo riempire il suo palmares con una serie prestigiosa di affermazioni, sui più disparati terreni, mostrando un eclettismo che pochi possono vantare. Fece sensazione quando, nel '59, non ancora ventiduenne partecipò e vinse (battendo in finale l'italiano Valotto), il campionato mondiale nell'inseguimento dilettanti. Nell'occasione, mostrò una maturità ed una conoscenza degli esercizi atti a recuperare energie, rara anche nei più navigati. Era il segno di una volontà di capire, comprendere e sperimentare, con una base di professionalità davvero stucchevole in un ragazzo così giovane. Con questi presupposti, uniti ad una forza, soprattutto nei muscoli lombari, degna di un lottatore, non stupì più di tanto nel divenire, da subito, un professionista di rango e d'evidenza. Ed infatti, fra strada e pista (l'amore che non scordò mai), vinse alla prima stagione da prof (passò con la francese St Raphael di Geminiani) la bellezza di undici corse, fra le quali il campionato mondiale dell'inseguimento dove superò lo svizzero Trepp e il nostro Baldini. Fra le sue vittorie su strada, a dimostrazione della considerazione dell'osservatorio, vinse in coppia col grande Roger Riviere, il GP d'Alger, la versione francese del Trofeo Baracchi, anche se di minor prestigio. Nel 1961 rivinse il titolo mondiale nell'inseguimento, sempre ai danni dell'elvetico Trepp e, stavolta, dell'italiano Leandro Faggin. Fra i suoi successi su strada dell'anno, di nota la Ronde d'Aix. 
[Immagine: ae6817a6f065e4177d1d9dab49246d39.jpg]
Il 1962 segnò l'arrivo dell'Altig di cui s'ha più memoria: quello che centrò obiettivi primari correndo a fianco di grandi vedette  come Anquetil (nella St. Raphael), Motta (nella Molteni) e Gimondi (nella Salvarani), dei quali è stato, sovente, partner prezioso. Un corridore che segnò un paio di lustri, potrei dire con discrezione, quasi fosse obbligato a farlo per equilibrare la sua possanza atletica. Anche in questo fu un grande. Di Rudi, fratello minore di quel Willy, che si portava spesso nelle formazioni in cui s'accasava e che non lo valeva per nulla, si possono riassumere, con fatica, tante perle. Il "Toro di Mannheim" come veniva definito, fu campione del mondo sul Nurburgring nel '66, al termine di una chiacchieratissima vicenda di rivalità fra Anquetil e Puolidor; fu campione tedesco nel '64 e nel '70. Vinse poi fior di classiche: il Giro delle Fiandre '64, la Milano Sanremo '68, l'Henniger Turm '70, oltre al Gran Premio di Cannes '62, la Genova Nizza '63, il Giro del Piemonte '66, il Giro di Toscana '66, la Milano Vignola '67, la Sassari Cagliari '70, il Gran Premio di Lugano a cronometro e il Trofeo Baracchi '62 (in coppia con Anquetil che trascinò letteralmente al traguardo, poiché il francese non era assolutamente in grado di reggere la sua formidabile cadenza). Allo stesso Anquetil, il possente Altig, inflisse un'inattesa batosta nel Giro di Spagna '62 che "Jacquot" avrebbe dovuto vincere: il "toro di Mannheim" nella tappa a cronometro batté il suo capitano e s'aggiudicò  anche la Vuelta. A tappe ha pure vinto la Parigi Lussemburgo '63 e il Giro dell'Andalusia '64. Ma Rudi, fra i tanti successi su strada, non abbandonò mai quella pista che nel passato gli aveva donato tre maglie iridate e, sui velodromi, conquistò il titolo di campione tedesco d'inseguimento ('60-'61), dell'americana ('62, '63, '65), fu campione d'Europa dell'omnium (dal '63 al '66) e dell'americana ('65). Anche come seigiornista fu un super evidente. Nel suo carnet, ci sono 23 Sei Giorni e, tanto per dimostrare che sapeva anche partorire performance di valore assoluto, stabilì i record del chilometro e dei 5 chilometri anche da professionista, dopo che li aveva detenuti come dilettante. Insomma, che dire? Il "Toro di Mannheim", all'anagrafe Rudi Altig, va raccontato ai giovani....perchè è un bel paginone della storia del pedale.

Sulla Maglia Rosa di Rocca di Cambio 1966:


Julio Jimenez 
Nato ad Avila il 28 ottobre 1934. Professionista dal 1959 al 1969 con 52 vittorie all'attivo.
[Immagine: 10700.Big.jpg]
Un atleta "passerotto" che maturò piuttosto tardi, poiché a lungo, a causa di origini umilissime, le sue corse in bici si alternarono al lavoro di orologiaio. Di qui il soprannome di "Orologiaio di Avila". Oppure, per la sua fede scrupolosamente osservante, quello di "Sacrestano". 
Quando si trasferì a Madrid con la famiglia nel 1953, il suo trend non si modificò e per poter sostenere l'attività ciclistica che aveva abbracciato completamente la sua passione, fu costretto pure a sostenersi andando ad acquistare pezzi per lo strumento di gara ai mercatini delle pulci. La sua taglia fisica e le sue specifiche attitudini alla salita però, pian piano lo misero in luce, fino al passaggio al professionismo. Ne uscì una carriera che lo ha fatto entrare fra i grandi scalatori di ogni epoca, naturalmente indirizzato verso le maggiori gare a tappe, dove, purtroppo, la sua debolezza a cronometro e la scarsa concentrazione, hanno ridotto sensibilmente il suo comunque buon palmares. Vissuto a lungo come alter ego del grande Bahamontes, è stato Campione di Spagna nel '64 e della Montagna nel '62 e '65. 
[Immagine: Julio_Jim%C3%A9nez_1966.jpg]
Ovviamente s'è messo in mostra nelle gare in salita, come sul Mont Faron nel '63, indi ad Arrate nel '65, Urquiola '62, '64, '65, Poly '67. Ma i pezzi forti del suo ruolino, stanno nelle maggiori corse a tappe, dove ha vinto la Classifica dei Gran Premi della Montagna 3 volte al Tour de France ('65, '66 e '67); altrettante volte nella Vuelta ('63, '64, '65), nonché le tappe a lui più congeniali: 5 al Tour, 4 al Giro d'Italia e 3 alla Vuelta. I suoi piazzamenti migliori nella classifica generale, furono il 2° posto al Tour nel '67 dietro Roger Pingeon, dove, a dispetto del piazzamento finale, non vinse nessuna frazione, il 4° al Giro d'Italia '66 (dove per undici tappe indossò la maglia rosa) e il 5° nella Vuelta di Spagna '64. Chiuse la carriera poco prima di compiere 35 anni correndo per una squadra italiana fortemente voluta da Alceo Moretti e diretta da Silvano Ciampi, l'Eliolona.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#17
1914 – 6a tappa del 6° Giro d’Italia

Bari – L’Aquila di 428 km
 
La prima de L’Aquila al Giro d’Italia ci porta al 1914, all’edizione che viene giustamente considerata come la più selettiva e dura dell’intera storia del ciclismo. Fra i diversi e feroci primati di quel Giro, giova ricordarne tre: al traguardo di Milano giunsero solo 8 degli 81 partenti; ben cinque delle otto tappe della manifestazione furono più lunghe di 400 chilometri e la sesta tappa, proprio la Bari-L’Aquila di 428 chilometri, fu quella che fece registrare il maggior tempo di percorrenza di ogni epoca: 19h20'47"!
Fu pure un Giro denso di fatti strani e persino gialli, molti dei quali all’indirizzo di Alfonso Calzolari, il vincitore a Milano, dichiarato tale solo a febbraio del 1915 dal Tribunale milanese, grazie all’accoglimento del ricorso che “La Gazzetta dello Sport” fu costretta ad intentare contro la squalifica  dell’allora Unione Velocipedistica Italiana verso Calzolari. Il motivo, il traino di una macchina lungo la salita delle Svolte nella tappa aquilana, mai accertato con sicurezza tra l’altro, e per il qual reato il corridore bolognese era già stato punito con la penalizzazione di 3 ore. 
La Bari – L’Aquila fu ben presto una gara ad eliminazione, prima di giungere sulle alture abruzzesi, s’erano già ritirati, Goi, Robotti, Spinelli e Bordin. A Rionero, Lucotti, in giornata magica, passò con 8 minuti su Durando e Calzolari, ben più staccati Canepari e Giuseppe Azzini, il capoclassifica e vincitore delle due tappe precedenti. Poi, sulla definita “terribile salita” del Macerone, Azzini fu colto da una grave crisi: su fermò in un granaio a Barisciano e si addormentò. O meglio, svenne. Fu trovato ancora in difficoltà motorie, la mattina dopo. Tornando alla tappa, a Castel di Sangro il vantaggio del battistrada Lucotti era assai aumentato. Ancor più a Sulmona. Sul traguardo de L’Aquila il bravo pedalatore vogherese, giunse con un anticipo di 19 minuti su Durando, oltre mezzora su Calzolari che diventò capoclassifica e oltre quaranta minuti su Canepari. 
I rimasti in gara a L'Aquila furono solo undici, i dieci riportati sotto nell'ordine d'arrivo più Alfredo Sivocci e Umberto Ripamonti. A Milano, come già detto chiuderanno il Giro in otto.

Ordine d’arrivo:

1° Luigi Lucotti km 428 in 19h20'47" alla media di 22,128 kmh
2° Carlo Durando a 18'59"
3° Alfonso Calzolari a 34'24"
4° Clemente Canepari a 44'30"
5°Ottavio Pratesi a 1h12'04"
6° Pierino Albini a 2h12'53"
7° Maggiore Albani a 2h14'21"
8° Giosuè Lombardi a 3h05'34"
9° Enrico Sala a 3h06'03"
10° Eberardo Pavesi a 3h08'15"

Sul vincitore di tappa:


Luigi Lucotti
Nato il 18 dicembre 1893 a Voghera ed ivi deceduto il 21 dicembre 1980. Completo. Professionista dal 1913 al 1926 con 7 vittorie.
[Immagine: Lucotti%203-k69B-U32601310877218GYF-656x...ezioni.jpg]
Era un corridore che avrebbe potuto ottenere di più, perlomeno in Italia, se il suo bisogno di guadagnare di più, per vivere la convivenza con lo sport della bicicletta, non gli avesse imposto continui trasferimenti all'estero, in particolare la Francia. A ciò va aggiunta quella Guerra che gli tolse la possibilità di farsi maggiormente conoscere nella penisola italiana e, di conseguenza, essere più generosamente ingaggiato. Anche perché, Luigi Lucotti, che fu un gran corridore, tra l'altro sempre tra i primi, aveva la sfortuna, chissà perché, di passare sovente inosservato. Si pensi, anni dopo, persino agli storici.... 
Nel 1913, a vent'anni, era già un bel ciclista accasato alla Maino: uno che in stagione vinse la Coppa SC Milano, fu 3° nella Coppa Toscanelli, 4° nella Granfondo e nella Milano-Modena, 6° nel Campionato Italiano e 7° nel Giro di Lombardia. Insomma, un ruolino che avrebbe dovuto essere maggiormente considerato nei pochi media del tempo. Eppure, per molti, la prima apparizione di Lucotti sulle scene ciclistiche, avvenne in occasione del suo esordio al Giro d'Italia, nel 1914. 
Qui, finì terzo in classifica e s'impose nella frazione di L'Aquila, oltre che piazzarsi in diverse tappe. Di nota, il fatto che fu il Giro più massacrante della storia: su 81 partenti solo 8 lo conclusero! Nell'anno Lucotti vinse anche il Giro delle Tre Province e fu 2° al Campionato Italiano battuto allo sprint da Girardengo. Nel 1915, con ovvia pochissima attività, fu 2° alla Milano-Sanremo e 6° alla Milano-Torino. Anche nelle poche gare del 1917, il vogherese continuò a mantenere alto il regime dei suoi piazzamenti. Partecipò a sei corse, ed anche se non vinse, nelle medesime non arrivò mai oltre il 5° posto.
[img]https://bikeraceinfo.com/images-all/tdf-images/tdf-history/imageshist011/1919-9th-tappa-l'arrivo-di-.jpg[/img]
L'anno seguente, fu al via in due manifestazioni: in una contribuì alla vittoria della Bianchi, la sua squadra, nella Torino-Arquata, indi fu 5° nella Milano-Modena. Alla vigilia della prima vera stagione non mozzata dalla Guerra, ovvero il 1919, Lucotti si trovò, per necessità, a dover fare delle valutazioni circa il proprio rapporto col ciclismo. In Italia, uno come lui, avrebbe potuto diventare qualcuno, ma allora in patria i ciclisti italiani, ricevevano dei compensi da fame. Bisognava avere la costanza e la forza che contraddistinse i Ganna, i Galetti ed i Pavesi, per poter sfondare, in un mondo dalla mentalità ristretta e dalla pochezza finanziaria evidente. Pertanto, diversi corridori italiani, e fra loro Luigi Lucotti, che desideravano guadagnare qualcosa di più, tentarono nel dopoguerra la grande avventura in terra di Francia, dove, in caso di vittoria, il compenso era sostanzioso e permetteva allenamenti e vita decente. Così fece Bottecchia, così fecero altri e, come detto, pure il vogherese, che si presentò al via del Tour del 1919, per giocarsi le carte dell'agonismo, ma pure del portamonete. Prima aveva corso il Giro d'Italia, solo per qualche piazzamento (un 2° un 4° e un 7° di frazione) ed un ritiro che già allora diede l'impressione del programmato. Per quella edizione della Grande Boucle, la prima del dopoguerra, Desgrange aveva voluto riprendere il discorso là dove l'aveva lasciato 5 anni prima. Una corsa di 5.558 km. in 15 tappe. A Lucotti, andò  senz'altro bene: due vittorie di tappa, a Strasburgo e a Metz, arricchite da quattro secondi posti in altre frazioni, ed un ottimo 7° posto in classifica generale finale, furono il suo lusinghiero bilancio. Dopo un 1920 dove non corse, si ripresentò nel 1921 ancora al Tour de France, stavolta dopo aver corso pochissimo in Italia (solo la Sanremo, 7°). Buonissimo fu anche stavolta il suo ruolino: una vittoria di tappa a Tolone, tre secondi posti ed un terzo in altre frazioni, ed il 4° posto finale a Parigi. 
Ma i Tour de France di allora stroncavano, e la fatica prostrò Lucotti. Il suo declino fu molto veloce: poche corse, ancora qualche piazzamento, ma solo nella tappa Roma-Napoli del Giro d'Italia '23 (chiuso 25°), dove finì 2°, s'ebbe modo di parlare ancora di lui come protagonista. Ormai aveva dato al ciclismo tutto di se stesso e nessuno poteva chiedergli di più. La sua carriera si chiuse, di fatto, la mattina del 27 giugno 1925, quando non partì per la quarta tappa del Tour, la corsa a lui cara, alla quale partecipava per la terza volta.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#18
Topic straordinario a dir poco, come un magnifico libro che trasuda grande ciclismo direttamente sul tuo monitor! Grandissimo Maurizio! 
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#19
Il Giro d’Italia tornò a Perugia nelle prime due edizioni del dopoguerra, bagnandosi di folla festosa e numerosa oltre le più ottimistiche previsioni. Due occasioni che portarono all’evidenza ciclistica nuovi protagonisti, taluni in grado di saldarsi sul palcoscenico della popolarità per anni e due tappe che salutarono due vincitori di valore sicuramente superiore al raccolto di carriera. Perugia e la sua erta furono, entrambe le volte, lo stimolo vincente per un paio di voli in solitudine capaci di entusiasmare il pubblico e di gratificare pienamente i due autori.  

1946 - 10a tappa del 29° Giro d'Italia

Roma-Perugia di 191 km

Con la benedizione del Papa, il via da Roma venne dato da Ponte Milvio. Fin da subito tanta animosità, in particolare da parte di Fermo Camellini, ormai francese della Costa Azzurra. In luce anche Corrieri, Ronconi e Generati. I sessantadue partiti si ritrovarono compatti a Civitacastellana-Otricoli, ma qui scattò Leopoldo Ricci, al quale poco dopo s’accodarono, Baito, Pasquini, Biagioni e Canavesi. A Narni al comando rimasero in tre: Baito, Canavesi e Pasquini. Quest’ultimo però, nel ternano  mollò, ed il duo rimasto al comando proseguì al meglio fino ai piedi della salita finale, lunga sette chilometri. Qui Canavesi, già da diversi chilometri in crisi, non fu capace di tenere il passo di uno scatenato Baito, ed il vogherese del V.C. Bustese, in solitaria, raggiunse il traguardo, per cogliere il suo secondo successo da professionista. Pesanti i distacchi, senza però mettere in crisi la Maglia Rosa, Vito Ortelli.
[Immagine: Giro-ditalia-1946-tappa-Roma-perugia.jpg]

  Ordine d'arrivo:

1° Aldo Baito (Ita)  km 191 in 5h34'30" alla media di 34,260 kmh
2° Severino Canavesi (Ita) a 2'47"
3° Guido Lelli (Ita) a 6'08"
4° Serafino Biagioni (Ita) a 7'05"
5° Giulio Bresci (Ita)
6° Mario Fazio(Ita)
7° Augusto Introzzi (Ita) a 7'29"
8° Dante Colombo (Ita) a 8'45"
9° Secondo Barisone (Ita) a 8'58"
10° Carlo Moscardini (Ita) a 13'18"

Il ritratto del vincitore di tappa:

Aldo Baito 
[Immagine: 926.jpg]
Nato a Gorla Minore (Varese) il 4 gennaio 1920, deceduto a Varese il 20 dicembre 2015. Passista-veloce alto 1,73 m. per 70kg. Professionista dall’ottobre 1945 al 1951 con 5 vittorie.
Un ciclista precoce, che ha giocato presto le sue migliori cartucce e che è tramontato probabilmente anzitempo. Ovviamente, sul giudizio, per Baito, come per tutti i corridori di quell’epoca, va considerato il peso indeterminabile della guerra, anche se vissuta da civile. 
Agonisticamente, le poche gare del periodo bellico, con partecipazioni rarefatte e conseguentemente meno attendibili, ci narrano di un corridore ardimentoso, efficace e buono su tutti i terreni, al punto di vincere il Campionato Italiano dilettanti nel 1944. Poi, l’anno seguente, vinse coi compagni dell’Azzini di Milano, Ermacora, Michele Motta e Gamba, quella Coppa Italia che era e sarà per i cosidetti “puri”, per molto tempo ancora, una prova di assoluto prestigio, praticamente pari al tricolore individuale. Si confermò sul podio, 3°, al Campionato Italiano su strada, ed ai primi di  ottobre passò professionista in maglia Bianchi. In tempo per partecipare al Giro di Lombardia e cogliere un significativo 5° posto. 
Il 1946 fu il suo anno migliore. Lo passò correndo a volte con la Bianchi, altre con la Ricci, la Ray, l’Olmo, la Gira e soprattutto il Velo Club Bustese, sodalizio per il quale corse il Giro d’Italia. E nella Corsa Rosa, dopo un bel 2° posto nella frazione che si  concludeva a Genova, vinse alla grande in perfetta solitudine la Roma-Perugia, chiudendo poi il Giro all’11° posto. Nell’anno vinse anche la Coppa San Giorgio a Legnano, la Coppa Begrini a Cinesello Balsamo e partecipò con profitto alla Monaco-Parigi, detta anche Petit Tour, la manifestazione a tappe più importante dell’anno in terra francese. Il comportamento di Baito fu eccellente: sempre protagonista, vinse la tappa che si concludeva a Digne, suo quarto successo stagionale, e chiuse 6° a Parigi. Il suo Petit Tour gli rese popolarità in Francia e ciò lo spinse a pensare, di alternare alle corse italiane, quanto possibile, diverse corse oltralpe. Nell’anno colse anche i secondi posti a Cossato e Bollate.
Nel 1947 passò alla Olmo in pianta stabile, ma il suo rendimento calò: vinse il Gran Premio Salsomaggiore, finì 4° nella Parigi-Nantes, ma si ritirò al Giro d’Italia. Il 1948 lo corse con le maglie della Viscontea e della francese Rochet. Nell’anno non vinse, si ritirò nuovamente al Giro d’Italia, fu 2° nella tappa di Ginevra al Giro di Romandia (chiuso al 9° posto) e finì 5° alla Milano Torino. Anche nel 1949, dove Baito corse per Rochet, Edelweiss, Cilo, Rubis e Duralca,  l’andamento delle risultanze si confermò: con molte partecipazioni all’estero, il varesino finì 2° in una tappa del Giro della Provincia di Reggio Calabria (chiuso al 7° posto), 4° alla Sassari Cagliari e concluse la Parigi-Roubaix al 99° posto. Si ritirò sia al Giro d’Italia che al Tour de Suisse. Ormai logoro, corse con la Rochet anche le stagioni 1950 e ‘51, cogliendo un 2° posto nella Vienna-Graz nel ’50. 


1947 - 6a tappa del 30° Giro d'Italia


Firenze-Perugia

[Immagine: 7a.jpg]

Una giornata caldissima salutò il raduno della carovana a Piazza Cesare Beccaria, la sede di partenza della sesta tappa, che da Firenze si sarebbe conclusa a Perugia, dopo 161 chilometri ondulati e con crescenti difficoltà. La presenza di un progressivo forte vento, per la gran parte contrario alla marcia dei corridori, creò i presupposti per tanti tentativi, poi puntualmente conclusisi con un nulla di fatto. I diversi traguardi a premio intermedi resero ulteriore vivacità alla corsa, anche se la media non s’alzo più di tanto proprio per quel vento che scoraggiava, l’affondo. Il tutto si sciolse nei pressi di Passignano sul Trasimeno, poco dopo la caduta di Serse Coppi che si ruppe una gamba, quando a partire deciso fu Angelo Menon, al quale s’accodarono Giordano Cottur, Guido De Santis, Mario Fazio ed Ezio Cecchi. Questi quattro presero subito un vantaggio di duecento metri e lo aumentano progressivamente. Poi sul finale lungo le prime pendenze della salota che porta a Perugia, ad attaccare deciso fu Cottur, al quale nessuno riuscì a resistergli., gli ultimi a cedere furono Fazio e Cecchi. Il triestino della Willier andò così a vincere, dimostrando ancora una volta, di essere corridore di primissimo piano, addirittura un possibile vincente al Giro. Sicuramente uno da podio finale, come lo era già stato nel 1940.
[Immagine: perugia_triondo_cottur.jpg]

Ordine d’arrivo:

1° Giordano Cottur (Ita) km 161 in 4h50'55" alla media di 33,230 kmh
2° Mario Fazio (Ita) a 14"
3° Ezio Cecchi (Ita) a 43"
4° Angelo Menon (Ita)
5° Guido De Santi (Ita) a 1'17"
6° Serafino Biagioni (Ita) a 2'00"
7° Lucien Vlaeminck (Bel)
8° Aldo Baito (Ita)
9°  Armando Peverelli (Ita)
10° Mario Ricci (Ita) a 2'11"

Il ritratto del vincitore di tappa:

Giordano Cottur
[Immagine: 24351_389981718936_7704423_n.jpg]
Nato a Trieste il 24 maggio 1914. Deceduto a Trieste l'8 marzo 2006. Professionista dal 1938 al 1949 con 11 vittorie. A dispetto dei successi, pochi, ma non possedeva volata, Cottur è da considerarsi un autentico riferimento, per valori e tangibilità sulle strade, del ciclismo italiano a cavallo del secondo conflitto mondiale. Un corridore a cui è mancato davvero poco, per vincere quel Giro d'Italia che ha sempre inseguito con devozione, anche per reazione patriottica agli eventi di quei tempi che vedevano la sua Trieste, una città di confine in tutto. Già, perché Giordano non solo vi è nato, ma nel capoluogo giuliano vi ha sempre vissuto e lavorato. 
Gran dilettante, categoria nella quale probabilmente militò troppo a lungo, dove fece incetta di vittorie (70), quasi sempre con arrivi solitari perché anche da "puro" il suo sprint si dimostrò carente. Fu 5° ai Mondiali di Copenaghen nel '37. Passò prof a 24 anni nel 1938, con la Lygie e si dimostrò subito corridore di vertice, partecipando con grande tangibilità al Giro e al Tour, dove fu una spalla importantissima nel successo di Gino Bartali. Al Giro vinse la tappa di Lanciano e giunse 2° in quella dell'allora ben più terribile Terminillo. In Francia, nonostante il lavoro di scudiero, giunse 2° nella dura frazione di Bayonne. Si capì dunque subito che, per caratteristiche e risultanze, erano le grandi corse a tappe il suo terreno ideale. Ed alla fine il suo palmares, che è denso di piazzamenti come  pochi, ci presenta 7 partecipazioni al Giro d'Italia, con 3 terzi posti (nel '40 alle spalle di Coppi ed Enrico Mollo, nel '48 dietro Magni e Cecchi ed infine nel '49, battuto da Coppi e Bartali), un 7° ed un 8°, vincendo 5 tappe (la citata Napoli-Lanciano nel '38, Venezia-Trieste nel '39, Milano-Torino nel '48 e '46, Firenze-Perugia nel '47). Indossò la Maglia Rosa per 14 giorni: 5 nel '49, 8 nel '48 e una nel '46. Disputò 2 Tour de France con un 8° posto finale nel 1947 e il 25° nel '38, cogliendo oltre il 2° posto di Bayonne anche il 3° a Luchon nel '47. In quest'ultimo anno contribuì a far conquistare all'Italia il 1° posto per nazioni nella Desgrange-Colombo, piazzandosi 5° nella classifica dietro Schotte, Camellini, Bartali e Magni. Aldilà delle tappe del Giro, Cottur vinse: la Trieste-Postumia-Trieste nel '38; il Giro d'Um-bria, la crono (con Servadei) del GP di Torino nel '39; il Trofeo dell'Impero nel '43; la Trieste-Opicina nel '45. Cottur è poi passato alla storia, perché nel Giro d'Italia '46, entrò nella sua Trieste al comando di un drappello di 17 corridori, dopo che il gruppo, a causa dei lanci di pietre da parte dei seguaci di Tito, fu fermato a Pieris. Trieste era stata assegnata all'Italia, ed era stata fin lì governata dagli anglo-americani. Era il 30 giugno 1946. Dopo la carriera ciclistica, divenne diesse di squadre prof fino al '57, indi continuò a seguire il lancio di giovani del triestino e gestire in Città un negozio di biciclette e ciclomotori, fino all'ultimo dei suoi giorni. Morì a 92 anni.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#20
1986 – 12a tappa del 69° Giro d’Italia

Sinalunga - Siena (Cronometro Individuale)

[Immagine: 12a.jpg]

Una tappa che segnò un brutto colpo per Francesco Moser, partito in questa cronometro come favorito e che poi concluse 10°. Una cronometro ondulata, con un finale in salita, ripercorrente il terminale dell'odierna  "Strade Bianche"  e soprattutto, se ci lanciamo in confronti con l'oggi, una delle quattro crono di quel Giro. Già, perché al prologo di un solo chilometro, l'edizione 1986, aggiunse una cronosquadre, Catania-Taormina di 50 Km, indi la protagonista di questo zoom, la Sinalunga-Siena di 46 km e la Piacenza-Mantova di 36. Totale,133 chilometri contro le lancette, ovvero circa 100 chilometri in più dell'edizione 2021 e questo aspetto ci mostra che anche gli organizzatori appartengono pienamente a quei filoni di contraddizioni, che stanno strozzando questo sport. Un GT, escludendo quel non senso che è la cronosquadre, per dirsi equilibrato deve avere sempre fra i 50 e 60 chilometri a crono. Proporne di più o di meno, significa che si vuole favorire qualcuno, non il ciclismo. Punto!
Dunque Moser a Siena andò male. Idem Lemond. Benino Saronni, bene quel Visentini che poi vincerà il Giro e che assieme a Baronchelli e Battaglin, andrà a completare il terno delle principali vittime di quel mediatico dualismo, divenuto nel tempo assolutismo, verso Moser e Saronni.  Per questo, quella fase del ciclismo italiano, che poteva essere bellissima, si fermò molto prima. In sostanza, gli italiani nonostante le due divinità dei media, non trasferirono completamente sulle strade quella qualità che avrebbe fatto di noi la potenza dominante del ciclismo. Chi invece si mise nella primaria mostra della crono senese, fu proprio il vincitore, il ventiquattrenne polacco Lech Piasecki. Un tipetto con orecchie a ventola e baffetti capace di diplomarsi perito meccanico e di fare il corridore con l’intento di guadagnare abbastanza per fare qualcosa di meglio di quell’operaio per sincronia coi dettami del regime del suo paese. Ed era davvero sulla buona strada perché da dilettante aveva vinto duecento corse e l’anno prima della Sinalunga-Siena, aveva colto il successo nella celeberrima Corsa della Pace (Praga-Varsavia-Berlino), nonché il Titolo Mondiale sul Circuito del Montello.

Ordine d’arrivo:
1° Lech Piasecki (Pol) km 46 in 59'04" alla media di 46,727 kmh
2° Visentini (Ita) a 7"
3° Giuseppe Saronni (Ita) a 30"
4° Dietrich Thurau (Ger) a 37"
5° Greg Lemond (Usa) a 40"
6° Steve Bauer (Can)a 57"
7° Enrico Grimani (Ita)
8° Michael Wilson (Aus)
9° Tommy Prim (Sue) a 1'12"
10° Francesco Moser (Ita) a 1'20"

Il ritratto del vincitore di tappa:

Lech Piasecki
[Immagine: bb6d8fdd4f47097cc75be76638fc83f0.jpg]
Nato a Poznan il 13 novembre 1961. Passista. Professionista dal 1986 al 1991, con 18 vittorie. Faccia inconfondibile coi baffetti che sembravano trattenere la voglia di volo di due pronunciate orecchie a sventola. Insomma un volto disneyano ben poco polacco o nordico, a cui seguiva un comportamento latino. Lech Piasecki, non è stato un campione, ma ha raccolto meno di quanto valesse, anche perché, forse, pagò troppo a lungo una certa sudditanza verso il capitano Giuseppe Saronni. Si segnalò imperiosamente nel 1985, vincendo dapprima la Corsa della Pace (Praga-Varsavia-Berlino) manifestazione a tappe per dilettanti da considerarsi "Mecca" del ciclismo del blocco sovietico. Poi, ai Mondiali, sul Circuito di Giavera del Montello, pur partendo nel novero dei favoriti, quindi marcato, riuscì con un'azione da gran finisseur a conquistare la Maglia Iridata dei "puri". A fine anno, la Del Tongo Colnago, grazie anche ai buoni servizi di Czeslav Lang, riuscì a vincere diversi tipi di concorrenza, e farlo passare fra i prof, raggiungendo così lo stesso Lang, che era stato il primo professionista di un paese comunista. L'inizio di Lech fu più che lusinghiero, per l'integrazione nella squadra e per le sei vittorie conseguite. Di gran nota il successo nella cronometro di Siena al Giro d'Italia, a cui seguì la cronosquadre di Taormina. Trionfò in una tappa del Tour de l'Aude, nel Giro di Romagna, nel Trofeo Baracchi, in coppia con Saronni, ed infine nella Firenze-Pistoia, sempre a cronometro. Non così buona la seconda stagione: vinse solo il cronoprologo della Tirreno-Adriatico. Nel 1988 ritornò a salire: conquisto la tappa a cronometro di Vittorio Veneto al Giro d'Italia, si laureò Campione del Mondo dell'Inseguimento Individuale e rivinse il "Baracchi", stavolta in coppia con Lang. La stagione successiva fu quella d'oro per Lech: firmò tre successi di tappa al Giro d'Italia (le cronometro di Trento e Firenze e quella in linea di Riccione), vinse il Giro del Friuli, la 7a tappa della Tirreno Adriatico e le due prove del GP Città di Bologna. Nel '90, s'affermò nella Firenze Pistoia, ma diede diversi segni di declino. Ed infatti, nell'aprile del '91, a nemmeno 30 anni, chiuse col ciclismo.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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