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Spruzzi di Storia e di Protagonisti di quella che fu la Classicissima
#1
Da un libro che scrissi nel 2010........ e dove ho cercato, decisamente  troppo, di essere dolce di fronte ad una corsa lontana dai suoi fasti. O meglio, corsa che sta nelle orbite del "grande ciclismo", grazie alla sponsorizzazione degli "strilloni" su carta e video.....

….Dall’intensa città
scendendo fino ad incontrare
l’insieme dei benevoli sali
padroni invisibili dell’aria di mare.
E proseguire con le onde vicine
verso il profumato incanto
di tanti Mercurio
che t’annuncian primavera.
È lo spazio d’una fatica
che assorbe il fascino
contro ogni aspro dettame
sempre.

Morris


MILANO - SANREMO
Spruzzi di Storia e di Protagonisti di quella che fu la Classicissima

[Immagine: sanremo-chiappucci-intervista06-585x450.jpeg]

Introduzione

“Ha vinto Daems. Anzi ha stravinto, li ha proprio stroncati tutti.” Con queste parole che sono di mio fratello Lorenzo, il corridore di famiglia, la Milano-Sanremo, entrò compiutamente nell’attento bambino sottoscritto. Era il 19 marzo 1962.
Ho scritto ovunque di quanto il ciclismo sia nato in me fin da piccino e non trovo superfluo ribadirlo in ogni occasione, perché è un modo di presentare, fotogramma su fotogramma, un rapporto che alla fine sa essere qualcosa di più.
La “Classicissima di primavera”, ovvero la definizione che spesso accompagna questa corsa anche e soprattutto ai tempi della mia fanciullezza, fu la prima delle grandi classiche di un giorno a farsi conoscere al mio osservatorio, era stata preceduta solo dal Giro d’Italia e dal Tour de France, nonché dalla prova a cronometro, il Trofeo Tendicollo Universal di Forlì, che ha contraddistinto le mie zone e che fu per il sottoscritto la palestra di indelebile saldatura verso lo sport del pedale.
Questo volume non sarà solo il primo dei due che compongono la Storia della Milano Sanremo, ma rappresenterà l’apertura di una collana-viaggio sulle classiche del ciclismo, perlomeno su quelle che trovo oggettivamente più importanti, per quel condensato che tradizione e realtà hanno eletto tali e che, magari, potranno non trovare sulle medesime coordinate taluni.
Saranno storie che definisco essenziali, senza la pretesa di essere organiche, ma tutte più meno incentrate sulle evoluzioni dei percorsi, sul riferimento che recitavano relativamente ad ogni annata; su quei protagonisti corridori che sono sempre, checché ne dica qualche organizzatore, la parte più cospicua di ogni proposta, nonché quegli ordini d’arrivo che, se si vuol essere fedeli al tratto storico delle singole corse, vanno presentati nella loro interezza. Tra l’altro, su quest’ultimo aspetto, i lettori più disponibili alla ricerca, tro-veranno delle sorprese non indifferenti.
La Milano Sanremo dunque, una corsa che ha vissuto fasti altissimi, che divide con la Parigi-Roubaix e il Giro delle Fiandre, il podio più alto della popolarità, al netto delle diversità e delle specializzazioni che hanno progressivamente avvolto e minato il ciclismo. Una corsa dall’itinerario magnifico, un tempo bellissima non solo per questo, ma pure per i suoi tratti agonistici. Oggi, certamente la più cerebrale per quel gioco di attimi che sono il filo conduttore delle prove veloci. Sicuramente colei che più di ogni altra, esprime il sunto dei cambiamenti intervenuti su questo sport: senza stravolgenti modificazioni di percorso, è passata da prova di fatica eccelsa, che vedeva l’arrivo di Sanremo come un’impresa comunque, a meta possibile a tutti e dove i 300 chilometri del tracciato rappresentano l’aspetto tecnico nettamente meno influente. In altre parole, una corsa che è riuscita nell’impresa di non perdere fascino pur cambiando l’indirizzo dei propri aloni, costringendo,di conseguenza, l’osservatorio a riflettere non poco su questa anomalia.  
Una prova che vive moderna uno spaccato di storia, non solo sul proprio sé, ma per le varie diramazioni che ha mosso e che sono arrivate ad incidere sulla cultura, sul costume e sullo stesso stile di chi si pone fraterno al pedale. Abbastanza per impegnare il narratore, a non fare di ciò che segue, una mera rappresentazione di dati.

        Maurizio Ricci (Morris)

Una moderna Classicissima Centenaria.

La Milano Sanremo nacque nel 1907, come vedremo, fra le titubanze del direttore della Gazzetta dello Sport Camillo Costamagna e la non certo cospicua convinzione di chi, inizialmente, lavorò alla posa in opera della prova. Ad oltre un secolo di distanza però, la creatura che vide accanto al determinante Armando Cougnet, le maggiori volontà dell’ispiratore Tullo Morgagni e, successivamente, il peculiare contributo di Augusto Carlo Rossini, a dispetto dei mutamenti enormi incorsi nello sport di riferimento, è ancora perfettamente collocata su quel top internazionale che seppe raggiungere da subito. In altre parole, è sempre una corsa che tutti i corridori vorrebbero nel proprio palmares, nonostante le modificazioni che ne hanno deviato l’apogeo di riferimento, ovvero da prova per uomini di fondo ed eccelsi su ogni terreno, a gara per ruote veloci o, come tutte ad onor del vero, adatta a chi possiede le rare stimmate del finisseur. Sicuramente gli ispiratori che concepirono ed organizzarono per la prima volta la Milano-Sanremo, non avreb-bero mai immaginato che la loro sempre più perfetta macchina organizzativa, potesse arrivare al nuovo millennio con intatto fascino.

Il ciclismo italiano all’alba del 1907.
Il movimento del pedale d’inizio secolo poggiava internazionalmente sulle attività all’interno dei tondini, come venivano chiamati i velodromi del tempo, ma nel breve volgere di un lustro, le manifestazioni su strada avevano saputo, in taluni paesi come Francia e Belgio, raggiungere e superare l’alone del ciclismo su pista sulle attenzioni popolari, fino a determinare le basi per l’elevazione di vere e proprie classiche. La Francia in particolare, era già “moderna”, con tre corse da considerarsi degli autentici fari mondiali, come Parigi-Roubaix, Parigi-Tours e Bordeaux-Parigi, attorno alle quali ruotavano molte gare minori, ma di spessore e continuità tali, da farne riferimento e, soprattutto, fungere da vero e proprio calendario. La nascita del Tour de France nel 1903, aveva proiettato il ciclismo a dominatore delle strade.
In Italia invece, lo spontaneismo pure molto forte, non aveva sempre trovato i sostegni necessari per creare, sulle “macchine spinte a motore umano” a portata di tanti, la spinta che ne creava continuità. In altre parole, s’era in ritardo in maniera tangibile rispetto alla Francia, ed anche nei confronti del Belgio, che pure aveva sopperito con la quantità l’ancor non avvenuta cementazione di gare riferimento. La fotografia del nostro movimento, dunque, viveva di punti isolati e di poche certezze.
E dire che l’avventura era iniziata molto presto, fra i primissimi in tutto a livello mondiale, nel 1870, con la Firenze Pistoia. Gli echi di quella genesi di ciclismo nella penisola - fatti di 23 concorrenti su bicicli aventi una ruota anteriore di 75 centimetri di diametro e di una posteriore di 50, della loro fatica, nonostante la media di soli 13 chilometri sui 33 del percorso e di quella polvere che sollevavano, della vittoria di uno straniero venuto dagli Stati Uniti, ma di origine olandese, tal Rynner Van Heste, s’erano nuovamente concentrati in una risposta, solo nel 1876, con la Milano Torino. Ma pure la corsa fra le due grandi città non era decollata come si sperava, ed a parte le edizioni del 1894, 1896, 1903 e 1905, all’alba del 1907 sembrava definitiva-mente tramontata. I perni sui quali gravitava il movimento dell’evoluta bicicletta su strada di quei giorni erano: la Coppa del Re, nata nel 1897 e fin lì corsa tutti gli anni ad esclusione del 1900 (chiuderà il suo ciclo nel 1909); la “Corsa Nazionale”, partita nel 1902 e corsa ininterrottamente (fino al 1908) e la “XX Settembre, poi negli anni conosciuta col nome di Roma-Napoli-Roma (che arriverà a chiudere il proprio itinerario nel 1961).
A quelle “certezze”, erano giunte a dar manforte, con significativi successi, nel 1905, il Giro di Lombardia, organizzato proprio da “La Gazzetta dello Sport”, che diventerà negli anni la superclassica che tutti conoscono e, nel 1906, il Giro del Piemonte (che si corre ancora oggi), nonché la Milano-Modena (che chiuderà nel 1955), la Milano-Mantova (che giungerà fino al 1962) e quel Campionato Nazionale che, dopo essere stato lanciato nel 1885, si era subito arenato, fino a riprendere il suo ruolo, appunto, nel 1906. Un panorama non vasto, che aveva visto diverse meteore in auge un solo anno, di cui meritano citazioni le più importanti, ovvero: Legnano-Gravellona-Legnano (1905), Milano-Domodossola-Milano (1906), Milano-Erba-Lecco-Milano (1906), Brescia-Milano-Pollanza (1906), Milano-Alessandria-Milano (1906), Milano-Giovi-Milano (1906), Novi-Milano-Novi (1906), Milano-Verona (1906) Milano-Pontedecimo (1906).
Tutte corse gravitanti su Milano e la Lombardia, ma pure alcune che scendevano verso la riviera ligure. E furono proprio le “fresche” ceneri di questi “quadri unici”, uniti ad altri interessi che portavano direttamente verso il mare ed i fiori della Liguria, a spingere ulteriormente verso la nascita della Milano Sanremo, la futura “Classicissima di Primavera”.

I giornali organizzatori e sostenitori del pedale.
Nel 1906, l’impulso verso lo sport che poteva vivere su uno spirito olimpico, nato e cementatosi attraverso ben tre Olimpiadi già svolte, trovò nelle testate giornalistiche, non solo sportive, un riferimento preciso per giungere all’elevazione dei propri scopi. Di converso, la rivoluzione tecnologica che produceva altre occasioni per fare sport, donava, al mondo della comunicazione, allora quasi esclusivo patrimonio dei giornali, l’occasione per porsi nelle condizioni migliori al fine di lanciare taluni “frutti” della suddetta rivoluzione, fino ad aggiungere all’anima narratrice e alla cronaca, una sempre più fitta rete di rapporti col mondo economico.
In altre parole, si stavano creando copiosi spazi alla pubblicità diretta dei prodotti, oltre che dare temi di interesse di massa tali, da aumentare maggiormente le entità delle copie vendute. Lo sport ed i suoi eventi, dunque, rappresentavano un volano in rapida crescita, sul quale l’intervento organizzativo, in appoggio ed in simbiosi alle ancora poco diffuse e precarie società sportive, diveniva un fattore importante per la stessa sopravvivenza delle testate. Discipline come l’automobilismo, il motociclismo e il ciclismo, poi, avendo alla loro base un mezzo, stimolavano ancor più delle altre il rapporto ed il coinvolgimento col mondo imprenditoriale dei rispettivi settori, così fortemente intinti dell’esigenza di coinvolgere il più possibile le masse.
Per lo sport più in generale comunque, l’entrata in scena di questi partners, costituiva un passo peculiare, perché la crescita sportiva italiana, doveva necessariamente passare su organizzazioni adeguate e territorialmente presenti, spinte da volontà precise di propaganda, proselitismo e programmi che non si limitassero a dare qualche risposta allo spontaneismo.
Intanto, all’interno dei giornali, non tutti i redattori vivevano questo coinvolgimento con la medesima convinzione, ed in questo quadro, emergevano figure più peculiari e propulsive. Nella giovane Gazzetta dello Sport, che era na-ta nel 1896 e che, nel 1899, aveva scelto di proporsi sulla distinguibilissima carta rosa, i protagonisti della svolta verso il mondo sportivo, rispondevano ai nomi di Armando Cougnet, giornalista amministratore con un incredibile amore verso il ciclismo e Tullo Morgagni, redattore capo, nonché  progenitore di una fitta tela di rapporti con l’orizzonte dello sport. Grazie a loro lo stes-so ambiente dei costruttori delle “macchine a pedali”, come venivano definite allora le biciclette, non rimase insensibile, anche perché il giornale, sul quale il direttore Eugenio Camillo Costamagna raccoglieva al meglio le idee della redazione, sapeva coprire i periodi di lontananza dagli avvenimenti agonistici, con una serie di approfondimenti sul mezzo e le specifiche peculiarità, da rendere i “fogli rosa”, una palestra per lo stesso lancio commerciale dello strumento.
All’alba del 1907, dunque, dopo gli esaltanti successi riscossi dalla Gazzetta dello Sport, con la proposta e l’organizzazione delle prime due edizioni del Giro di Lombardia, la testata, pur non essendo la più importante e diffusa nemmeno a livello sportivo, era comunque divenuta, un sicuro riferimento del mondo del pedale.

La nascita della Milano Sanremo.
Il fatto progenitore della Milano Sanremo non partì dalle macchine spinte a motore umano, ma da quelle a motore. A metà della prima decade del ‘900, si era all’alba dello sviluppo industriale automobilistico. La realtà mostrava già una discreta consistenza, in termini di proposta e ricerca, per le vetture di grossa cilindrata, molte delle quali venivano definite turistiche. C’erano poi quelle che venivano dichiarate “da corsa” e correvano realmente, visto che esisteva già un calendario di gare.
Le auto di piccola cilindrata per lo più costruite da ditte minori, destinate alle fasce meno abbienti, ma comunque già con un certo tenore economico, andavano lanciate. Erano le cosiddette “utilitarie” sulle quali ogni passo di propaganda era ben accetto, anzi lo si favoriva. E fu proprio in questa direzione che “La Gazzetta dello Sport”, si fece convincere dall’Unione Sportiva Sanremese, guidata dall’Ingegner Francesco Sghirla, nell’organizzazione di una corsa automobilistica, riservata a queste vetture, che da Milano avrebbe rag-giunto Acqui e, da qui, la graziosa Sanremo, già allora meta turistica della migliore borghesia milanese.
La corsa fu un fiasco in tutti i sensi: solo due delle trenta vetture partenti, raggiunsero Sanremo un paio di giorni dopo e l’interesse generale scemò, di fronte alla poca consistenza dimostrata da quelle macchine, ancora ben lontane dal minimo accettabile. Era l’agosto del 1906.
La manifestazione però, aveva stuzzicato non poco la fantasia ed il pragmatismo di Tullo Morgagni (nella foto sotto), 
[Immagine: Tullo-morgagni-1-295x400.jpg]
il capo redattore della Gazzetta dello Sport, il quale, di fronte alla comunque forte volontà degli sportivi sanremesi e all’esigenza del giornale di cancellare quell’insuccesso con un’altrettanto forte risposta sportiva, pensò di mantenere valido l’itinerario che da Milano conduceva a Sanremo, ma con una corsa da riservare alle biciclette. Era convinto che il motore umano, si sarebbe comportato meglio rispetto a quello delle auto, come già il ciclismo dimostrava, attraverso diverse competizioni internazionali e lo stesso Giro di Lombardia, che il suo giornale organizzava. Ne parlò con Armando Cougnet, il quale, oltre ad essere l’Amministratore della testata, era pure il valente giornalista che trattava in primis lo sport del pedale. La sua risposta fu positiva.
Ben più freddo e perplesso, invece, fu il direttore Camillo Costamagna, che accettò di partire per la nuova avventura, più per la mera necessità di coprire il buco finanziario e d’immagine dell’esperienza automobilistica, che per effettiva convinzione. Non a caso il suo “sì” definitivo s’ebbe solo quando vennero portate a Milano le 700 lire che costituivano la dotazione della corsa, la maggior parte delle quali erano state raccolte in un grosso salvadanaio con il quale il giovane aiuto-segretario della Unione Sportiva Sanremese, Piero Perotti, aveva realizzato una pubblica questua attraverso l'intera città della riviera ligure.
Ad onor del vero in tutti persisteva un timore, come lo stesso Cougnet (foto sotto) dichiarò cinquanta anni dopo.
[Immagine: founders-Cougnet2.jpg]
 “L'idea – disse - fugato qualche dubbio, fu accolta. Si aprì semplicemente la carta del Touring Club al 200.000 e si tracciò il percorso che in meno di trecento chilometri congiungeva Milano a Sanremo attraverso Ovada e Voltri col Passo del Turchino, e nella primavera del 1907 lanciammo il bando internazionale della prima Corsa al Sole. A quella epoca non c'era assolutamente in noi la speranza e tanto meno la convinzione, che la competizione dovesse incontrare quella fortuna che poi la fece proclamare la prima corsa al mondo. Ma la Milano Sanremo conteneva in sé un grande potenziale di sviluppo che la fece progredire di anno in anno. Fu essa a crearsi il successo dal suo debutto, caratterizzato dalla partecipazione dei migliori corridori francesi e belgi in rappresentanza delle due maggiori Case: la Peugeot e l'Alcyon, che allora dominavano il mercato e l'arengo agonistico”.
Il 14 aprile 1907, iniziò così il corso ultracentenario della Milano-Sanremo: una nuova manifestazione per il pionieristico movimento del pedale, ma destinata a far colpo su tutta l’Europa, sia per l'impareggiabile scenario scelto, che per il suo autentico significato sul piano tecnico, nonché per la spinta ricevuta dalla prodigiosa riuscita che caratterizzò l'edizione inaugurale. Già alla vigilia della corsa si ebbe la dimostrazione di quanto l’attesa fosse cor-risposta, ed infatti, i manifestini propagandistici che la Gazzetta dello Sport aveva stampato per reclamizzare l'avvenimento, non mancarono di raggiungere lo scopo che i promotori s'erano prefissati, riuscendo ad accentrare l'interesse delle folle. Era tutto pronto e nel ritrovo dell’Osteria della Conca Fallata di MIlano, lungo il Naviglio Pavese, stava per partire quella che poi divenne la prima favolosa cavalcata di un drappello di uomini che si mostrarono superiori alle automobili, nel riuscire a raggiungere, pur partendo in una giornata di pioggia e di freddo, il bel sole della riviera ligure.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#2
Il percorso e le sue evoluzioni negli anni.
Le pietre miliari della “Sanremo” hanno resistito nel tempo, immutabili, e le località attraversate di anno in anno, ovvero Binasco, il ponte sul Po, Casteggio, Voghera, Tortona, Pozzolo Formigaro, Novi, Ovada, Passo del Turchino, Voltri, i Piani d'Invrea, Savona, i tre capi Mele, Cervo, Berta, Imperia, Arma di Taggia, hanno sicuramente tratto una popolarità notevolissima, unica forse, per il fatto di essere attraversate ad ogni primavera, principalmente il 19 marzo, dalla “corsa più bella del mondo”. Il percorso della Milano-Sanremo, infatti, ha avuto poche significative variazioni dal 1907 ad oggi. Fino agli anni cinquanta, il tratto di maggior difficoltà della corsa consisteva nel Passo del Turchino, dove spesso avevano luogo le azioni decisive.
Col passare degli anni però, l’asperità, si rivelò sempre meno risolutiva come d’altronde gli stessi tre capi lungo l’Aurelia. Per appesantire il percorso e produrre nuove variabili, nel 1960, fu inserita, a ridosso del traguardo, l’erta del Poggio e, dal 1982, prima della breve asperità finale, fu collocata la più consistente ascesa della Cipressa. Ciononostante, la Milano Sanremo, non ha fermato la sua china verso arrivi a ranghi compatti. Nel 2008, sono state introdotte altre modifiche al percorso classico: l’inserimento della salita delle Manie, fra Noli e Finale Ligure e lo spostamento dell’arrivo, da via Roma al lungomare Italo Calvino. Il chilometraggio complessivo è passato dai 294 ai 298 km. Il traguardo della “Classicissima”, è stato posto in via Cavallotti dal 1907 al ’48; via Roma (che è diventata simbolo d’arrivo) dal ’49 all’85; nuovamente in via Cavallotti dall’86 al ’93 e nuovamente ancora in via Roma   dal ’94 al 2007. Ma ora è arrivato il momento di raccontare…la corsa…..

1a Edizione: 14 aprile 1907
All'Osteria della Conca Fallata, in una giornata di pioggia e di freddo intensi, si ritrovarono 33 dei 60 corridori che avevano fatto pervenire l'adesione. La corsa partì, nella più piena consapevolezza di tutti, di quanto quella fosse una gara di sopravvivenza, ed a dimostrazione dei tempi eroici e di quel ciclismo estremo, si mosse un siparietto che vale la pena ricordare. La mamma di Giovanni Rossignoli, pavese ed uno dei migliori ciclisti italiani, sulla strada per Pavia, porse il suo ombrello al figlio, affinché non patisse le ingiurie di quella terribile giornata. Il ragazzo, non prese l'ombrello e tuttavia portò a termine la prova, dodicesimo dei quattordici che riuscirono a tagliare il traguardo di Sanremo. Nonostante i tanti assi stranieri, Giovanni Gerbi, che era considerato il solo peninsulare in grado di dare un nome italiano alla prima Milano-Sanremo, mise anche quella volta in atto la sua tattica preferita, quella dell'assalto a distanza, per mettere in difficoltà gli avversari. A Pozzolo Formigaro, su un acciottolato perfido, che mandò a gambe all'aria diversi componenti del non certo folto gruppo, Gerbi diede battaglia: la sua maglia rossa divenne, una volta di più, quella del tamburino della corsa e, in vetta al Turchino, in mezzo al nevischio, "Piciot" riscontrava già tre minuti di vantaggio su Ganna, Galetti e Garrigou, mentre Petit Breton, che aveva ceduto in salita, era a cinque minuti. Ma la grande impresa vagheggiata dal “Diavolo rosso” di Asti, inzuppata da una fatica di troppo, non trovò la concretizzazione sperata, ed a Savona, sull’italiano si riportò il fuoriclasse francese Gustave Garrigou che, nel frattempo, si era liberato della compagnia di Ganna e Galetti. Dietro, ad inseguire e prima dei due italiani citati, il solo Lucien Mazan, detto Petit Breton, che era stato per l’occasione ingaggiato dal direttore sportivo della Bianchi, Gian Ferdinando Tommaselli, al fine di correre la Milano Sanremo, sulle macchine (allora le bici, venivano di sovente definite così) della casa milanese, che erano le medesime di Gerbi. Proprio l’astigiano, avendo saputo dallo stesso Tommaselli, che il coéquipier francese era in rimonta, non diede alcuna collaborazione a Garrigou, che correva su Peugeot. E fu così che Petit Breton, con un tenacissimo inseguimento, raggiun-se da solo i due di testa sulla discesa del Capo Berta e la fuga andò a buon fine. Rassegnato alla sconfitta, poiché si sapeva meno veloce dei due campioni stranieri, Gerbi, cercò allora di favorire la vittoria del compagno di marca, col quale aveva raggiunto un accordo sulla divisione dei premi. Ed infatti, agli ottocento metri dall'arrivo, lontani dagli sguardi dei più, quando Garrigou con un violento scatto cercò di sorpassare Gerbi che gli stava davanti, questi con un brusco scarto, lo chiuse e lo costrinse ad interrompere l'azione. I due praticamente si fermarono a bisticciare, anzi quasi a raggiungere la rissa e fu così facile, per Petit Breton, tagliare vittorioso il traguardo di via Cavallotti.
Garrigou, raccontano le cronache, s'infuriò non poco e non si calmò del tutto, neppure quando venne informato che la giuria aveva deciso di assegnare a lui il secondo posto, poiché Gerbi, che il transalpino visto l’impossibile primo posto aveva lasciato andare, per l'irregolarità commessa, era stato declassato al terzo. Un epilogo dunque non certo molto fortunato per la prima Milano Sanremo, ma la corsa aveva ugualmente riscosso un grande consenso nell’osservatorio internazionale.

Sul vincitore.
E' stato il primo ciclista a segnare un’epoca. A contribuire alla sua leggenda, aldilà delle grandi imprese sportive, anche la sua storia particolare di emigrante e la morte precoce, avvenuta in guerra, a soli 35 anni, nel 1917. Nato il 18 ottobre 1882, a Plessé, vicino a Nantes, Lucien Mazan, ad otto anni, emigrò a Buenos Aires, dove la famiglia aveva aperto una orologeria. Qui, si trasformò ben presto in fattorino, conoscendo la bicicletta come peculiare mezzo di lavoro e di crescente passione.
[Immagine: sdUgBgFn_400x400.jpg]

Nel giovane Lucien, arrivò dunque naturale la voglia di cimentarsi in quelle corse su pista che, nel continente americano, erano, di fatto, il ciclismo praticamente unico di quell'era. Quando gli stimoli divennero inalienabili, per correre, fu costretto ad inventarsi lo pseudonimo, poi divenuto immortale, di “Petit Breton”, affinché al padre, che non lo voleva corridore, non giungessero gli echi dei suoi immediati e crescenti successi. Il genitore scoprì l'imbroglio del figlio quando ormai, avviandosi ai diciotto anni, era già benissimo in grado di mantenersi da so-lo, in virtù dei proventi della sua notorietà. Senza il fisico del velocista, ma coi soli nervi ed un'intelligenza fuori dal comune, Petit Breton si permetteva di lasciarsi dietro via via i migliori velocisti del continente.
Decise così di tornare in patria, alla ricerca di quella dimensione internazionale impossibile in Argentina. Giunto in Fran-cia nel 1902, ed immediatamente chiamato "l'Argentino", divenne da subito un riconoscibile dei velodromi, portando i suoi baffi neri a sfrecciare sui più, ma il suo fisico era troppo distante dal necessario, per competere negli sprint mondiali coi geni velocistici di Jacquelin, Taylor, Ellegard, Arend e Poulain. Li poteva battere in tornei, ma non gli poteva riuscire di superarli in successione, in una competizione come i campionati mondiali. Petit Breton però, fascinoso, colto ed elegante nel privato, sapeva trasformarsi in una furia sulla bici, ed era troppo intelligente per non capire quali fossero gli idonei confini della sua capacità. Allungò così le distanze, trasformandosi in fondista e stradista, divenendo ben presto corridore, tanto completo, quanto ardimentoso.
Nel 1902, sulla tremenda Bol d'Or, una gara pazzesca, che imponeva 24 ore ininterrotte in sella, giunse secondo, ma nel 1904 vinse stracciando tutti, percorrendo ben 852 chilometri. Nel 1905 si cimentò al Tour de France, giungendo quinto nella classifica finale. Pochi giorni dopo, il 24 agosto, sulla pista parigina di Buffalo, stabilì il Record Mondiale sull'Ora, togliendolo all'americano Hamilton, percorrendo 41,110 chilometri. L'anno successivo migliorò la sua prestazione al Tour de France, giungendo quarto e si schierò sulle grandi classiche di un giorno, vincendo la Parigi-Tours. Nel 1907 arrivò solo sul traguardo della prima Milano-Sanremo della storia e si aggiudicò il suo primo Tour, vincendo pure due tappe. L'anno successivo bissò il successo nel Tour de France, dominandolo con fare tanto perentorio quanto spettacolare. Vinse quattro tappe, annichilendo le resistenze dei più forti stradisti dell'epoca, ignaro dei pericoli delle strade, fino a trasformarsi, specie nella discesa del Ballon d'Alsace, in un ardito equilibrista.
Suggellò il suo dominio di stagione vincendo, in perfetta solitudine, la Parigi-Bruxelles, quindi il Giro del Belgio, dove aggiunse al successo finale, pure quattro tappe. La sua furia agonistica ed il fare da personaggio opposto nella vita d'ogni giorno, lo elessero definitivamente beniamino del pubblico.
Dal 1909, quando vinse il Giro di Catalogna, iniziò il suo lento declino, forse dovuto agli sforzi a cui s'era sottoposto per arrivare ad eleggersi leggenda-rio. Ancora qualche acuto, come nella tappa del Giro d'Italia 1911 conclusasi a Torino e tanti ritiri, forse perché non sopportava di vedersi davanti atleti che un tempo dominava. Un incidente sul fronte delle Ardenne durante la Prima Guerra Mondiale, gli procurò ferite tali da non riprendersi più. Morì a Troyes, il 20 dicembre 1917. Fra i tanti ricordi di questo grande, ci restano pure invenzioni geniali, come quella della borsetta portatile da legare al sellino con gli attrezzi di prima necessità, per affrontare le autentiche avventure delle gare del tempo. O quelle scellerate condotte di corsa, che avevano lo scopo di intimidire psicologicamente gli avversari.
Ordine d’arrivo:
1° Lucien Petit-Breton (Fra) Km 288 in 11h4'15" media di 26.014 kmh
 2° Gustave Garrigou (FRA) a 1'  
3° Giovanni Gerbi (ITA) "
4° Luigi Ganna (ITA) a 32' 45"
5° Carlo Galetti (ITA) a 32' 57"
6° Eberardo Pavesi (ITA) a 1h 7' 45"
7° Giovanni Cuniolo (ITA) a 1h 36' 45"
8° Philippe Paurat (FRA) a 1h 53' 45"
9° Clemente Canepari (ITA) a 1h 54' 1"
10° Amleto Belloni (ITA) a 1h 54' 4"
11° Mario Gaioni (ITA) a 2h 8' 45"
12° Giovanni Rossignoli (ITA) a 2h 39' 45"
13° Guido Rabajoli (ITA) a 3h 42' 15"
14° Alfredo Rota (ITA) "
Note: 33 partiti, 14 arrivati.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#3
4a Edizione: 3 aprile 1910
Partiti 63, arrivati 4! Quella del ’10, fu la più sconvolgente e drammatica delle Milano-Sanremo. Pioggia nel tratto iniziale, una ventina di centimetri di neve sul Turchino, bufera lungo la Riviera e per tutta la giornata un freddo intensissimo: questo fu il quadro nel quale si mossero quegli autentici eroi in bicicletta che, il 3 aprile 1910, presero il via dalla solita Conca Fallata. Dalla pioggia, dal fango, dalla neve emerse sino al Turchino, il grande belga Van Hauwaert, un tipo che pareva si trovasse a suo agio in mezzo a tante difficoltà. Alle sue spalle, poco dopo il superamento del celebre passo: Lapize e  Paul, seguiti da Christophe e dal trio italiano Ganna, Albini e Pavesi. Tutti  gli altri, già staccatissimi, se non addirittura ritirati. Avvantaggiato dalla sua qualità di ciclocrossista, che al tempo ancora correva solo per diletto, Christophe iniziò il suo forcing. Su quelle strade divenute impossibili riuscì ad avere il sopravvento raggiungendo e staccando tutti, ma dopo essersi portato in testa alla corsa, non seppe insistere: si fermò in un cascinale per riscaldarsi e rifocillarsi. Lo seguirono anche Van Hauwaert e Paul, ma nessuno dei due si decise poi a riprendere la competizione. Invece Christophe, fattosi dare indumenti nuovi e indossati un paio di pantaloni di fustagno opportunamente adattati alla bici da corsa, si gettò all'inseguimento di Pavesi, Ganna e Albin, i quali con caparbietà, avevano proseguito il loro penoso calvario. L'inaspettata rincorsa del francese, venne facilitata dal ritiro, prima di Pavesi, quindi di Albini e dal cedimento di Ganna. A Varazze, a 115 km dal traguardo, Christophe restò solo nella tormenta della via Aurelia e puntò verso Sanremo. Solo, senza avversari e senza spettatori, il favoloso Eugene, ebbe più volte il timore di essere finito fuori strada. La sua pazzesca impresa ebbe termine dopo 12 ore e 24' (la media sui km. 289,3 risultò di km. 23,330) e vale la pena rammentare che gli altri tre superstiti, Giovanni Cocchi, Giovanni Marchese ed Enrico Sala, giunsero a Sanremo rispettivamente staccati di 61, 77 e 126 minuti. L'ordine di arrivo ufficiale, riporta questi quattro nomi, classificati in tempo massimo, ed aggiunge che Ganna, giunto secondo, fu giustamente squalificato perché fece qualche chilometro del percorso sulla vettura del Commendator Ferrari. Per irregolarità simili (evasero il controllo), furono poi tolti dall’ordine d’arrivo anche Piero Lampaggi (che era giunto 5°) e Sante Goi (7°).

Sul vincitore.
[Immagine: ob_d2f7ce_r-e-christophe-j-b-louvet-25-636x900.jpg] 
Nato a Parigi il 22 gennaio 1885, professionista dal 1904 al 1926. Una carriera lunghissima, in gran parte dovuta ad un fisico eccezionale al solo sguardo e ad una versatilità che gli ha consentito di risparmiare preziose energie, alternando gli impegni, senza mai scendere da una evidenza che segnò un'epoca.
Eroe sfortunato di un paio di Tour, quando a vittoria ormai certa, guai meccanici lo cos-trinsero a perdere ore nella riparazione del mezzo. Nel 1913. ebbe un incidente nella discesa del Tourmalet, si sobbarcò una decina di chilometri a piedi, prima di trovare quel soccorso consistente negli arnesi per intervenire e, soprattutto, quei pezzi di ricambio che, però, fu costretto a montare sulla bicicletta da solo, come da regolamento dei tempi. Morale: perse 4 ore che gli costarono la Grande Boucle.
Ancor più beffardo il suo destino nel 1919. Dopo esser stato il primo corridore della storia a vestire la maglia gialla, inventata da Desgrange per simboleggiare il primato nella classifica generale del Tour (avvenne nella Grenoble-Ginevra del 19 luglio), si trovò nella penultima tappa, abbondantemente primo, a rivivere lo stesso guaio del Tourmalet. Anche in quella occasione, rottura del mezzo e due ore di lavoro per la riparazione. Finì la Grande Boucle al terzo posto.
Ma "Il Gallo" o "Cri-cri", come veniva soprannominato, per la cura con la quale seguiva il suo aspetto e per la capacità di intenerire cuori e corpi femminili, non va ricordato solo per le sfortune. La sua fu una carriera davvero luminosa. Nel 1910 vinse la Milano-Sanremo, una corsa che amava ricordare e che considerò sempre la più bella della sua carriera. Nel 1920 conquistò oltre alla Parigi-Tours, anche la Bordeaux-Parigi, classica che bissò l'anno dopo. Notevoli i suoi successi nel Thropèe Polymultipliée del 1914 e nella Parigi Calais del 1909. Al Tour conquistò complessivamente tre tappe, tutte nel 1912. Forte su pista, dove era un assoluto richiamo, trovò però nel ciclocross il terreno d'elezione, collezionando ben 7 titoli nazionali (allora non c'erano i mondiali della specialità), al punto di esser definito "il campionissimo del ciclismo invernale".

Ordine d’arrivo:
1° Eugène Chiristope (Fra) Km 289,3 in 12h 24' 0" media 23.331 kmh
2° Giovanni Cocchi (ITA) a 1h1'
3° Giovanni Marchese (ITA) a 1h17'
4° Enrico Sala (ITA) a 2h 6'


7a Edizione: 30 marzo 1913
Quella del ‘13 fu una “Sanremo” importante, soprattutto per i riferimenti statistici che avrebbe poi fatto emergere. Venne vinta dal belga Odiel Defraye e, fino al 1934, nessun altro straniero riuscì più ad imporsi, mentre la media, 31,143 kmh, resistette come tempo record, sino al 1929. Dal punto di vista spettacolare, risultò una delle più belle e combattute. Sotto la spinta della battaglia, che venne sferrata contro il vincitore del Tour, Octave Lapide, vittima di una foratura. La corsa prese una cadenza sostenutissima e la mantenne nonostante le ripetute cadute di cui furono vittime quasi tutti gli altri maggiori protagonisti della prova, ivi compreso Defraye, ed il compagno di squadra Mottiat, che giunsero assieme sul viale Cavallotti dopo essersi sbarazzati, sul Capo Berta, della compagnia di Calzolari, Gremo ed Heusghem. Anche la fortuna, è il caso di farlo notare, può servire per vincere una grande corsa. Soprattutto, è necessario, non averla contro. Sempre.

Il ritratto del vincitore.
Nato a Rumbeke il 14 luglio 1888, deceduto a Bierges il 21 agosto 1965. Completo. Professionista dal 1909 al 1914 e dal 1919 al 1924 con 15 vittorie. Un campione, ma pure uno degli atleti più strani e misteriosi dell’epoca pionieristica del pedale. Poche corse, belle vittorie, anche se non in grande numero. Un tipetto, non di grande stazza e sempre molto attento a tenere curati baffi, ciuffo, pettinatura e non molto ciarliero.
[Immagine: 421px-Odile_Defraye+kopfoto.jpg]
Un comportamento nel complesso ben lungi da quello che si usa pensare per un ciclista di quei tempi e, ad onor del vero, pure uno capace di soffrire meno degli altri, come dimostrano i suoi copiosi ritiri, specie al Tour de France, proprio la gara che l’ha fatto entrare nell’immortalità ciclistica, nonché nel cuore più profondo di quel Belgio che non ha mai smesso di mettere il ciclismo al primo posto delle attenzioni sportive dei cittadini. Sornione e quasi inosservato nei suoi anni giovanili, si segnalò imperiosamente vincendo, nel 1908, da dilettante, la corsa più importante, il Giro delle Fiandre: a quel tempo non ancora entrata nelle dimensioni di corsa per l’elite del ciclismo.
L’anno successivo, il primo da professionista, il ragazzetto Odiel Defraye (il cui cognome corretto era Defraeye), si impegnò in due corse, i Campionati delle Fiandre, dove fu battuto in volata da Wancour e la Parigi Roubaix, che chiuse 14°, battuto più che dagli avversari, da una lunga serie di incidenti e forature. Nel 1910, ancora sconosciuto o sottovalutato dai più, corse pochissimo, ma vinse quei Campionati delle Fiandre che gli erano sfuggiti per poco l’anno prima. Il suo ruolino di ciclista strano e poco considerato continuò anche nel 1911, nonostante il colpaccio inferto vincendo il Campionato Nazionale su strada. Per il resto, solo un 6° posto nel Giro del Belgio e un insignificante 17°, nella Parigi Tours. Con la maglia di campione belga addosso, fu costretto a correre con più attenzione e disponibilità la stagione del 1912. Ed infatti chiuse 5° la Parigi Roubaix, finì 3° nell’ Etoile Caroloregienne e fu autore di un autentico show al Giro del Belgio, dove vinse quattro delle sette tappe e la classifica finale con un vantaggio enorme sul secondo, il francese Henri Pelissier. Nonostante l’imperiosa condotta nel giro a tappe principale del proprio paese e terzo assoluto al mondo, verso Defraye continuava a persistere diffidenza. In altre parole, nonostante le due principali vittorie nelle corse fiamminghe e valloni, a baffetto Odiel, non avrebbero fatto correre il Tour de France.
Sennonché, ad intervenire in suo suffragio, fu l’importatore della bicicletta “Alcyon”, la casa che lo aveva ingaggiato e per la quale correva. Il distinto si-gnore delle celeberrime bici azzurre, minacciò rappresaglie commerciali se Defraye fosse stato escluso dalla formazione e nessuno osò frapporsi ad un simile interlocutore. Il corridore, da parte sua, ripagò come meglio non si poteva l’importatore dell’Alcyon. Il Tour era giunto nel 1912 alla decima edizione, una tappa importante per quella grande e faticosissima corsa, la sola che allora laureasse campioni e desse onori imperituri. Il programma prevedeva la partenza per il 30 giugno e l'arrivo per il 28 luglio, con un percorso di 5.319 km, suddiviso in sole 15 tappe. Ed era proprio il giro della Francia, perché partendo da Parigi, puntava direttamente su Dunkerque per discendere verso sud, raggiungendo Nizza e la Costa Azzurra dopo aver attraversato le Alpi. Quindi, dopo le spossanti tappe pirenaiche, il Giro avrebbe percorso tutta la sponda atlantica della Fran-cia fino a Le Havre, per rientrare infine nella capitale.
[Immagine: 002_4469-13.f1673347023.jpg]
Defraye prese conoscenza del percorso e dei 130 corridori che vi avrebbero partecipato, fra i quali si trovavano campioni francesi di nome, come Christophe, Garrigou, Alavoine, nonché il belga Busse. In quella edizione della Grande Boucle egli fu sempre tra i protagonisti.
Primo nella tappa Dunkerque-Longwy di 388 km; secondo nella Longwy-Belfort di 331 km; terzo nella Belfort-Chamonix di 334 km.; secondo nella Grenoble-Nizza di 323 km; primo nella Nizza-Marsiglia di 334 km; primo nella Perpignano-Luchon di 289 km; terzo nella Luchon-Bayonne di 326 km; secondo nella La Rochelle-Brest di 470 km.; terzo nella Brest-Cherbourg di 405 km. Vinse il Tour, ed ottenne un trionfo clamoroso. Quella, fu l’ultima edizione a punti della grande manifes-tazione francese.
L'anno successivo, Defraye s'impose nella già divenuta classica di primavera, la Milano-Sanremo, con una media di km. 31,143, stabilendo quindi un nuovo record (che resisterà fino al 1929) e si ripresentò alla partenza del Tour, ma non riuscì a bissare la leggendaria impresa dell'anno precedente. Si ritirò nel corso della 6a frazione, il tappone pirenaico, quando era in testa alla classifica con 5 minuti di vantaggio su Christophe e 10 su Busse. Nel 1914, cominciò il suo declino. Durante quell’anno, vinse una frazione del Giro del Belgio, fu secondo nella tappa di Bayonne al Tour de France, dove si ritirò nuovamente. Dopo la guerra tornò a correre, ancor meno di prima in fatto di partecipazioni e continuò a ritirarsi ai Tour de France (sia nel ’19 che nel  ’20). Nel 1921 il suo canto del cigno a Namur, nella quinta tappa del Gi-ro del Belgio. Si schierò alla partenza della Grande Boucle del ’24, ma ancora una volta si ritirò nel corso della 6° tappa. Poi scomparve definitivamente dal campo delle corse ciclistiche.

Ordine d’arrivo:
1° Odiel Defraye (Bel) Km 286,5 in 9h11'58" media 31,143 kmh
2° Louis Mottiat BEL “
3° Ezio Corlaita ITA a 4'08"
4° Angelo Gremo ITA “
5° Alfonso Calzolari ITA “
6° Jean Alavoine FRA a 17'
7° Camillo Bertarelli ITA a 17'04"
8° Angelo Erba ITA a 17'24"
9° Gustave Garrigou FRA a 20'55"
10° André Blaise BEL “
11° Lauro Bordin ITA a 21'54"
12° Jules Masselis BEL a 23'48"
13° Giovanni Barziza ITA “
14° Emilio Chironi ITA a 30'28"
15° Antonio De Francesco ITA “
16° Lorenzo Saccone ITA a 31'50"
17° Giuseppe Pifferi ITA a 35'02"
18° Clemente Canepari ITA “
19° Giovanni Bassi ITA a 36'11"
20° Luigi Ganna ITA a 49'26"
21° Giovanni Cervi ITA “
22° Giosué Lombardi ITA a 55'
23° Giovanni Roncon ITA a 56'
24° Michele Robotti ITA “
25° Eligio Bianco ITA a 1h04'
26° Domenico Cittera ITA a 1h10'
27° Rinaldo Spinelli ITA “
28° Mario Bonalanza ITA “
29° Enrico Sala ITA “
30° Augusto Rho ITA “
31° Alberto Vigna ITA “

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#4
11a Edizione: 14 aprile 1918
Gli echi della guerra e il tempo pessimo, produssero un numero di partenti, solo 33 (molto meno della metà degli iscritti), che ha un solo pari nella storia della classicissima. Belloni prese subito il comando delle operazioni e lo fece con tanto impegno che a Pavia restarono in testa alla corsa soltanto una dozzina di ardimentosi.
Ma di lì a poco si compì la vendetta di Costante Girardengo: nella maniera più clamorosa. Ben preparato e deciso a prendersi una rivincita sulla dura sconfitta patita proprio per mano di Belloni l’anno prima, “l’Omino di Novi”, realizzò un'impresa ineguagliata: giunse a Sanremo dopo una fuga solitaria di 200 chilometri. A Tortona “Gira” scattò, gli altri non offrirono una valida reazione e il tentativo si tramutò, appunto, in un volo epico, il cui prestigio sorpassò, anche per i particolari momenti del Paese, in un avvenimento capace di sconfinare dalle stesse vicende del ciclismo. Alle spalle di Girardengo, solo il tenacissimo Belloni si battè col cuore in gola per arrivare secondo, ma a ben 13 minuti! Agostoni, terzo, ne prese 59, Corlaita e Costa, giunsero ad un’ora e 37'; Giacchino a 2 ore e 52’; Vertemati, l'ultimo, a 4 ore 2'. Erano le dieci di sera quando, costui, esausto, vide le luci di Sanremo, ma fu  ugualmente soddisfatto, poichè altri 25 corridori, partiti assieme a lui alle sei del mattino, s'erano perduti cammin facendo. Non si vive di sole vittorie…

Il ritratto del vincitore.
Con questo atleta, tanto piccolo quanto di "ferro", incontriamo il primo grande campione italiano di ciclismo, per lo meno nei significati moderni che si danno al termine campione. Costante aveva tutto per meritarsi l'elevazione degli aggettivi. Fu l'applaudito, l'amato, l'idolatrato degli anni successivi alla prima guerra mondiale. Nato a Novi Ligure il 18 marzo 1893, Girardengo esordì tra i professionisti a 19 anni, nel 1912, d'autorità, per essersi piazzato secondo al Giro di Toscana pur essendo dilettante da poco più di un anno. Di lì, aprì le porte alla sua leggenda, fino a divenire da subito "l'Omino di Novi" per la sua statura, ed in seguito, il "Campionissimo", termine sul quale, oltre trent'anni dopo, si legheranno con fascino antropologico ancora maggiore le luminose grafie agonistiche e culturali di Fausto Coppi.
Astuto, veloce, buon passista ed egregio scalatore, Costante Girardengo seppe cogliere oltre cento successi sui viali di una carriera infinita lunga ben 24 anni. La sua notorietà raggiunse livelli di vera eccezionalità per gli echi dei non certo tanti media del suo tempo.
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Anche quando, ormai giunto sul viale del tramonto, dovette subire cocenti sconfitte dal più giovane e diretto avversario, Alfredo Binda, sentì sempre attorno a sé il calore di un pubblico che mai l'abbandonò. Un affetto che Girardengo si era ben meritato, lottando con genero-sità e determinazione in tante battaglie. La sua com-pletezza gli consentì di possedere numerose variabili nella ricerca del successo e quando la forza e la grinta non erano sufficienti, il primo campionissimo del nostro ciclismo, sapeva togliere dal suo virtuoso cilindro una furbizia incomparabile.
Primeggiò praticamente in tutte le classiche italiane, a cominciare dalla prediletta Milano-Sanremo, dove conquistò sei vittorie, ed una settima (che l'avrebbe equiparato a Merckx), quella del 1915, che gli fu tolta perché il furbo "Omino di Novi" trovò il modo di "accorciare" il percorso.
Di primaria nota, anche i suoi tre successi nel Giro di Lombardia, le cinque vittorie nella Milano-Torino, i nove (!) trionfi nel Campionato Italiano, i cinque nel Giro dell'Emilia, i quattro nel Giro del Veneto, i tre nel Giro del Piemonte, i due nel Giro di Toscana e gli altrettanti in quello di Romagna.
Vinse il Giro d'Italia nel 1919 e '23, ed a questi successi, aggiunse la vittoria in ben trenta tappe. In occasione del suo secondo trionfo al Giro, nel 1923, sulle dieci frazioni della corsa, ne vinse otto! Un primato che ha resistito per oltre ottanta anni e gli è stato tolto nel 2004,  da Alessandro Petacchi.
All’estero, forse anche perché vi andò di rado, Costante Girardengo non colse gli allori che il suo pubblico si aspettava. Tuttavia, nel 1922, vinse il prestigioso Giro del Lemano e, nel 1924, si affermò nel Gran Premio Wolber, a quei tempi considerato il campionato mondiale ufficioso. Nell'occasione, sullo stupendo scenario del Parco dei Principi, a Parigi, mise in fila Henri Pélissier, beniamino di Francia e il campione belga, Felix Collier. Quanto basta perché il suo nome fosse conosciuto dai tifosi d'oltralpe e dai critici stranieri. Partecipò ad un solo Tour de France, nel 1914, alla tenera età di 21 anni. Finì 4° nella prima tappa conclusasi a Le Havre, ma due giorni dopo si ritirò.
Si comportò meglio nel primo campionato mondiale, corsosi nel 1927 ad Adenau, sul celeberrimo circuito del Nurburgring. Qui, Costante, già trentaquattrenne, si piegò al solo Binda. Fu una giornata che non ha pari nella storia ciclistica iridata, in quanto i primi cinque furono tutti italiani: dietro Binda e Girardengo, finirono infatti, Piemontesi, Belloni e Orecchia.
La grande resistenza sportiva dell'Omino di Novi continuò ad allungarsi con sempre evidenti segni vincenti fino al 1935, quando, dopo anni di militanza anche su pista, riuscì, a quasi quarantatrè primavere, a vincere la Arsoli-Roma, tappa del Giro delle 4 Province. Un risultato che dimostrava la rara grandezza di quel minuscolo atleta dalle gambe di ferro.
Cessata l'attività, divenne industriale di biciclette e salì in ammiraglia. Come Commissario Tecnico azzurro guidò Bartali al successo al Tour de France 1938. Diresse, inoltre, proprie squadre professionistiche di buon livello. Nelle sue formazioni hanno corso grandi corridori, su tutti, Rik Van Steembergen. Costante Girardengo s'è spento nella natia Novi Ligure, il nove febbraio 1978, ad 85 anni.

Ordine d’arrivo:
1° Costante Girardengo (Ita) Km 286,5 in 11h48'  media 24,280 kmh
 2° Gaetano Belloni ITA a 13'
3° Ugo Agostoni ITA a 59'
4° Ezio Corlaita ITA a 1h37'
5° Costante Costa ITA “
6° Carlo Giacchino ITA a 2h52'
7° Luigi Vertemati ITA a 4h02'


22a Edizione: 19 marzo 1929
Alfredo Binda era un campione troppo grande e troppo orgoglioso per rassegnarsi a ciò che aveva esternato nella delusione della sconfitta, l’anno prima. Nel giorno di San Giuseppe (fu quella la prima volta che la Sanremo venne disputata nella data che poi diverrà tradizionale) del 1929, realizzò un'impresa possibile solo ai super.
Cercò di sfoltire le file degli 89 partenti sul Turchino (con lui rimasero Negrini, Morelli, Rinaldi ed Olivieri), ed il resto lo fece sullo “strappo” della Colletta: il tenacissimo Negrini restò alla sua ruota, ma anche questi venne eliminato da una caduta a Varazze, per cui Binda, in maglia tricolore, restò solo a cento chilometri dal traguardo e per tutto quel lungo tratto, poté godere degli onori del trionfo. Le propizie condizioni atmosferiche e l'eccezionale performance del corridore di Cittiglio, partorirono la realizzazione della nuova media record della “Sanremo”, 31,628 kmh, che andava a cancellare quella stabilita da Defraye, sedici anni prima. Gli avversari non furono alla sua altezza: Frascarelli fu secondo, a 8'30"; Caimmi, terzo, a 21 minuti.
[Immagine: alfredo-binda-scaled.jpg]
Sul vincitore.
Cinque Giri d’Italia, uno, non corso perché pagato per ….troppa superiorità, tre mondiali, 118 corse vinte, dicono già tutto? No. Alfredo Binda è stato di più. La sua storia è un solco che si sublima perfettamente col ciclismo eroico, dove le strade già facevano la differenza e lui, principe di quel pedale, possedeva una forza tale, da apparire corridore di cinquanta anni dopo.
Alfredo era forte su tutti i terreni e non era nemmeno cannibale, perché sovente si limitava a vincere senza dominare come avrebbe potuto. Una figura lontana e, per quel ciclismo così ancora poco mondializzato, non sempre ricordata come meriterebbero i suoi valori straordinari, potrei dire unici.     
Nato a Cittiglio (Varese) l’11 agosto 1902, divenne corridore quasi per caso, dopo essersi trasferito in Francia per lavorare. Là faceva lo stuccatore, ma osservava gli avvenimenti con attenzione, come del resto fece sempre, fino all’ultimo dei suoi giorni. Il richiamo della bicicletta lo raggiunse dopo aver staccato amici e compagni di lavoro, nonché Primo, il fratello maggiore che aveva tentato senza successo di correre per davvero. Nel 1921, un emigrante italiano del Piemonte, vedendolo così bravo, gli prestò la sua bicicletta da corsa affinché provasse l’agonismo, ed Alfredo rispose da par suo, vincendo alla prima occasione, ma fu squalificato per non aver risposto al secondo appello di controllo: era troppo inesperto per sapere queste cose. Si rifece subito vincendo spesso e dimostrando di avere una marcia decisamente in più, quando la strada saliva. La voglia di ritornare in Italia e di fare del ciclismo un mestiere lo spinsero, ancora da perfetto sconosciuto nel suo vero Paese, a trasferirsi in bicicletta da Nizza a Milano, con lo scopo di prendere parte al Giro di Lombardia, la regione sua di nascita e di cuore. Un viaggio estenuante che sciolse lo scetticismo degli organizzatori nell’accettarlo. E così poté partire per la corsa, nonostante avesse nelle gambe già centinaia e centi-naia di chilometri. Si comportò così bene che la Legnano lo assunse per il Giro del 1925, con lo scopo di fare da gregario a Brunero, già vincitore delle edizioni del 1921 e ’22.   
La risposta di Binda sulle strade, fu subito quella del corridore di razza e vinse il Giro alla prima occasione. Durante tutta la corsa, ad ogni segno vincen-te il suo entusiasmo lo portò a festeggiare come se avesse concepito un nuovo ed illuminato mondo.
[Immagine: 1486810724964.jpg]
Un episodio memorabile lo fece vivere al termine della vittoriosa tappa Roma-Napoli, quando, per esprime la propria gioia suonò una cornetta presa in prestito da un musicante della banda presente per festeggiare i corridori. Alla fine del 1925, si ripeté in un successo di prestigio: vinse il Giro di Lombardia. Nel 1926, trionfò nel Giro del Pie-monte. Al Giro d’Italia dopo esser caduto nella prima tappa ed aver perdu-to una quarantina di minuti, seppe recuperare giorno dopo giorno, fino a giungere secondo a Milano.
Ancora inesperto, Binda iniziò a far tesoro di tutto quello che un anziano come Pavesi gli diceva ed a forgiare le sue convinzioni.
Proprio nel ’26, si verificò uno dei suoi aneddoti più celebri: le 28 uova bevute la mattina prima di partire per il Gi-ro di Lombardia, poi vinto con quasi 30 minuti di distacco sul secondo e coi ritardatari, ancora in corsa, osser-vati da Alfredo alla stazione per Varese, quando ormai aveva preso la via del ritorno. Il 1927, segnò il suo dominio, pressoché totale al Giro d'Italia.
Vinse 12 tappe su 15 e, ovviamente, fu primo a Milano.
Alla prima edizione dei Campionati del Mondo su strada, lungo il difficile circuito del Nurburgring, in Germania, divenne il primo iridato, praticamente davanti all’intera squadra italiana. Rivinse poi il Giro di Lombardia. La stagione successiva, considerata anni dopo da Alfredo come la sua peggiore, lo vide ancora vincente al Giro d’Italia (con sette tappe vinte), ma ai mondiali di Budapest, la difficile convivenza con Girardengo, lo spinse ad una gara incolore. Nel 1929 rivinse il Giro d'Italia, ma a Milano il pubblico lo fischiò per il suo strapotere. E fu da questo episodio che gli organizzatori iniziarono a me-ditare un provvedimento unico nella storia del Giro: pagarlo per non partecipare. Ed infatti, all’edizione del 1930, Binda, non fu al via. Al pubblico si disse che era assente per preparare il Tour, ma, di fatto, Alfredo aveva accettato, sottobanco, il cospicuo rimborso di 22.500 lire (l’ammontare del montepremi per il vincitore della corsa e il successo in alcune tappe).  Al Tour partecipò, ma si ritirò per incidenti e cadute. Si rifece ai mondiali di Liegi, dove vinse la sua seconda maglia. Il 1931 s’aprì con la vittoria nella Milano Sanremo, mentre al primo Giro d’Italia dove si assegnava la maglia rosa, fu costretto al ritiro per una caduta che gli impedì di partecipare anche al Tour. Ripresosi, dominò il Lombardia, lasciando il secondo classificato a 18 minuti. L’anno successivo, il primo delle radiocronache, la vittoria più grande di Binda fu sicuramente il Campionato del Mondo, disputato a Roma. Learco Guerra intanto, era diventato un valido e temibile avversario dell’uomo dei “Garun” (la definizione di Alfredo sui garretti, come fattore di forza), ma nel ’33, il cittigliese riuscì ugualmente a dominare il suo quinto Giro d'Italia. A Milano lo attesero festosi per quella che poi sarà l'ultima sua grande vittoria. Le stagioni seguenti, infatti, segnarono l'inevitabile declino, dopo ol-tre 10 anni di vittorie memorabili. L'addio definitivo alle corse, nel 1936, dopo una rovinosa caduta nel corso della Milano Sanremo. Successivamente, Alfredo Binda, da grande corridore si trasformò in altrettanto grande condottie-ro, guidando la Nazionale Italiana agli storici successi di Coppi e Bartali al Tour. L’uomo che fu pagato per non correre, morì il 19 luglio 1986.

Ordine d’arrivo:
1° Alfredo Binda (Ita) Km 286,5 in 9h03'30" media 31,628 kmh
2° Leonida Frascarelli ITA a 8'30"
3° Pio Caimmi ITA a 21'30"
4° Adriano Zanaga ITA “
5° Colombo Neri ITA “
6° Giuseppe Pancera ITA “
7° Alessandro Catalani ITA “
8° Michele Orecchia ITA “
9° Piero Bestetti ITA a 24'
10° Carlo Moretti ITA “
11° Angelo Beretta ITA “
12° Marco Giuntelli ITA a 25'10"
13° Giovanni Briano ITA “
14° Giovanni Pizzarelli ITA a 30'15"
15° Aldo Rivano ITA “
16° Filippo Torti ITA a 32'30"
17° Learco Guerra ITA a 36'30"
18° Riccardo Proserpio ITA “
19° Pietro Chesi ITA “
20° Aristide Cavallini ITA “
21° Pietro Mori ITA a 39'
22° Carlo Rovida ITA a 40'
23° Albino Binda ITA “
24° Angelo Oliveri ITA “
25° Silvio Olmo ITA a 41'30"
26° Heiri Suter SUI a 49'30"
27° Giovanni Poloni ITA “
28° Giacomo Fassio ITA a 50'50"
29° Amulio Viarengo ITA “
30° Aldo Bonacina ITA a 1h00'30"
31° Giacomo Tubini ITA “
32° Cesare Strappazzon ITA “
33° Luigi Spinelli ITA “
34° Mario Brochetta ITA “
35° Georges Antenen SUI a 1h12'30"
36° Carlo Porzio ITA a 1h22'30"
37° Umberto Merati ITA a 1h23'30"
38° Giovanni Vitali ITA a 1h26'30"
39° Silvio Baretto ITA a 1h36'30"
40° Luigi Cecilli ITA “
41° Giuseppe Fraschetta ITA a 1h43'30"
42° Mario Fraccaroli ITA a 2h02'30"
43° Alfredo Beltrame ITA a 2h21'30"
44° Guido Crovesi ITA a 2h22'00"
45° Guido Bombardieri ITA a 2h24'30"
46° Sante Calori ITA a 2h27'
47° Carlo Cassola ITA a 2h27'30"

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#5
25a Edizione: 20 marzo 1932
Nel 1932 Alfredo Bovet, lo “svizzero” di Castellanza, mise a segno una brillante affermazione, che fu la felice fusione delle sue qualità, della sua forma e della sua intelligenza tattica. Mentre Binda, Guerra, Di Paco e compagni badavano a controllarsi lungo la breve rampa della Doganella, tra Varazze e Celle, il giovane Bovet mise in difficoltà i suoi compagni di fuga e giunse al traguardo di via Cavallotti, con 3' di vantaggio su Binda, che comandava gli inseguitori. La vittoria servì a Bovet per far sapere che era nato, sì, a Losanna da genitori elvetici, ma che questi, trasferitisi in Italia per ragioni di lavoro, gli avevano fatto prendere la cittadinanza italiana, ed aveva già adempiuto agli obblighi di leva nell'esercito italiano.
Fra i 146 partenti dell'edizione (record), che festeggiò le nozze d'argento, una patetica figura: Giovanni Gerbi, che era stato uno dei protagonisti della “Sanremo” nel giorno della sua prima disputa. Il “diavolo rosso” di Asti, ave-va 47 anni e, tuttavia, resistette sino al traguardo: giunse ottantunesimo (su 96 arrivati) con un ritardo di circa un'ora e mezzo rispetto a Bovet, che s'era imposto alla strepitosa media oraria di km. 34,432, nuovo record della Sanremo. Ebbene, Gerbi compì il percorso in un tempo inferiore di una ora e venti minuti a quello da lui impiegato nel 1907, quando aveva ventuno anni. I mezzi, le strade, l’alimentazione e qualcosa d’altro, evidentemente, stavano cambiando…

Il ritratto del vincitore.
Nato il 6 maggio 1909 a Cully (Svizzera) e deceduto il 15 gennaio 1993 a Renens (Svizzera). Passista scalatore. Professionista dal 1930 al 1945 con venti vittorie.
[Immagine: 1246435099BOVET%20Alfredo%20-%203.jpg]
Uno dei pochissimi casi di straniero divenuto italiano, in un ciclismo che testimonia, anche se certi echi nazionalistici odierni non lo ammetteranno mai, quanto gli italiani in rapporto alle nascite, siamo probabilmente il popolo più emigrante della storia. Il romanzo del pedale, coi suoi oltre trentamila professionisti, è pieno di corridori francesi, belgi, svizzeri, lussemburghesi ecc. di origine e spesso nascita italiana.
Bovet è, ripeto, uno dei pochissimi a cammino inverso. Di origine elvetica in entrambi i genitori, nato a due passi da Losanna, il giovane Alfredo, in Svizzera, oltre alle scuole, iniziò pure a praticare il ciclismo, ma poi, assieme al fratello Enrico (in futuro anch’egli corridore), più giovane di due anni, si trasferì con la famiglia per ragioni di lavoro del padre a Castellanza, nel varesino. Acquisì la cittadinanza italiana nel 1928 e svolse il Italia il servizio militare come del resto il fratello Enrico. Ciclisticamente, divenne italiano dalla massima categoria dei professionisti, della quale entrò a far parte nel settembre 1930. Buon passista, nelle giornate di vena anche scalatore di nota, non disdegnava le azioni da lontano e fu proprio grazie ad una lunga e temeraria fuga, che riuscì a cogliere il suo successo più prestigioso, nella Milano-Sanremo 1932. Nell’anno del debutto, pur passando a stagione in gran parte consumata, fece in tempo a vincere la Coppa Zanardelli. Nel 1931, fu davvero un protagonista, vincendo la Coppa Bernocchi, anche se poi la gara non venne omologata, indi la Coppa Crespi, la Coppa Bourgeugnon, la Targa Legnano, la Coppa San Geo, La Coppa Catena Regina, finì secondo nella Coppa Zanardelli, terzo nella Milano Modena, quinto nel Giro di Lombardia e tredicesimo nel suo primo Giro d’Italia.
Nell’anno del grande successo alla Sanremo, vinse pure la Firenze Roma per squadre, finì secondo dietro Archambaud, nel prestigioso Gran Premio delle Nazioni a cronometro e secondo nella Tre Valli Varesine. Si piazzò in diverse tappe del Giro d’Italia anche se lo chiuse con un modesto 45° posto. Di ottimo livello anche il suo 1933. Vinse la Tre Valli Va-resine, andò in Spagna e qui colse il successo nella corsa a tappe più importante, il Giro di Catalogna (la Vuelta non c’era ancora), nonché in due tappe dello stesso; indi sempre nell’amica terra catalana trionfò nel Criterium di Barcellona.
Importanti anche i suoi piazzamenti: finì secondo nella Sanreremo, terzo nel Campionato Italiano e quarto nel Giro d’Italia dove si piazzò in una miriade di frazioni. Col 1934 iniziò una lenta decadenza, anche se non mancarono gli acuti e continuò a piazzarsi nelle principali corse. Nel ’35 vinse i Criterium di Cossato e Busto Arsizio, due prove su pista vale-voli per il Giro della Provincia di Milano; chiuse secondo nella prestigiosa Reuss-Barcellona-Reuss dietro a Bartali e quinto nella “amica” Milano Sanremo.  Nel ’36, vinse il GP d’Apertura a Milano e giunse quarto nel Campionato Italiano. Col 1937, iniziò a dedicarsi alla pista dove ottenne discreti ri-sultati nel mezzofondo, classificandosi 2° nei campionati italiani '37, '40, '42 e '45 e disputando anche i Campionati Mondiali del 1937, dove venne eliminato nelle batterie.
Su strada si segnalò nuovamente alla Sanremo giungendo terzo nella velocissima edizione del ‘38. Provò a ritornare anche dopo la guerra, ma le sue migliori stagioni erano lontane, ed appese la bicicletta al chiodo.

Ordine d’arrivo:
1° Alfredo Bovet (Ita) Km 284,5 in 8h15’45” media 34,433 kmh
2° Alfredo Binda ITA a 3'
3° Michele Mara ITA “
4° Leonida Frascarelli ITA “
5° Luigi Barral FRA “
6° Raffaele Di Paco ITA a 6'15”
7° Charles Pélissier FRA “
8° Antonio Pesenti ITA “
9° Agostino Bellandi ITA “
10° Michele Orecchia ITA “
11° Albert Buchi SUI “
12° Walter Blattmann SUI “
13° Gaetano Belloni ITA a 6'35”
14° Eugenio Gestri ITA a 6'55”
15° Alfred Buchi SUI “
16° Giovanni Del Conte ITA a 7'05”
17° Luigi Luisoni SUI a 7'10”
18° Pietro Fossati ITA “
19° Aristide Cavallini ITA “
20° Giulio Fatticcioni ITA a 14'15”
21° Allegro Grandi ITA “
22° Armando Zucchini ITA “
23° Aleardo Simoni ITA “
24° Aleardo Menegazzi ITA “
25° Mario Cipriani ITA a 18'35”
26° Renato Scorticati ITA a 20'15”
27° Armando Jori ITA “
28° Sirio Magagnini ITA a 21'15”
29° Nicolo Mammina ITA a 35'
30° Virgilio Zuffi ITA “
31° Giovanni Vitali ITA “
32° Edoardo Molinar ITA “
33° Felice Gremo ITA “
34° Antoine Erne SUI “
35° Remo Bertoni ITA “
36° Enrico Mara ITA “
37° Angelo Mara ITA a 36'
38° Angelo Rinaldi ITA “
39° Giovanni Bianchini ITA “
40° Augusto Zanzi ITA a 39'
41° Mario Bianchi ITA “
42° Theo Heimann SUI “
43° Mario Brochetta ITA “
44° Carlo Concato ITA “
45° Hans Salzmann SUI “
46° Vasco Bergamaschi ITA “
47° Carlo Rovida ITA “
48° Severino Canavesi ITA “
49° Gianbattista Gamba ITA “
50° Mario Lavazza ITA a 40'
51° Carlo Galluzzi ITA a 44'
52° Silvio Olmo ITA “
53° Ernest Terreau FRA “
54° Albert Wullschleger SUI “
55° Fernand Cornez FRA “
56° Carlo Moretti ITA “
57° Tütel Wanzenried SUI a 45'
58° Umberto Merati ITA “
59° Francesco Gulli ITA a 48'
60° Ettore Ciolli ITA a 53'
61° Karl Litschi SUI “
62° Silvio Gracchini ITA “
63° Luigi Tasselli ITA “
64° Arturo Crippa ITA a 1h01'
65° Giuseppe Carrara ITA “
66° Stefano Guzzon ITA “
67° Merlando Parati ITA “
68° Giovanni Gaioni ITA “
69° Guido Battistini ITA “
70° Paolo Bianchi ITA “
71° Giacomo Fassio ITA a 1h08'
72° Giuseppe Medolago ITA “
73° Eraldo Fornari ITA a 1h19'
74° Nicola Rapetti ITA “
75° Secondo Magni ITA “
76° Alfredo Balconi ITA “
77° Alfredo Potenti ITA a 1h21'
78° Giuseppe Puccetti ITA “
79° Mario Cairo ITA a 1h25'
80° Natale Amoretti ITA a 1h27'
81° Giovanni Gerbi ITA a 1h29'
82° Marco Giuntelli ITA “
83° Oreste Barbera ITA “
84° Emilio Cecchini ITA “
85° Giuseppe Vercellino ITA “
86° Giovanni Corregia ITA a 1h34'
87° Vittorio Acerbi ITA a 1h36'
88° Augusto Rho ITA “
89° Eugenio Vigotti ITA “
90° Mario Pozzi ITA “
91° Alberto Mongiano ITA “
92° Angelo Barcellandi ITA “
93° Enrico Bonatti ITA “
94° Giuseppe Marchesini ITA “
95° Giuseppe Valente ITA “
96° Enrico Refraschini ITA “
97° Ambrogio Perego ITA “
98° Pietro Actis ITA “

28a Edizione: 17 marzo 1935
Davvero una grande edizione. In una giornata da lupi, con freddo, pioggia e neve i 202 partenti (record e prima classica mondiale a riuscire a raggiungere la doppia centinaia), scrissero un'altra entusiasmante pagina. Grandi prodezze e nuovi interpreti di gran pregio alla ribalta: Gino Bartali e Giuseppe “Gepin” Olmo su tutti. Il campione d'Italia Guerra, offrì lo spettacolo di una rincorsa giudicata impossibile, causa una caduta in quel di Voltri, assieme a Puppo, nella quale rimediò circa otto minuti di distacco nei confronti di un quintetto composto da Montesi (in testa sin dal Turchino), Bini, Olmo, Martano e Cipriani. Tuttavia la “Locomotiva” riuscì a recuperare trascinandosi alla ruota Bartali e Demuysère. Fu sul capo Cervo che il neofita Gino Bartali si fece conoscere, sbriciolò il gruppo di testa e perfezionò la sua opera staccando anche Guerra e Cipriani sul Capo Berta. Solo e con quasi due minuti di vantaggio il corridore fiorentino avrebbe meritato di trionfare a Sanremo, sennonché un guasto meccanico lo costrinse a procedere con un rapporto troppo esiguo per cui non poté sottrarsi alla rincorsa di Guerra, Cipriani e Olmo. Si arrivò così alla volata a quattro, nella quale “Gepin” Olmo, uno dei più classici pedalatori del ciclismo italiano, ebbe la maglia abbastanza facilmente.

Il ritratto del vincitore.
Nato a Celle Ligure (SV) il 22 novembre 1911, deceduto a Milano il 5 marzo 1992. Passista veloce. Professionista dal 1932 al 1940, con 41 vittorie.
“Gepin” per gli amici e i familiari, rappresenta una figura cardine del ciclismo degli anni ’30, per i suoi valori atletici di primo piano e per quel suo essere personaggio che, fra le sue variabili, è stato pure innovatore. Pedalatore raf-finato, con una straordinaria capacità di alternare agilità e potenza e con un mix di qualità che, purtroppo, sono state mortificate da un eccessivo legame verso le gare italiane, senza quella giusta destinazione internazionale che l’avrebbe sicuramente proiettato ad una tangibilità maggiore. Anche in salita non era male, soprattutto, essendo molto intelligente, sapeva come difender-si. Caratterialmente particolare, è stato uno dei primi corridori capaci di leggere le rivalità e le debolezze degli avversari, lavorando sulla bici con lo scopo di portarli “fuori giri” fisicamente e mentalmente. Inoltre, aspetto non da poco, soprattutto se legato al periodo nel quale ha corso, è stato probabilmente il primo a curare il suo aspetto, uno dei primi a tenersi a portata il pettine, ed a giocare questo suo senso dell’ordine verso l’esterno, l’osservatorio e quei pochi media dell’epoca. Quanto basta per definirlo un corridore riferimento, capace pure di stare quasi un anno senza correre per riposarsi e di sviluppare allenamenti che erano spesso studiati, come fosse l’allenatore di se stesso. Una figura ricca di spunti, che non poteva fallire il dopo carriera, ed infatti, s’è saputo costruire un avvenire da imprenditore di successo, tanto estroso quanto riflessivo, tanto orizzontale quanto capace di sfruttare al meglio, la sua grande capacità di osservare e di elaborare. Ce ne fossero oggi di corridori così, avremmo sicuramente un ciclismo migliore.
[Immagine: Foto-Olmo-Storia.jpg]
Giuseppe “Gepin” Olmo, cominciò a correre ancora molto giovane e molto prima di quello che poteva considerarsi l’esordio. Andando a scuola con la bicicletta dello zio, aveva incontrato sulle strade colui che poi lo lanciò e gli fu accanto lungamente durante la carriera: il conterraneo, nonché ottimo corridore durante i tempi eroici di Girardengo, Giuseppe Olivieri. Dopo un rapido "rodaggio" tra gli esordienti, si mise in gran luce vincendo, da dilettante, nel 1931, il Campionato Italiano della categoria e, poi, giungendo secondo ai Mondiali. Quella rassegna iridata fu l’unica nella storia a disputarsi a cronometro. Una prova lunga ben 172 chilometri. Gepin fu battuto dal solo danese Hansen. Nel 1932, anno olimpico, pur non essendo uno scalatore, si ripose all’attenzione vincendo il Giro del Sestriere, col celebre colle affrontato dal versante più duro, quello di Cesana. Pur essendo un passista veloce, seppe tenere le ruote dei tre compagni coi quali aveva preso il largo e li superò in volata. La salita dunque, pur non essendo il suo terreno preferito, non gli faceva paura. E qui l’attenzione della critica giunse a determinare, e non lo abbandonerà mai in questo senso, le performance di Gepin, come dovute essenzialmente alla sua grinta, in quanto giudicato fisicamente, seppur ben dotato, non all’altezza dei più forti. Si trattava di una visione del tempo, ancora purtroppo presente, ovvero quella di voler stereotipare il fisico del ciclista secondo alcuni parametri e farli divenire legge. Le realtà sono sempre più sfumate e contemplano variabili difficili da vedere e conoscere, spesso anche con le moderne strumentazioni, figuriamoci a quei tempi.
Nel caso di Omo, certo la grinta c’era, eccome se c’era, ma il suo fisico asciutto e ben equilibrato, azionato da quella “testa” che rappresenta da sempre il prodromo essenziale dei successi sportivi, sapeva divenire macchina ottimale, in grado di sorreggere anche le parti meno adatte alla normale possibilità fisica. E c’era quell’istantaneo ragionamento, rappresentato dall’estro e dalle intuizioni, che lo portavano ad essere imprevedibile, a trovate e improvvisazioni anche comportamentali, soprattutto alla luce di quei tempi che, a volte, gli rendevano l'astio degli altri corridori. Comunque, tornando alla veloce disamina della sua carriera, i brillanti risultati conseguiti da dilettante, gli valsero la convocazioni per le Olimpiadi di Los Angeles ‘32. I Giochi prevedevano una prova a cronometro sulla distanza di cento chilometri. Qui vinse, contro ogni pronostico, il piacentino Pavesi, davanti ad un altro italiano, il veneto Segato. Olmo fu solo quarto, alle spalle di Hansen, ma il suo piazzamento consentì alla nazionale di vincere la speciale classifica a squadre. All’indomani delle Olimpiadi, non ancora ventunenne, passò professionista in seno alla Bianchi e vinse subito una gran corsa come la Milano Torino, lasciando sbalorditi i due nemici,  Binda e Guerra, nonché gli addetti ai lavori. Già con la fama di possibile vincente, corse la sua prima intera stagione da prof, nel 1933, e si dimostrò davvero una ruota pronosticabile.
Erano gli anni ruggenti di Binda, di Guerra, di Bovet, di Piemontesi e di un manipolo di stranieri, con in testa Jeff Demuysère, che lasciavano ben poco sperare ai novellini. Ma non certo per uno come Gepin, che vinse la Coppa Val Maira e le tappe Pisa-Firenze e Riccione-Bologna al Giro d’Italia.
Nel 1934, poggiò la stagione sulla “corsa rosa” e il suo ruolino migliorò marcatamente. Al Giro vinse tre tappe (a Bologna, Bassano del Grappa e, l’ultima, di Milano), ed a dimostrazione del suo protagonismo, alle tre vittorie aggiunse sette piazzamenti al secondo posto di frazione e due terzi. Chiuse poi quarto nella classifica generale. Strepitoso il suo 1935, dove praticamente in tutte le corse finì entro i primi cinque classificati. Iniziò l’anno facendo sua la Milano Sanremo (uno dei più giovani vincitori della storia della Classicissima), indi vinse il GP Cinquantennale dell’UVI, il Circuito dell’Appennino (che non era una simil kermesse), la Prova di Selezione per i Mondiali, i GP di Pavia, Sampierdarena e Borgomanero. Al Giro d’Italia vinse 4 tappe (a Riccione, Montecatini, Cuneo e Asti), finì due volte secondo e due volte terzo di tappa e chiuse la classifica generale al terzo posto.
Nell’anno, come detto, aggiunse un’infinità di piazzamenti nelle classiche nazionali e si riservò, per il 31 ottobre, un vero e proprio colpaccio. Sulla pista del Vigorelli, migliorò il record dell'ora, portandolo a 45,090 km. Era la prima volta che un italiano diventava recordman, ed era il primo atleta al mondo, a superare la barriera dei 45 chilometri. Dopo la sua impresa, a dimostrazione dell’eco mondiale della prestazione, Herny Desgrange scrisse: "Il giovane italiano ha proiettato nel nostro cielo sportivo il sole di un ammirevole record".
Consacrato big internazionale, Giuseppe Olmo, puntò sul 1936 come l’anno della sua consacrazione al Giro d’Italia. Allo start di Milano, Bartali, che era un fuoriclasse, lo guardò con malcelata apprensione. Gepin, pur non essendo scalatore, faceva paura. Gino forzò l'andatura in tutte le occasioni dove la strada portava all’insù, ma la sua vittoria su Olmo, a fine Giro, si consumò in 2’36”: a quei tempi non certo un vantaggio ampio e non fu per niente facile. Sui 3.766 km suddivisi in 21 tappe, Gepin ne vinse 10, precisamente la Milano-Torino di 169 km., la Grosseto-Roma di 248 km., la Roma-Napoli di 228 km., la Rieti-Terminillo di 20 km a cronometro, la Firenze-Cesenatico di 141 km., la Padova-Venezia di 40 km a cronometro, la Venezia-Legnago di 148 km., la Legnago-Riva di 139 km. e l'ultima, la Salsomaggiore-Milano di 235 km. Ma in quell'anno di grazia, Olmo si aggiudicò pure il Giro dell'Emilia, la Coppa Mater, il GP di Ferrara e, soprattutto, conquistò il Campionato Italiano assoluto.
Dopo una stagione così dispendiosa e dopo averlo opportunamente dichiarato, il corridore di Celle Ligure, si concesse un anno di riposo: nel ’37 avrebbe corso senza pretese solo il Giro d’Italia. Fu conseguente e prima di ritirarsi, giusto per dimostrare che la sua Bianchi era sempre calda, vinse la tappa di Arezzo, dopo aver colto due secondi posti ed un terzo. Ritornò, senza dannarsi e senza partecipare al Giro, ma sempre straordinariamente efficace, nel 1938. Lasciò subito il segno, vincendo la sua seconda Milano Sanremo, alla media record di 38,518 kmh, che resisterà fino al 1949. A contorno di quel prestigiosissimo successo, Gepin trionfò nel Giro della Campania e in una tappa dello stesso, indi vinse  la Torino Ceriale, ed i GP di Broni e di Padova.
Nel ’39, decise di passare all’attività su pista ed iniziò a preparare il suo “dopo carriera”: nell’anno vinse solo il GP di Savona. Passato completamente al mezzofondo, nel 1940, s'impossessò del Titolo Nazionale. Ma ormai la tragedia della guerra era imminente: il cannone tuonava da un pezzo su quasi tutta l’Europa e le corse ciclistiche si facevano più rare, perché i problemi d’allora erano ben altri. Trascorsero gli anni della bufera, con essi anche la giovinezza di "Gepin" e, quindi, la possibilità di riprendere a correre. Lasciò le strade e le piste e trasferì la sua intelligenza sulla via dell’imprenditoria. Alla produzione di biciclette a suo nome, iniziata a Celle Ligure fin dalla fine del 1938, Olmo, affiancò la produzione di pneumatici e tubolari, adattandosi, per i primi tempi, a un capannone diroccato, alla periferia di Milano. Anche quel settore con gli anni crebbe e divenne una valida attività produttiva. Alla sua morte, avvenuta nel 1992, Gepin Olmo, lasciò a suo fratello e ad altri membri della sua famiglia, la conduzione di numerosi impianti industriali. Anche qui è stato un campione.

Ordine d’arrivo:
1° Giuseppe Olmo (Ita) Km 281,5 in 7h48'39" media 36,046 kmh
2° Learco Guerra ITA “
3° Mario Cipriani ITA “
4° Gino Bartali ITA “
5° Alfredo Bovet ITA a 1'54"
6° Aldo Bini ITA “
7° Antonio Negrini ITA “
8° Rinaldo Gerini ITA “
9° Joseph Demuysère BEL “
10° Giuseppe Martano ITA a 4'29"
11° Osvaldo Della-latta ITA a 5'51"
12° Adrien Buttafocchi FRA a 8'51"
13° Alfred Weck FRA “
14° Faustino Montesi ITA “
15° Giovanni Conti ITA “
16° Aurelio Scazzola ITA a11'20"
17° Vasco Bergamaschi ITA “
18° Renato Scorticati ITA
19° Karl Altenburger ALL a 13'21"
20° Romolo Rossi ITA “
21° Ezio Cecchi ITA “
22° Enrico Puppo ITA a 13'32"
23° Riccardo Castiglioni ITA a 13'36"
24° Bruno Fontana ITA a 17'46"
25° Umberto Guarducci ITA “
26° Léon Louyet BEL a 20'51"
27° Antonio Andretta ITA “
28° Luigi Bisio ITA “
29° Orlando Teani ITA “
30° Carlo Rovida ITA “
31° Augusto Zanzi ITA “
32° Augusto Introzzi ITA a 24'34"
33° Leontino Del Gallo ITA a 28'21"
34° Vittorio Dragomani ITA a 30'51"
35° Giulio Rossi ITA a 33'01"
36° Ruggero Balli ITA  
37° Ermanno Moser ITA
38° Michele Benente ITA
39° Francesco Ghiglietti ITA a 37'31"
40° Giovanni Rossi SUI a 44'21"
41° Enrico Bovet ITA  
42° Egidio Terragni ITA  
43° Edoardo Stretti ITA a 46'41"
44° Silvio Olmo ITA a 55'21"
45° Ferruccio Astolfi ITA a 1h05'26"
46° Carlo Oria ITA a 1h33'21"
47° Giuseppe Dall'argine ITA
48° Luigi Oberti ITA a 1h49'21"
49° Marcellino Canciani ITA  

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#6
40a Edizione: 19 marzo 1949
Per i quaranta anni della “Classicissima di primavera” giunsero allo start 202 corridori, di cui 73 stranieri e con 8 nazioni rappresentate. In una giornata trionfale per partecipazioni, coinvolgimenti e con un giovane, Vincenzo Torriani, responsabile dell’organizzazione, che portò tante novità nel contorno di partenza, ed un arrivo nuovo in via Roma a Sanremo, la festa della Gazzetta dello Sport, poté contare anche sul bel tempo. Si attendeva il grande protagonista, o la grande edizione sul piano tecnico. Arrivarono entrambi.  
In molti pensarono a Coppi, ed il Campionissimo, in quella gara che si stava consumando velocissima, per oltre 250 chilometri fece la comparsa. A Varazze, in testa un gruppo di 70 unità, o meglio, il gruppo.
Ma a Diano Marina, al comando, con circa un minuto di vantaggio, c’era il francese Edouard Fachleitner (figlio di un francese d’origine divenuto austriaco e, poi, emigrato nell’Istria orientale allora italiana, nonché di madre croata e con la famiglia riemigrato in mezzo alle Alpi della Provenza), che era era scattato sul Capo Mele. Ai piedi del Capo Berta la situazione era più o meno la stessa e qui, Coppi, entrò in scena. La sua progressione che trovò in Ortelli l’oppositore più deciso, fu straordinaria. In vetta al Capo, la maglia bianco celeste di Fausto, passò con un centinaio di metri su Fachleitner e Ortelli, ma al traguardo di via Roma, diventarono 4'17". Si cercava l’impresa di un singolo e questa era arrivata.
Poi si calcolò la media di Coppi: 39,397 kmh, nuovo record della corsa!
[Immagine: La-leggenda-di-Fausto-Coppi_01-2.jpeg?re...C641&ssl=1]
Ordine d’arrivo:
1° Fausto Coppi (Ita) Km 290,5 in 7h22'25" media 39,397 kmh
2° Vito Ortelli ITA a 4'17"
3° Fiorenzo Magni ITA “
4° Italo De Zan ITA  
5° Vincenzo Rossello ITA
6° Edouard Fachleitner FRA  
7° Fermo Camellini ITA  
8° Ernest Sterckx BEL a 5'46"
9° Maurice Desimpelaere BEL  
10° Silvio Pedroni ITA a 5'50"
11° Ugo Fondelli ITA  
12° Guido De Santi ITA  
13° Adolfo Leoni ITA a 6'01"
14° Oreste Conte ITA  
15° Gino Bartali ITA
16° Nedo Logli ITA  
17° Ferdinand Kübler SUI
18° Louison Bobet FRA
19° Valerio Bonini ITA
20° Pierre Brambilla FRA
21° Giulio Bresci ITA
22° Robert Castelin FRA
23° Pino Cerami BEL
24° Georges Claes 1 BEL
25° Serse Coppi ITA
26° Giordano Cottur ITA  
27° Giuseppe Doni ITA
28° Luciano Maggini ITA  
29° Sergio Maggini ITA
30° Alfredo Martini ITA
31° Bruno Pasquini ITA  
32° Francesco Patti ITA  
33° Vittorio Rosello ITA  
34° Pierre Scalbi FRA  
35° Selvino Selvatico ITA  
36° Settimo Simonini ITA  
37° Renzo Soldani ITA  
38° Gérard Van Beek (NED) a 10'01”
39° Virgilio Salimbeni ITA  
40° Albert Ramon BEL  
41° Alfredo Pasotti ITA  
42° Michele Motta ITA a 10'16”
43° Henri Massal FRA  
44° Olimpio Bizzi ITA  
45° Leo Castellucci ITA a 11'45”
46° Emilio Croci Torti SUI  
47° Antonin Rolland FRA a 12'51”
48° Aldo Tosi ITA  
49° Léon Jomaux BEL  
50° Arie Vooren NED  
51° Luciano Frosini ITA  
52° Marcello Paorieli ITA  
53° Angelo Fumagalli ITA  
54° Désiré Keteleer FRA  
55° Carlo Rebella ITA  
56° Egidio Marangoni ITA  
57° Danilo Barozzi ITA  
58° Ezio Cecchi ITA 
59° Apo Lazarides FRA a 15'15”

Nota: seguono altri 59 corrodori con distacchi pari e superiori a quello di Lazarides.


41a Edizione: 18 marzo 1950

Il botta e risposta tra Bartali e Coppi a Sanremo, si concluse nel 1950, con la vittoria insperata che il “vecchio”, indomabile campione toscano, riuscì a realizzare battendo in volata cinquanta avversari tra i quali il campione del mondo Rik Van Steenbergen, alla cui ruota, abilmente, Gino rimase sino al momento in cui, con un impetuoso guizzo sulla sinistra di via Roma, sbucò dal gruppo per imporsi nettamente. “A Sanremo un boato: Bartali”, fu il titolo più espressivo che salutò quella strepitosa affermazione.
Con una punzonatura alla quale accorsero seimila tifosi, si diedero appuntamento 210 corridori, nuovo record della corsa e di tutte le classiche in linea. Una giornata ideale a livello atmosferico e, grazie alla festosità della partenza, nella quale si poteva toccare con mano la fantasia portata alla corsa da Vincenzo Torrioni, il modo migliore per scacciare l'"incubo Van Steenbergen", l'ormai popolare Rik, il belga scovato da Girardengo, al via con la maglia iridata. La corsa ebbe lungamente un andamento tranquillo, rotto al rifornimento di Savona, dove fuggirono il belga Frans Gielen e Livio Isotti, che arrivarono ad avere tre minuti di vantaggio. Sul Capo Cervo però, l’italiano Isotti, tentò la fuga solitaria, sciogliendo di fatto, le possibilità sue e del fiammingo di riuscire a portare a Sanremo l’iniziativa.
Sul Berta, sfruttando una foratura di Coppi, Bartali scattò violentemente, obbligando Van Steenbergen ad un affannoso inseguimento, ma ad Oneglia, il gruppo, composto da 50 uomini, si riunì. Tentarono ancora il francese Fachleitner, il belga Raymond Impanis e l'indomito Fiorenzo Magni, ma il volatone a ranghi pressoché compatti fu inevitabile.
Qui, Bartali, in grande forma, si dimostrò il più intelligente e furbo: non mollò la ruota di Van Steenbergen e quando vide che il cambio di questi, faceva le bizze, partì energico, conquistando così il suo quarto successo nella Classicissima. A 35 anni e mezzo, un segno ulteriore del suo essere fuoriclasse.
[Immagine: progetto-senza-titolo-36.jpg?resize=1140%2C641&ssl=1]

Ordine d’arrivo:

1° Gino Bartali (Ita) Km 282 in 7h 18' 52 alla media di 38.554 km/h
2° Nedo Logli ITA  
3° Oreste Conte ITA  
4° Fiorenzo Magni ITA  
5° Louis Caput FRA  
6° Alfredo Pasotti ITA  
7° Hendrik Van Steenbergen BEL  
8° Aldo Tosi ITA  
9° Vito Ortelli ITA  
Paul Neri ITA  
Marius Mutero FRA  
Pierre Molineris FRA  
Alain Moineau FRA  
Giovanni Meazzo ITA  
Alfredo Martini ITA  
Nello Lauredi FRA  
Ferdinand Kubler SUI  
Amedeo Paolinetti ITA  
Silvio Pedroni ITA  
Donato Zampini ITA  
Giacomo Zampieri ITA  
Mario Vicini ITA  
Renzo Soldani ITA  
Settimio Simonini ITA  
Widmer Servadei ITA  
Fritz Schaer SUI  
Mario Ricci ITA  
Kleber Piot FRA  
Raymond Impanis BEL  
Frans Gielen BEL  
Luigi Casola ITA  
Elio Busancano ITA  
Giulio Bresci ITA  
Valerio Bonini ITA  
Bortolo Bof ITA  
Louis Bobet FRA  
Armando Barducci ITA  
Giancarlo Astrua ITA  
Giorgio Albani ITA  
Giuseppe Cerami BEL  
Robert Chapatte FRA  
Bruno Giannelli ITA  
Paul Giacomini FRA  
Luciano Frosini ITA  
Edouard Fachleitner FRA  
Giuseppe Doni ITA  
Prosper Depredomme BEL  
Jean De Gribaldy FRA  
Emilio Croci-Torti SUI  
Fausto Angelo Coppi ITA  
51° Livio Isotti ITA  
52° Pierre Cogan FRA  
53° Leo Castellucci ITA
54° Raymond Lucas FRA a 0h 0' 37"
seguono altri corridori con distacchi maggiori. Partiti 210 arrivati 123.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#7
5a Edizione: 19 marzo 1954
Con il 1954 incominciò l'interminabile serie di affermazioni di campioni stranieri, ai quali gli italiani non riuscirono ad opporre una valida resistenza. È storia lontana, ma ancora ben impressa in chi ha più di 50 anni. Allo start di Piazza Diaz, a Milano, si presentarono in 219: ancora un nuovo record, dunque. Stavolta però, la giornata fu di quelle da tregenda, con pioggia, freddo e fango che entrava nelle carreggiate asfaltate. Era convinto di battersi per un piazzamento il grande Rik Van Steenbergen, e grande, nonché piacevolissima, fu la sua sorpresa allorché, dopo l'arrivo, scoprì di essersi aggiudicato la volata per il primo e non per il quarto posto, come aveva creduto. Da Laigueglia, infatti, era in atto una fuga di Ockers, Remy e Filippi. I tre parevano irraggiungibili e Coppi, inviò i tecnici della Bianchi a consigliare il suo giovane compagno Filippi, affinché si risparmiasse per la volata. Questi però, ces-sò addirittura la collaborazione minima e la fuga venne sventata dal gruppo, senza che Van Steenbergen se ne avvedesse, a soli 1200 metri dal termine. Tagliato il traguardo da vincitore, il belga finì fra le braccia di Girardengo, il suo anfitrione italiano, il quale, alla vigilia della Sanremo, aveva compiuto 61 anni. Sul volto pieno di fango del gigante buono Van Steenbergen, spunta-rono due lacrimoni.

Sul vincitore.
[Immagine: 1.jpg]
Nato ad Arendonck (Belgio) il 9 settembre 1924. Alto 1.86, peso forma kg. 83. Un gigante con il sorriso sulle labbra, un uomo semplice che ha sempre amato la vita per le sue componenti più elementari: la famiglia ed i bambini. E di figli ne ha avuti cinque. Monumento del ciclismo belga, il suo nome vuol dire: montagna di pietra. Un eccellente albo d'oro, con le trincipali classiche; unica lacuna la mancanza di una grande corsa a tappe. Avrebbe potuto vincere il Giro d'Italia se non fosse stato eccessivamente prudente nelle discese dell’edizione del 1951, quando si piazzò secondo alle spalle di Fiorenzo Magni. Riuscì a conquistare il suo terzo Campionato del Mondo (eguagliando così Binda e Merckx) a distanza di otto anni dal primo, ottenuto nel 1949. Ben undici partecipazioni al "mondiale" in quindici anni. Professionista dal 1943 al 1966 con 303 vittorie su strada e 664 su pista, che lo pongono al 3° posto, dietro Merckx e Van Looy, nella classifica dei plurivittoriosi di tutti i tempi. 40 vittorie in Sei Giorni, ne ha disputate 134. La sintesi: 3 Campionati del Mondo (1949-1956-1957); 3 Campionati nazionali (1943-1945-1954); 2 Giri delle Fiandre (1944-1946); 2 Parigi-Roubaix (1948-1952); 2 Freccia Vallone (1949-1958); Parigi-Bruxelles (1950); Milano-Sanremo (1954); Giro di Argentina (1952); Giro dell'Ovest (1951); 40 tappe di Giri (15 al Giro d'Italia) 6 Vuelta di Spagna; 4 al Tour de France); 201 Criterium.

Ordine d’arrivo:
1° Rik Van Steenbergen (Bel) Km 282 in 7h 10 '03 media 39,344 kmh
2° Francis Anastasi FRA  
3° Giuseppe Favero ITA  
4° Fausto Coppi ITA  
5° Loretto Petrucci ITA  
6° Stan Ockers BEL  
7° Désiré Keteleer FRA  
8° Fiorenzo Magni ITA  
9° Ettore Milano ITA  
10° Guido Messina ITA  
11° Donato Zampini ITA  
12° Hugo Koblet SUI  
13° Stefano Gaggero ITA  
13° Bernard Gauthier FRA  
13° Raphaël Géminiani FRA  
13° Michele Gismondi ITA  
13° Gino Guerrini ITA  
13° Marcel Hendrickx BEL  
13° Ferdinand Kübler SUI  
13° Bruno Landi ITA  
13° Gilbert Loof FRA  
13° Luciano Maggini ITA  
13° Alfredo Martini ITA  
13° Antonio Medri ITA  
13° Giuseppe Minardi ITA  
13° Alain Moineau FRA  
13° Giorgio Mondini ITA  
13° Bruno Monti ITA  
13° Franco Franchi ITA  
13° Pasquale Fornara ITA  
13° Riccardo Filippi ITA  
13° Franco Aureggi ITA  
13° Gino Bartali ITA  
13° Louison Bobet FRA  
13° Andrea Carrea ITA  
13° Mario Ciabatti ITA  
13° Luciano Ciancola ITA  
13° Agostino Coletto ITA  
13° Oreste Conte ITA  
13° Angelo Conterno ITA  
13° Gilberto Dall'agata ITA  
13° Germain Derijcke BEL  
13° Jan De Valck BEL  
13° Giuseppe Doni ITA  
13° Jacques Dupont FRA  
13° Raymond Elena FRA  
13° Mino De Rossi ITA  
13° Gastone Nencini ITA  
13° Valère Ollivier BEL  
13° Jan Zagers BEL  
13° Vincent Vitetta FRA  
13° Hein Van Breenen NED  
13° Jean Storms BEL  
13° Brik Schotte BEL  
13° André Rosseel BEL  
13° Raoul Rémy FRA  
13° Mario Piazzon ITA  
13° Donato Piazza ITA  
13° Marcello Pellegrini ITA  
13° Edward Peeters BEL  
61° Remo Fornasiero ITA a 1'39”
Seguono altri corridori con distacchi maggiori.
Partiti 219 corridori, arrivati 95.


51a Edizione: 19 marzo 1960
Ormai la “Sanremo” era diventata la corsa dei velocisti e dato che di grandi sprinter su strada, in Italia non se ne vedevano, Vincenzo Torriani, il patron che da dieci anni aveva raccolto l'eredità di Armando Cougnet, cercò di dare una mano ai corridori connazionali, scoprendo, giusto alle porte di Sanremo, la salita del Poggio.
Ma neppure questa “invenzione” valse a far interrompere la serie contraria che stava gravando sul ciclismo italiano. Anzi, per lungo tempo, proprio quella salitella in extremis, si mostrò abbastanza indigesta ai ciclisti di casa. Lo si constatò subito, in quel 19 marzo 1960, allorché Arnaldo Pambianco e Gastone Nencini, che erano stati tra gli animatori più validi della corsa dopo un generoso attacco di Tom Simpson, furono costretti a mollare, proprio sul Poggio, la ruota del francese René Privat.
Costui, correndo con quella razionalità che gli aveva fatto difetto due anni prima, si trovò più fornito di energia e riuscì a realizzare la grossa ed insperata performance, di arrivare primo al traguardo della “Città dei fiori”. Con meno patemi del possibile, tra l’altro, visto che il suo connazionale Graczyck, autore di un finale furibondo, cadde proprio lungo la discesa del Poggio e vide svanire la possibilità di riagguantarlo. Va detto che Privat, quella presti-giosa vittoria, se la meritava tutta.
[Immagine: 264_001.jpg]

Il ritratto del vincitore.
Nato il 4 dicembre 1930 a Coux-Saint Sauveur, deceduto a Puy-en-Velay il 19 giugno 1995. Passista scalatore. Professionista dal 1952 al 1962 con 43 vittorie.
Renè Privat, fu uno dei non pochi corridori francesi che si distinsero in numerose gare a tappe ed in linea, nella fase forse più brillante della storia del ciclismo. Fu uno di coloro ai quali toccò in sorte di correre, appunto, negli anni difficili, cioè nel decennio che andava dal 1950 al 1960, quando il ciclismo internazionale era nella sua epoca d'oro, ed i campioni, se non i fuoriclasse, spuntavano da ogni parte, perché la base di proselitismo era enorme. In altre parole, quando lo sport del pedale, era per diversi paesi europei la disciplina sportiva principe. Lo chiamavano “Castagna” in virtù di un temperamento ed una aggressività in corsa davvero evidenti, mentre nella vita di ogni giorno, era  taciturno, abbastanza introverso, quasi misterioso.
Ciclisticamente, un corridore abbastanza completo, sprint a parte, dove non  era comunque fermo. Sbagliava spesso i tempi per troppa foga e, per questo, non trovò mai il sodalizio pronto a dargli i galloni da capitano. Rimase per tutta la carriera una spalla, un luogotenente con possibilità di fare sovente la propria corsa, ma le sue apprezzabili possibilità atletiche, andarono in maggioranza al servizio di altri. Ciononostante, il suo solco l’ha lasciato e qualsivoglia osservatore, lo deve necessa-riamente inserire fra gli stradisti di Francia più in vista del suo periodo. La più bella perla di carriera, Renè Privat la colse alla Milano Sanremo del ’60, l’anno dell’ingresso del Poggio nel percorso della Classicissima.
Una riprova delle sue eccellenti doti si ottiene rivivendo i fotogrammi e le cronache del suo modo di conquistare la Sanremo e per come, due anni prima, nella medesima corsa, fu autore sfortunato di una fuga lunghissima a media pazzesca. Lo stesso suo palmares in calce a queste note, è da considerarsi uno spaccato fedele di chi ha sempre visto e giudicato Privat, un corridore meritevole di considerazione. Dopo una veloce parentesi fra i dilettanti, passò presto al professionismo, ed in ogni anno seppe lasciare un segno di un certo spessore, migliorando progressivamente con l’età, soprattutto nel punto per lui più debole: la razionalità in gara. Non a caso vinse la Milano San-remo a 30 anni e non a caso si ritirò appena vide che era entrato nella parabola discendente. Una bella figura, che fu per quattro giorni maglia gialla al Tour del 1957, e che, ai successi che seguono, ha aggiunto un’infinità di piazzamenti, diversi dei quali di grande prestigio.
[Immagine: WfgRvX1Kj0gvNMx7okJ_E_tB_XJsVGzzEPVcR4CO...1M_OH1I4Vn]
Tutte le sue vittorie. 1952:  3a tappa del Giro delle 6 Province. 1953: Circuit Drome-Ardeche; GP Rives; 5a tappa del Giro dell’Ovest; Circuito Annegasse. 1954: Giro del Monte Bianco; 2a tappa (a) del Criterium du Dauphine Libere; GP de la Taren-taise, Circuito di Sallanches. 1955: Criterium National; Genova Nizza; 1a tappa del Criterium du Dauphine Libere; Classifica a punti del Criterium du Dauphine Libere; 5a tappa del Giro delle 6 Province; 2a tappa della Lione-Montlucon-Lione; Circuito di Puy. 1956: GP Pneumatique; GP de Vals-les-Bains; Circuito de l'Ain; Circuito des Boucles de la Seine; Circuito d'Aix; Cir-cuito de la Rade de Brest; Circuito La Grand-Combe. 1957: 2a, 3a (Cronosquadre), 11a e 15a (a) tappa del Tour de France; Parigi-Limoges; 1a tappa del Criterium du Dauphine Libere. 1958: Tour del Var; 1a tappa del Tour del Var; Circuito di Salignac. 1959: GP Stan Ockers; Tour del Sud-Est; 1a tappa del Tour del Sud Est; 2a tappa del Tour del Var: Circuito di Montalimar. 1960: Milano-Sanremo; 2a tappa del Tour de France; Ronde de Seignelay; 5a tappa del Tour del Sud Est; Circuito di Dinan; Circuito di Auxerre.

Ordine d’arrivo:
1° René Privat (Fra) Km 288 in 6h45'15 media 42,640 kmh
2° Jean Graczyk FRA a 11”
3° Yvo Molenaers BEL a 20”
4° Arthur De Cabooter BEL a 1'40”
5° Pierre Ruby FRA  
6° Rik Van Looy BEL  
7° Frans De Mulder BEL  
8° Jo De Roo NED  
9° René Fournier FRA  
10° Frans Schoubben BEL  
11° François Mahé FRA  
12° Coen Niesten NED  
13° Alfred De Bruyne BEL  
14° Alessandro Fantini ITA  
15° Noël Fore BEL  
16° Romeo Venturelli ITA  
17° Agostino Coletto ITA  
18° Federico Galeaz ITA  
19° Gilbert Desmet 1 BEL  
20° Désiré Keteleer FRA  
21° Edgard Sorgeloos BEL  
22° Roger Rivière FRA  
23° Jacques Anquetil FRA  
24° Luis Otano Arcelus ESP  
25° Joseph Groussard FRA  
26° Miguel Poblet ESP  
27° Jean Forestier FRA  
28° Pino Cerami BEL  
29° Gastone Nencini ITA  
30° Angelo Coletto ITA  
31° Fernand Picot FRA  
32° Graziano Battistini ITA  
33° Jean-Claude Annaert FRA  
34° Imerio Massignan ITA  
35° Aldo Moser ITA  
36° Arnaldo Pambianco ITA  
37° Gugielmo Garello ITA  
38° Tom Simpson GBR  
39° Michel Dejouhannet FRA  
40° Georges Mortiers BEL  
41° Mario Tosato ITA  
42° André Vlayen BEL  
43° Piet Damen NED  
44° Norbert Kerckhove BEL  
45° Michele Gismondi ITA  
46° Frans Van Looveren BEL  
47° Salvador Botella ESP  
48° Wladimiro Bartolozzi ITA  
49° Petrus Oellibrandt BEL  
50° Giovanni Avagnina ITA  
51° Michel Vermeulen FRA  
52° Pietro Zoppas ITA  
53° Raymond Vrancken BEL  
54° Roberto Falaschi ITA  
55° Marino Fontana ITA  
56° Giancarlo Gentina ITA  
57° Nino Defilippis ITA  
58° Willy Haelterman BEL  
59° Alcide Vaucher SUI  
60° Joseph Hoevenaers BEL  
61° Giuseppe Fallarini ITA  
62° Diego Ronchini ITA  
63° Bruno Monti ITA  
64° Ernesto Bono ITA  
65° José Segu ESP  
66° Fernando Brandolini ITA  
67° Raymond Impanis BEL  
68° Idrio Bui ITA  
69° Carlo Azzini ITA  
70° Dominique Forlini FRA  
71° Willy Vannitsen BEL  
72° Armand Desmet BEL  
73° Jean-marie Cieleska FRA  
74° Marcel Janssens BEL  
75° Robert Cazala FRA  
76° Giuliano Natucci ITA  
77° Fernando Manzaneque ESP  
78° Guido Messina ITA  
79° Emile Daems BEL  
80° Adriano Zamboni ITA  
81° Renzo Accordi ITA  
82° Walter Martin ITA  
83° Gianni Mana ITA  
84° Pierino Baffi ITA  
85° Vito Favero ITA  
86° Tino Sabbadini FRA  
87° Angelo Conterno ITA  
88° Joseph Schils BEL  
89° Germain Derijcke BEL  
90° Bent-ole Retvig DAN  
91° Arrigo Padovan ITA
Seguono altri corridori con distacchi maggiori.
Partiti 203, arrivati 121

Maurizio Ricci detto Morris

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#8
52a Edizione: 19 marzo 1961
La giornata variabile, con la costante di un forte vento contrario alla marcia dei 214 partenti, favorì un’edizione che si consumò a lungo all’insegna della prudenza, per poi condensare nel finale emozioni profonde e indimenticabili. Sul Capo Berta, l’erta che aveva deciso tante Sanremo, in contropiede sulla chiusura del tentativo di Guido Carlesi, Rik Van Looy e Gilbert Desmet, partì il francese Jean-Claude Annaert, che passò solo sulla cima con pochi se-condi di vantaggio sul gruppo.
Nella discesa, dal grosso evase come un fulmine Raymond Poulidor, sulla cui ruota si pose l’olandese Albertus Geldermans. In un paio di chilometri i due raggiunsero il battistrada. Il gruppo non mollò, mantenendo lo svantaggio in termini di possibilissimo recupero, ma quel giorno, Poulidor, offrì davvero una prova di forza e di carattere difficilmente riscontrabili.
Sul Poggio, fece fuori i due compagni d’avventura e poi riuscì a resistere alla furiosa rincorsa del plotone.
Giunse in via Roma tre secondi prima di Van Looy, che regolò Rino Benedetti nella volata valevole per il posto di onore. 
Una impresa da stella del pedale quella del contadino della regione del Limousin, non ancora “Poupou”, che era passato tardi fra i professionisti a causa del servizio militare….
[Immagine: 5dcbc7e8b769012b2018c5c2-medium.jpg]
Sul vincitore.
Nato a Masbaraud-Merignat (Francia) il 15 aprile 1936, deceduto a Saint-Léonard-de-Noblat il 13 novembre 2019. Alto 1.72, peso forma kg. 69. Completo. Professionista dal 1960 al 1977 con 197 vittorie comprese le speciali classifiche. Un modello di coscienza professionale, dotato di un carattere semplice, ricco di simpatia e con una serenità di fondo (sempre sorridente ed affabile, sia nelle vittorie che nelle sconfitte), che lo ha reso popolarissimo: si potrebbe dire parte integrante delle proiezioni sportive delle famiglie francesi. Decisamente preferito nei confronti di un altro grande transalpino del momento: Jacques Anquetil. Soprannominato "Poupou" la folla lo salutava con ammirazione e con grande simpatia, quasi lo invocava. Professionista a 24 anni in quanto per 28 mesi aveva dovuto prestare servizio militare in Africa del Nord, si è bene amministrato restando sulla breccia fino a 41 anni, correndo sempre con la maglia della Mercier. Un sondaggio del 1973, rivelò che il quarantotto per cento dei francesi considerava Poulidor come il campione francese più conosciuto ed apprezzato. Ha conquistato quasi duecento successi, a dispetto di chi lo ha definito un “eterno secondo”.
[Immagine: Raymond_Poulidor%2C_Tour_de_France_1966_...ped%29.jpg]
Tra queste vittorie, il Campionato nazionale (1961); Milano-Sanremo (1961); Freccia Vallone (1963); Giro del Delfinato (1966)1 Vuelta di Spagna (1964); Circuito Sei Province (1969); Settimana Catalana (1973); Etoile des Espoirs (1971); 2 Parigi-Nizza (1972-1973); Midi Libre (1973); GP Cannes (1964); 5 Criterium Nazionale (1964-1966-1968-1971-1972); Nizza-Seillans (1969); GP Nazioni (1963); GP Lugano (1963); Mont Faron (1966); Trofeo Super Prestige (1964); 7 successi di tappa al Tour de France. Ha preso parte a 14 edizioni della Grande Boucle, ma la sua lunga carriera non gli ha mai offerto la gioia di primeggiare a Parigi. Non solo, ma pur da grandissimo protagonista per tre lustri al Tour de France, non è mai riuscito, neppure per un giorno, a indossare la maglia gialla. Eppure vanta un ruolino pazzesco:  3° nel '62, 8° nel '63, 2° nel '64, 2° nel '65, 3° nel '66, 9° nel '67, ritirato nel '68, 3° nel '69, 7° nel '70, 3° nel '72, ritirato nel '73, 2° nel '74, 19° nel '75 e 3° nel '76. Avrebbe fatto meglio se, come tanti altri campioni, avesse cercato la messa a punto della condizione al Giro d'Italia, che invece non ha mai disputato. Pochissime, in effetti, sono state le sue presenze nelle corse italiane. Gli manca pure la maglia iridata, ma nelle 15 partecipazioni al Mondiale, è stato 2° nel '74, 3° nel '61, '64 e '66, nonché 5° nel '60 e '63. Un grandissimo corridore, dunque. Un altro che rende ridicoli i dogmi di chi osserva col pallottoliere delle vittorie e che ha contribuito a rimandare al mittente le stupidaggini di chi ha fatto del ciclismo il cultore sportivo dei primi posti, traducendo in sconfitto per antonomasia il secondo arrivato.

Ordine d’arrivo:
1° Raymond Poulidor (Fra) Km 288 in 7h41'07" media 37,474 kmh
2° Rik Van Looy BEL a 3"
3° Rino Benedetti ITA  
4° Dino Bruni ITA  
5° Michel Van Aerde BEL  
6° Dino Liviero ITA  
7° Walter Martin ITA  
8° André Darrigade FRA  
9° Pietro Musone ITA  
10° Jo De Haan NED  
11° Jo De Roo NED  
12° Joseph Groussard FRA  
13° Frans Schoubben BEL  
14° Carlo Brugnami ITA  
15° Emile Daems BEL  
16° Giovanni Garau ESP  
17° Jaime Alomar Florit ESP  
18° Nino Defilippis ITA  
19° Edgard Sorgeloos BEL  
20° Louison Bobet FRA  
21° Piet Van Est NED  
22° Gastone Nencini ITA  
23° Pierre Ruby FRA  
24° Rudi Altig ALL  
25° Tom Simpson GBR
Partiti 214, arrivati 121.


55a Edizione: 19 marzo 1964
Che la Milano Sanremo, fosse divenuta classica come nessuna in termini di richiamo, era ai tempi considerata una ovvietà, ma nessuno avrebbe mai pensato che i limiti di 223 partenti, potessero essere superati. Ebbene, nel 1964, a partire da Milano, furono in 232, con una particolarità aggiuntiva, che sembrava sincronica alla lettura delle risultanze dell’ultimo decennio della Classicissima: la predominanza degli stranieri. Allo start, infatti, per la prima volta si registrò una supremazia numerica straniera, 123 contro i 109 italiani. Supremazia che si confermò poi sulla strada, nonostante la volontà dei corridori di casa. Ancora una volta fu Toni Bailetti ad aprire il foglio dei tentativi, lo fece assieme a Giuseppe Fezzardi e André Foucher poco dopo Tor-tona, al 79esimo chilometro percorso. Il tentativo si prolungò fino al Capo Mele, dove si verificò un’azione non troppo efficace di Italo Zilioli. Il Berta decise di nuovo la corsa. Il britannico Tom Simpson si avvantaggiò con Ray-mond Poulidor, Willy Bocklant e l’italiano Vincenzo Meco. Sul Poggio attaccò dapprima Poulidor, ma Simpson gli rispose passando primo in cima, col francese a ruota, indi Meco, staccato di una trentina di metri e Bocklant, di un centinaio. Nella discesa se ne videro di tutti i colori. Il duo di testa si gettò a capofitto verso il traguardo e lo fece usando i tornanti come una volata anticipata. Rischiarono non poco in quel loro duello. Dietro, intanto, mentre il belga affondava, Meco, a causa del tubolare posteriore scollato, cadde, ed avendo l’ammiraglia in coda al gruppo, fu costretto a giungere all’arrivo con dodici minuti di ritardo. Nella volata a due di via Roma, Simpson scattò sulla destra, Poulidor riuscì quasi ad affiancarlo, ma poi si piantò. Il successo, valse a Tom il “titolo” di “Baronetto” da parte della regina Elisabetta, mentre per gli italiani, fu l’ennesima scoppola. Il migliore al traguardo, settimo, fu il carneade Renato Pelizzoni, cremonese di Drizzona, già ventottenne, passato professionista nell’ottobre dell’anno precedente, in occasione del Giro di Lombardia. Uno insomma che non dava grandi prospettive per questa corsa, ormai del tutto in mano agli assi o ai buoni corriodori stranieri. Ma importava poco se c’era spettacolo come in quel 19 marzo 1964. Non a caso, aldilà dello spessore di Simpson e Poulidor che si giocarono la Classicissima allo sprint, emerse un dato di gran peso: l’incredibole media di corsa a 43,419 kmh, costituiva il nuovo record della manifestazione.
[Immagine: 9d62aceab354c930c7e048f3e12df05b.jpg]
Sul vincitore.
Nato a Doncaster  (Gran Bretagna) il 30 novembre 1937. Morto il 13 luglio 1967 ad Avignone. Completo. Professionista dal 1959 al 1967 con 55 vittorie.
Sir Tom Simpson è stato il primo corridore inglese ad imporsi nel mondo del ciclismo. Per i suoi meriti sportivi, all’indomani della sua vittoria alla Milano-Sanremo ’64, la regina Elisabetta, l’aveva insignito del titolo di “baronetto”. Iniziò la carriera come da tradizione tipicamente britannica provando l’inseguimento su pista. Era più che discreto, tanto da vincere il titolo britannico a 20 anni, nel 1957. Tre anni prima, appena diciassettenne aveva vinto un altro titolo nazionale, stavolta nel campionato della montagna. Tommy capì ben presto che nel suo paese il ciclismo era particolare e ben poco seguito. 
[Immagine: 231px-Tom_Simpson_c1966.jpg]
Lui voleva diventare qualcuno e non era proprio il caso di restare in patria. Agli inizi del 1959, per provare a diventare un campione si trasferì in Bretagna, regione del nord della Francia, nella quale i dilettanti di quel tempo avevano a disposizione numerose gare, praticamente ogni giorno. In quella terra di ciclisti nati, imparò i primi segreti della professione, ma non tardò molto a convincersi che, per migliorarsi, il Belgio offriva ancora più possibilità. Si trasferì nuovamente, stavolta nella provincia di Gand, dove i fiamminghi facevano del ciclismo un lavoro quotidiano. Qui, nel breve volgere di qualche settimana conquistò le più vive simpatie di quella gente aperta, così abituata ad integrarsi con gli emigranti. Infatti, non appena Tom si mostrò vincente, nella zona vennero fondati alcuni club portanti il suo nome.
Durante quel 1959, riuscì a passare professionista all’interno della francese St Raphael-Geminiani e, subito, colse tre successi, prima di correre, senza esperienza, un mondiale super in quel di Zandvoort, dove finì 4°. Simpson era così arrivato sul palcoscenico che voleva e si dimostrò subito un gran bel corridore. Negli anni successivi, continuò a migliorare, grazie ad un’abnegazione enorme e alle sue indubbie qualità naturali. Un corridore completo, non di qualità eccelsa, ma senza lacune. In pochi anni si prese gran parte delle più grandi classiche. La prima fu il Giro delle Fiandre, dove andò in fuga con un fulmineo contropiede assieme a Nino Defilippis e lo battè in volata. Poi, una dopo l'altra, vennero le vittorie nella Bordeaux-Parigi ('63), nella Milano-Sanremo ('64) e nel Giro di Lombardia ('65), poco più di un mese dopo la conquista, a San Sebastian, del Campionato Mondiale.
Una maglia iridata conquistata in uno sprint a due col tedesco Rudi Altig, ma una maglia che non gli bastava. Voleva una grande corsa a tappe, da quel giorno di luglio del 1962, in cui, al Tour, riuscì, primo fra i britannici, a vestire per almeno una tappa la maglia gialla.
Sì, proprio quel Tour de France che, nel '67, dopo che all'inizio della stagione aveva vinto la Parigi-Nizza, gli presentò, attraverso lo scenario pietroso e bollente del Mont Ventoux, il luogo della sua tragedia. Di Tommy Simpson, praticamente tutti ricordano la morte, ma pochi, molto pochi, sanno che era un gran corridore. Per questo, credo sia opportuno allegare, anno per anno il meglio della carriera del baronetto inglese. 1959: Due tappe del Giro dell’Ovest; Tappa al Route de France; 4° al Cam-pionato Mondiale. 1960: Corsa del Mont Faron; Giro del Sud Est; Criterium Poly di Lorient; Criterium di Ploerduts; 3° nella Genova-Roma (primo nel GPM); 9° Parigi-Roubaix; 7° Freccia Vallone. 1961: Giro delle Fiandre; tappa alla Quattro Giorni di Dunkerque; tappa al GP Eibar; 9° Campionato Mondiale; 5° ParigiNizza; 2° Genova-Roma. 1962: 2° Parigi-Nizza; 5° Giro delle Fiandre, 6° Tour de France. 1963: Bordeaux-Parigi, Trofeo della Manica; tappa del Tour del Var; Ruota d'oro di Dansmenil; Criterium di Chef Bautonne; Criterium di Valenciennes; Criterium di St. Gaudens; GP Isola di Man; 2° Parigi Tours; 2° Gand Wevelgem; 2° Parigi Bruxelles; 3° Giro delle Fian-dre; 8° Parigi-Roubaix; 10° Freccia Vallone. 1964: Milano Sanremo; GP Co-rona Londra; tappa Giro della Provenza; Criterium di Issoiret; Criterium di Zolder; 4° Campionato Mondiale; 2° Mont Faron; 2° Kuurne-Bruxelles-Kuurne; 3° Trofeo Baracchi con Rudi Altig. 1965: Campionato Mondiale; Giro di Lombardia; GP di Vayrac; 3° Midi Libre; 3° Bordeaux-Parigi; 3° Freccia Vallone; 7° Parigi-Roubaix; 9° Liegi-Bastogne-Liegi. 1966: Criterium di Brest; Criterium Felletin; Criterium Laval; 2° Luchon-Revel; 2° Revel-Sete (tappa Tour de France). 1967: Parigi Nizza; tappa del Giro di Sardegna; Trofeo della Manica; due tappe della Vuelta di Spagna; 3° GP Salvarani di Bruxelles.

Ordine d’arrivo:
1° Tom Simpson GBR Km 288 in  6h37'59" media 43,419 km
2° Raymond Poulidor FRA a 2"
3° Willy Bocklant BEL a 1'01"
4° Rik Van Looy BEL a 1'09"
5° Georges Vanconingsloo BEL  
6° Jean Graczyk FRA  
7° Renato Pelizzoni ITA  
8° Edouard Sels BEL  
9° Jean Forestier FRA  
10°Yvo Molenaers BEL  
11° Joseph Wouters BEL  
12° Silvano Ciampi ITA  
13° Michele Dancelli ITA  
14° Marino Fontana ITA  
15° Benoni Beheyt BEL  
16° Jose Perez Frances ESP  
17° Antonio Suarez ESP  
18° Robert De Middeleir BEL  
19° Gilbert Desmet 1 BEL  
20° Carmine Preziosi ITA  
21° Ugo Colombo ITA  
22° Mario Minieri ITA  
23° Dino Liviero ITA  
24° Graziano Battistini ITA  
25° Luciano Galbo ITA
Partiti 232, arrivati 138.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#9
61a Edizione: 19 marzo 1970
Gli albori degli anni settanta ciclistici s’aprirono in chiave italiana con la speranza che la proibizione gravante sulla Milano Sanremo, potesse concludersi. Sembrava un’invocazione alla Musa. La prima Classicissima della nuova decade, brindò subito col nuovo record di partecipanti: 238! In una giornata quasi completamente di sole, il primo sussulto di gara si registrò a Novi Ligure, con l’iniziativa di Carlo Chiappano e del belga Herman Van Loo, che, poco dopo, furono raggiunti dagli italiani Michele Dancelli, Italo Zilioli, Franco Bitossi, Aldo Moser, Luciano Soave, Adriano Pella, Mauro Simonetti, dai belgi Rik Van Looy (alla sua ultima stagione), Eric Leman, Roger ed Eric De Vlaeminck, Walter Godefroot (compagno di squadra di Gimondi e Motta), Jozef Huysmans, dagli olandesi Gerben Karstens e l’iridato Harm Ottenbros, nonché dal tedesco Rolf  Wolfshohl.
La rappresentanza dei 18 fuggitivi fece capire che si trattava di un’azione davvero importante. Merckx, in condizioni fisiche precarie, diede ai compagni della Faema, il compito di inseguire senza troppa veemenza, nella speranza di riprendersi un poco durante la corsa. Sul Turchino, dove passò in testa Bitossi, il vantaggio dei battistrada sfiorava i 5'. Idem a Loano. Qui, Chiappano e Dancelli, i due della Molteni, approfittando di un traguardo volante, allungarono col chiaro intento di far uscire un gruppetto ristretto, ma restarono soli. Chiappano, a quel punto, mise sul campo tutte le energie rimaste per lanciare il compagno e poi si fermò.
L’azione solitaria di Dancelli, sembrò un suicidio, ma a Laigueglia, con quasi due minuti di vantaggio su Roger De Vlaeminck, seguito a mezzo minuto dagli altri sedici e col gruppo a sei minuti, iniziò a far capolino un certo ottimis-mo. Il bresciano intanto, grazie alle ali di folla festante e votata ad incitarlo, trovò nuove energie, mentre dietro, alla progressiva cottura di De Vlaeminck, non fece eco una sostanziale brillantezza degli altri. A parte il grosso, dove Merckx, nonostante i suoi problemi, stava tentando un impossibile ritorno.
Con 57” di vantaggio sugli inseguitori più immediati, Dancelli iniziò il Poggio e riuscì nella non prevedibile impresa, di allargare il vuoto fra lui e gli altri più vicini. Arrivò al traguardo da trionfatore. Era stato l’italiano che ci aveva più creduto negli ultimi anni, ed era giusto che fosse lui a rompere l’incantesimo, diciassette anni dopo Loretto Petrucci. Michele Dancelli pianse, anche davanti al microfono della TV e disse: “Non credevano  fossi un campione…”.
[Immagine: 140836870-204b1416-2965-4700-a86b-1075addb6337.png]
 
Sul vincitore.
Nato a Castenedolo (Brescia) l'8 maggio 1942. Alto 1.74; peso forma kg. 68. Campione italiano dilettanti nel 1963, pochi mesi dopo debuttò tra i profes-sionisti. Due volte campione italiano, ed una prestigiosa affermazione nella Freccia Vallone. Due volte terzo ai Campionati del mondo, nel 1968 a Imola e nel 1969, a Zolder. Nel 1970 pose orgogliosamente fine alle tradizionali disfatte italiane (16 consecutive) nella Milano-Sanremo. Compì una grande impresa e dopo aver tagliato solitario il traguardo di via Roma, scoppiò in lacrime (foto sotto). 
[Immagine: 26mil07f5-kZHC-U33401372968029pQG-656x49...0508010025]
Altri 3 anni di gare con modesti risultati, indussero Dancelli ad abbandonare la attività agonistica a soli 32 anni. Professionista dal 1963 al ’74 con 73 vittorie. La sintesi dei suoi successi: 2 Campio-nati italiani (1965-’66); Parigi-Lussemburgo (1968); 3 Giri Appennino (‘65-‘66-‘67); 2 Giri Lazio (‘66-‘70); 3 Giri Provincia Reggio Calabria (‘66-‘67-‘68); 3 GP Prato (‘64-‘65-‘67); 2 Giri Veneto (‘65-‘66); 2 Giri Emi-lia (‘65-‘67); Freccia Vallone (1966); Milano-Sanremo (‘70); Coppa Placci (‘65); Coppa Sabatini (‘67); Giro Campania (‘65); Giro d'Abruzzo (‘64); GP Mirandola (‘69); Giro delle Marche (‘72). Trofeo Cougnet (‘64); 21 tappe di Giri (fra le altre 11 al Giro d'Italia, 3 al Romandia, 2 al Giro Svizzera); 15 Criterium; un San Silvestro d'Oro (1967).

Ordine d’arrivo:
1° Michele Dancelli ITA Km 288 in 6h 32'56 media 43,977 kmh
2° Gerben Karstens NED a 1'39”
3° Eric Leman BEL
4° Italo Zilioli ITA
5° Walter Godefroot BEL
6° Rolf Wolfshohl ALL
7° Mauro Simonetti ITA a 1'43”
8° Eddy Merckx BEL a 1'56”
9° Frans Verbeeck BEL
10° Guido Reybrouck BEL
11° Daniel Van Ryckeghem BEL
12° Jan Van Katwijck NED
13° Georges Claes 2 BEL
14° Jan Janssen NED
15° Georges Vandenberghe BEL
16° Evert Dolman NED
17° Luciano Armani ITA
18° Luigi Sgarbozza ITA
19° Raphael Hooyberghs BEL
20° Pieter Nassen BEL
21° Serge Lapébie FRA
22° Jean-pierre Monséré BEL  
23° Albert Van Vlierberghe BEL
24° Erik Pettersson SUE
25° Christian Raymond FRA  
26° Luis Ocana Pernia ESP
27° Luciano Soave ITA
28° Roger Cooreman BEL
29° Alberto Della Torre ITA  
30° Giuseppe Grassi ITA “
Note: Partiti 238, arrivati 151.

67a Edizione: 19 marzo 1976

Quel 19 marzo e la 67° Milano-Sanremo, saranno speciali. Già sui 191 partenti, si poteva cogliere un’atmosfera particolare, nata dall’inchiostro speso dai giornali per presentare la Classicissima del possibile evento, di Merckx contro Girardengo, di Eddy che vuole incidere ulteriormente sulla storia, ma che è sul viale del tramonto, visto che per la prima volta aveva perso il Tour de France. Allo start molti si chiesero come avrebbe reagito colui che da Cannibale, nel ’75, aveva fatto razzia di classiche.
La prima parte della corsa, cadute copiose a parte, fortunatamente senza conseguenze, fu piuttosto sonnolenta. Sul Turchino passò primo un gran gregario, Renato Laghi da Faenza, ma niente di particolare per il borsino della gara. L’episodio cardine si consumò ad Oneglia dopo il Berta quando sulla spinta del Campione italiano Francesco Moser, si formò al comando un drappello di 14 uomini, tutti più o meno di levatura: lo stesso Moser, i belgi Merckx, De Vlaeminck, Maertens, Godefroot, Sercu, Leman, Van Linden, Jean-Luc Vandenbroucke, Wilfried Wesemael, Walter Planckaert, Lieven Malfait, l'olandese Knetemann, il francese Michel Laurent e gli italiani  Baronchelli e Vladimiro Panizza. Da Oneglia, ai piedi del Poggio, Merckx cercò di continuo l’azione di forza. Gli italiani in particolare, con la sola eccezione di Panizza, si impegnarono come non mai per chiudere, sottoponendosi ad uno stress che, di fatto, riempì di acido lattico Moser e Baronchelli. Proprio poco prima dell’imbocco dell’erta finale, l’Imperatore del ciclismo scattò per l’ennesima volta e fu impressionante per veemenza e durata. Riuscì a prendergli la ruota il solo ventenne neoprofessionista Vandenbroucke, mentre De Vlaeminck e Laurent, cercarono inutilmente di rinvenire, ma in cima il loro ritardo fu di 22", praticamente  tagliati fuori. I due belgi al comando, percorsero insieme la discesa e il tratto di Aurelia prima del traguardo di via Roma, dove Eddy Merckx vinse senza storia alcuna. Tagliò il traguardo agitando il pugno destro, un gesto insolito per lui. Forse per rispondere a chi l’aveva giudicato verso lo spegnimento e non più possibile al sorpasso su Girardengo. Ma certamente quel pugno, significava qualcosa che ribolliva dentro quel magnifico fuoriclasse che, dieci anni dopo il primo successo, aveva fatto della Classicissima e dell’intero ciclismo, il proprio strumento di canto, di recita, di messaggio dai valori supremi.
[Immagine: Milano-Sanremo_Eddy_Merckx.jpg]
Aveva servito il settimo sigillo su Sanremo, probabilmente il più bello, il più dominato, il più percepibile nelle sfumature di quell’insieme di forza e determinazione che solo lui aveva così copiosamente espresso ad ogni colpo di pedale.
E quello che non riuscivano a percepire i giornalisti e gli addetti ai lavori, forse per gelosia, nazionalismo o malcelato tifo avverso a Merckx, entrò naturalmente come un antropologico idioma, nelle migliaia e migliaia di persone che assiepavano via Roma. Dalle finestre volarono fiori sul beniamino e la folla, urlando il suo nome con la multitudine di lingue di provenienza e di nazionalità, s’accompagnò alla voglia di superare le transenne e invadere la strada per vedere da vicino il campione di tutti, perché un grande artista dello sport, non può essere visto come italiano, belga, france-se, sudafricano o brasiliano: è semplicemente un patrimonio del mondo. Per Sanremo, una giornata storica, per la crescita sportiva a svantaggio del vezzo nazionalistico che troppo accompagna gli italiani, un segmento luminoso, purtroppo lontano e tante volte cancellato.

Sul vincitore.

Nato a Meenzel-Kiesegen-Brabante (Belgio) il 17 giugno del 1945. Alto 1.83 peso forma kg 75. Sposato con Claudine, due figli Sabrina e Axel. Nome difficile da scrivere ma facile da pronunciare, un campione che ha suscitato entusiasmo in tutto il mondo. Per dieci anni di seguito, Merckx, è stato il protagonista assoluto di tutte le corse; i suoi stessi colleghi di carovana lo hanno chiamato l'invincibile e “Il Cannibale”. Se partiva per vincere (e lo faceva sempre) non falliva quasi mai il bersaglio. E se lo falliva, era solo per colpa di vicende particolarmente sfortunate e per colpa di improvvisi complotti di strada. Qualche volta ha pianto. Ma non di commozione, bensi di rabbia. Due esempi: quando lo hanno espulso dal Giro d'Italia per una punizione dovuta ad un controllo medico positivo e quando Gimondi vinse il "mondiale" a Barcellona, ma non  perché fosse geloso di Felice, ma perché aveva sbagliato strategia, affidandosi incautamente a Maertens, che lo aveva in qualche modo ingannato. Però, dopo le lacrime ai box, fu capace di un gesto generoso andando a stringere la mano a Gimondi. Lui peraltro, campione del mondo lo era stato tre volte da professionista e una da dilettante. L'italiano è stato il suo avversario più costante e importante, perché lo ha inseguito sempre, ma non il più forte in termini assoluti, palma che spetta a Luis Ocana. In un certo senso Felice, con la sua difesa cocciuta e la sua naturale vocazione al sacrificio, ha comunque contribuito a dare maggior splendore alle imprese di Merckx, campione di potenza straordinaria, di superiorità schiacciante e, talvolta, persino monotona. Ha vinto tutto, dalle gare a tappe, a quelle in linea, a cronometro, in salita, compreso quel tentativo riuscito alla grande, sulla pista di Città del Messico, quando stabilì il record mondiale dell'ora. Ha abbandonato nel maggio del 1978 dopo aver disputato 1800 gare e guadagnato circa cinque miliardi di lire. 
[Immagine: 800px-Eddy_Merckx%2C_TDF_1970.jpg]
Da debuttante ha disputato 69 gare vincendone 24; da dilettante (1963-64) 149 gare con 56 successi, compreso il Campionato del Mondo. Da professionista (esordio il 29 aprile 1965 - nella Freccia Vallone, vinta da Poggiali e ritiratosi a 13 km dall'arrivo, quando capì che non poteva vincere) ha chiuso il 19 maggio 1978 con 1852 gare disputate. Professionista dal 1965 al 1978 con 426 vittorie. 5 Giri d'Italia (1968-1970-1972-1973-1974); 5 Tour de France (1969-1970-1971-1972-1974); Vuelta di Spa-gna (1973); Giro della Svizzera (1974); 2 Giri Belgio (1970-1971); Giro Romandia (1968); Giro Catalogna 1968); 4 Giri Sardegna (1968-1971-1973-1975); 3 Parigi-Nizza (1969-1970-1971); 2 Settimana Catalana (1975-1976); Midi-Libre (1971); Giro Delfinato (1971); Giro Levante (1969); Giro Lussemburgo (1969); Giro Morbihan (1966); 3 Campionati del mondo (1967-1971-1974); Campionato belga (1970); 7 Milano-Sanremo (1966-1967-1969-1971-1972-1975-1976); 5 Liegi-Bastogne-Liegi (1969-1971-1972-1973-1975); 2 Giri Lombardia (1971-1972); 2 Giri delle Fiandre (1969-1975); Parigi-Bruxelles (1973); 3 Parigi-Roubaix (1968-1970-1973); 3 Freccia Vallone (1967- 1970-1972); 3 Grand-Wevelgem (1967-1969-1972); 2 Het Volk (1971-1973); GP Escaut (1972); 2 Amstel Gold Race (1973-1975); GP Francoforte (1971); Tre Valli Varesine (1968); Coppa Agostoni (1970); GP Camaiore (1970); Giro dell'Emilia (1972); Giro del Piemonte (1972); 2 Laigueglia (1973-1974); Gran Premio Nazioni (cronometro-1973); GP Lugano (cron. 1968); 3 Trofeo Baracchi (con Brake nel 1966-67; con Swerts nel 1972); 7 Trofei Superprestige: 1969-70-71-72-73-74-75); Record Mondiale dell'ora (Città del Messico  25-10-1972 con km. 49.431). 133 tappe di Giri (51 a cronometro); 35 tappe  Tour de France (96 giorni in giallo); 25 tappe Giro d'Italia (76 giorni in rosa); 6 tappe Vuelta di Spagna; 6 tappe Giro Belgio; 5 tappe Giro di Svizzera;  21 tappe Parigi-Nizza; 11 tappe Giro di Sardegna; 17 Sei Giorni. Sportivo mondiale dell'anno (1969-71-74).
Riepilogo: 3 Campionati del Mondo; 32 Classiche; 32 gare a tappe; 37 gare in linea; 10 gare a cronometro (escluso le tappe); 33 gare in salita; 133 tappe di Giri (51 a cronometro); 146 gare in Circuito.

Ordine d’arrivo:

1° Eddy Merckx BEL Km 288 in 6h 55'28 media 41,592 kmh
 (*) 2° Wladimiro Panizza ITA a 28''  (il 2° arrivato Jean Luc Vandenbroucke, squalificato per positività all'antidoping)
3° Michel Laurent FRA a 31''
4° Walter Planckaert BEL a 33”
5° Rik Van Linden BEL  
6° Patrick Sercu BEL  
7° Roger De Vlaeminck BEL  
8° Francesco Moser ITA  
9° Walter Godefroot BEL  
10° Wilfried Wesemael BEL  
11° Luc Leman BEL  
12° Gerrie Knetemann NED  
13° Gianbattista Baronchelli ITA  
14° Lieven Malfait BEL a 3'40
15° Jacques Esclassan FRA  
16° Marc Demeyer BEL  
17° Aldo Parecchini ITA  
18° Pierino Gavazzi ITA  
19° Robert Mintkiewicz FRA  
20° Piet Van Katwijck NED  
21° Jean-jacques Fussien FRA  
22° Pietro Algeri ITA  
23° Willy Teirlinck BEL  
24° Ludo Van Stayen BEL  
25° Alessio Antonini ITA  
26° Joseph Jacobs BEL  
27° Ferdi Van Den Haute BEL  
28° Willem Peeters BEL  
29° Bernard Thévenet FRA  
30° Antoine Gutierrez FRA

Partiti 191, arrivati 84.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#10
70a Edizione: 17 marzo 1979
L’esplosione di numeri che caratterizzò la 70esoma edizione della Classicissima, fece riflettere e diede spago a coloro che, in precedenza, magari come scusa per le loro difficoltà e sconfitte,  avevano in qualche modo criticato l’organizzazione. Vincenzo Torriani, che la sapeva lunga anche quando sbagliava, incassò come un dono i 264 partenti e diede al direttore della "Gazzetta", Gino Palumbo, l’incarico di dare il via a una corsa che il giornalista napoletano, aveva da sempre nel cuore. Ancora una bella e calda giornata di sole accompagnò quel gruppo che, quando muoveva velocità di nota, fra cima e fondo occupava oltre quattrocento metri di carreggiata. A Binasco, sempre su iniziativa dell’ormai solito Dirk Baert, stavolta accompagnato da Giancarlo Casiraghi, si formò al comando un drappello di 12 uomini: i due citati, nonché Walter Polini, Mario Noris, Annunzio Colombo, gli olandesi Jan Aling, Jan Van Houwelingen e Leo Van Vliet, ed i belgi Martin, Joseph Jacobs, Willy Teirlinck e Joseph Gijsemans. La dozzina di battistrada, con un vantaggio sul gruppo che oscillò fra gli 8 ed i 10 minuti, giunsero insieme fino alla Riviera. Qui però, iniziarono progressivamente i ce-dimenti e quando il grosso, sul Capo Berta, chiuse su tutti, gli ultimi a cedere furono Polini, Van Vliet e Martin. Sul Poggio, attaccò Raas, ma non successe nulla. In discesa tentò Saronni, ma anche in questa occasione non ci furono effetti. A quel punto partì Mario Beccia, che stava per fare il colpaccio, ma il veemente inseguimento di Vandenbroucke, portò sotto il gruppo, ed a cinquanta metri dalla linea, il pugliese venne superato da Roger De Vlaeminck, che bruciò Saronni, il norvegese Knut Knudsen e Moser.
[Immagine: 54525822_413035499270338_5175764057893896192_n-2.jpg]

Sul vincitore.
Nato a Eeklo (Belgio) il 24 agosto 1947. Alto 1.81; peso kg. 75. Cominciò a lavorare giovanissimo. Vendeva coperte e tovaglioli alle massaie, girando di porta in porta, ma i suoi guadagni erano modesti. Decise quindi di obbedire al padre e venne assunto in una fabbrica di tessuti a pochi chilometri da Eeklo. Il poco tempo che gli restava lo impiegava allenandosi in bicicletta. Trovò un amico che gli consigliò di correre. Si gettò, così, con entusiasmo nella mischia ed arrivano i primi successi. Tra i dilettanti centrò il Titolo belga di ciclocross e, successivamente, anche il Titolo mondiale.
Passò tra i professionisti nel 1969, ed al debutto vinse la Het Volk imponendosi in volala su Patrick Sercu. Tre mesi dopo diventò Campione belga su strada. Concluse l'anno con un bilancio di 16 vittorie. Ottimo passista, si difendeva in salita, eccellente sprinter. Vinse quattro Parigi-Roubaix, sei Tirreno-Adriatico; tre Milano-Sanremo, due Giri di Lombardia; un Mondiale di ciclocross. Novanta tappe di Giri ed altrettanti criterium. Padre belga, madre di origine gitana. La confluenza delle due "culture" tendenzialmente opposte gli lasciò in retaggio un carattere pieno di slanci e di conflitti. Passava da un ottimismo forsennato ad autentici complessi d'inferiorità. Nel 1969, durante una manifestazione su pista a Gand, conobbe Marlene (olandese) e se ne innamorò a prima vista. Frequenti viaggi in Olanda e poi, il matrimonio. Nacquero due femmine: Nadia e Snella. Nel 1985 non corse, o meglio partecipò solo a delle gare di ciclocross nazionali da individuale. Corse spessissimo in Italia con le maglia della Dreher, della Broocklyn, della Sanson e della Gis. 
[Immagine: 1211568892De%20Vlaeminck,%20Roger.jpg]
Professionista dal 1969 al 1988 con 251 vittorie. In sintesi: 11 gare a tappe; 6 Tirreno-Adriatico (1972-1973-1974-1975-1976-1977); Giro Svizzera (1975); 4 Giorni Dunkerque (1971); Giro Sardegna (1976); Giro di Puglia (1979); Giro di Majorca (1980); 57 gare in linea: 4 Parigi-Roubaix (1972-1974-1975-1977); 3 Milano-Sanremo (1973-1978-1979); 2 Campionati nazionali (1969-1981); 2 Giri di Lombardia (1974-1976); 2 Hel Volk (1969-1979); 2 Giri del Lazio (1975-1976); 2 Milano-Torino (1972-1974); 2 Coppe Agostoni (1975-1976); 2 Coppe Placci (1972-1974); due Sassari-Cagliari (1976-1978); Liegi-Bastogne-Liegi (1970); G.P. Escaut (1970); Freccia Vallone (1971); GP Camaiore (1972); Trofeo Matteotti (1973); Giro Toscana (1973); Giro Sicilia (1974); Giro del Veneto (1974); Campionato di Zurigo (1975); Trofeo Pantalica (1975); Giro dell’Emilia (1976); Giro delle Fiandre (1977); Giro Piemonle (1977); Giro del Friuli (1978); Milano-Vignola (1979); Trofeo Laigueglia (1980); Parigi-Bruxelles (1981); 90 tappe Giri (22 al Giro d'Italia); 13 tappe Tirreno-Adriatico; 6 tappe Giro di Sardegna; 9 Giro Svizzera; 6 Giro Puglia; 92 Criterium; Campione del mondo dilettanti di ciclocross (1968); Professionisti (1975). Ha corso per: Flandria (1969-1971); Dreher (1972); Brooklyn (1973-1974-1975-1976-1977); Sanson (1978); Gis (1979 e 1984); Boul d'or Colnago (1980); Daf (1981-1982); Gios (1983); Eddy Merckx (1986-1987); Hitachi (1988). A parere di chi scrive, il più grande classicomane della storia dopo Merckx e Van Looy.

Ordine d’arrivo:

1° Roger De Vlaeminck BEL Km 288 in 7h05'44" media 40,589 kmh
2° Giuseppe Saronni ITA  
3° Knut Knudsen NOR  
4° Francesco Moser ITA  
5° Giuseppe Martinelli ITA  
6° Luciano Borgognoni ITA  
7° Bernard Hinault FRA  
8° Daniel Willems BEL  
9° Giovanni Mantovani ITA  
10° Mario Beccia ITA  
11° Jean-luc Vandenbroucke BEL  
12° Jan Raas NED  
13° Joop Zoetemelk NED  
14° Michel Pollentier BEL  
15° Gerrie Knetemann NED  
16° Marc Demeyer BEL a 20
17° Walter Planckaert BEL  
18° Marc Renier BEL  
19° Salvatore Maccali ITA  
20° Paul Sherwen GBR  
21° Alfons Van Katwijck NED  
22° Dietrich Thurau ALL  
23° Erich Loder SUI  
24° Glauco Santoni ITA  
25° Bruno Zanoni ITA
Partiti 264, arrivati 154.


71a Edizione: 17 marzo 1980
Con 228 partenti s’avviarono gli anni ’80 della Sanremo. Favorito principe, Roger De Vlaeminck, nonostante i suoi 32 anni e mezzo, perché capace in tutte e tre le sue vittorie nella Classicissima, come del resto sovente in altre importanti corse, di saper scegliere il tempo giusto. Soprattutto in considerazione di quanto la Sanremo, aldilà della lunghezza, si stesse progressivamente trasformando in prova cerebrale.
Ovviamente, l’osservatorio italiano viveva la speranza che il duo Moser-Saronni, sui quali gravitavano attenzioni pressoché totali, rompesse il ghiaccio con quella gara, che si era fin lì dimostrata stregata.
A Certosa di Pavia, su iniziativa del vicentino Tullio Bertacco si portarono al comando con lui anche Angelo Tosoni ed il belga Etienne De Beule. I tre accumularono ben presto un grande vantaggio, ed a pochi chilometri da Capo Berta, quando il vantaggio era ancora sui 5 minuti, Bertacco e Tosoni, pro-bamente in preda ad un attacco di fatica, si toccarono e caddero. Per Tosoni la caduta tolse ogni possibile velleità, mentre Bertacco, riuscì a riprendersi e a raggiungere De Beule, nel frattempo rimasto solo al comando. In cima al Berta, i due battistrada scollinarono con 3 minuti sul gruppo. Pochi chilometri dopo però, quel tentativo che aveva resistito per 250 chilometri circa, finì. Ad Arma di Taggia, una strettoia provocò una gigantesca caduta che coinvolse una cinquantina di corridori (tra i quali Battaglin, Knudsen e Knetemann), tanti dei quali furono costretti a fermarsi. Prima del Poggio e sulla stessa erta, il vincitore del Giro d’Italia 1977, il belga Michael Pollentier, con la sua screziata pedalata (una delle più brutte della storia), cercò di opporsi alla probabile volatona, della prima parte del gruppo, ovvero quella che era rimasta al comando, dopo la strozzatura della caduta di Arma di Taggia. Guadagnò un centinaio di metri, ma all’ingresso di Sanremo fu riassorbito. La volata decisiva, fluida e corretta più del solito, vide Raas partire a tutta sulla destra, mentre Moser, al centro, prima di portare l’affondo, fu anticipato dal guizzo di Pierino Gavazzi che gli era a ruota (come gli aveva suggerito il suo direttore sportivo Franco Cribiori prima della corsa). Il trentenne corridore bresciano, davanti a tutti negli ultimi trenta metri, seppe poi contenere con un perfetto colpo di reni il ritorno di Saronni, alla sua sinistra. Aveva vinto un italiano, mettendo le pive nel sacco, a chi, in Italia, non riusciva a vedere più in là di Moser e Saronni. Ed infatti, i due, con la solita polemica post gara e le altrettanto solite frasi al veleno, diedero ulteriore spago, a quel teatrino sconsolante che ha caratterizzato per dieci anni il ciclismo della penisola.
[Immagine: gava.jpg]
Il ritratto del vincitore.
Nato a Provezze di Provaglio d'Iseo (Brescia) il 4 dicembre 1950. Passista veloce alto 1,69 per 66/67 kg.  Professionista dal 1973 al 1992 con 63 vittorie. Venti anni di carriera professionistica, intessuti su una totale dedizione al ciclismo ed alle sue leggi non scritte, che solo i fuoriclasse possono ogni tanto evadere, rappresentano la prima parte del biglietto da visita di Pierino Gavazzi. Il resto, si legge dalle affermazioni di prestigio internazionale che ha saputo cogliere, fra i suoi sessantatre successi e dai quasi cento secondi posti. Tutto ciò, gli ha dato popolarità e conoscenza che, non sempre, anzi poco, s’è tradotta nelle pagine dei commenti di un osservatorio giornalistico esageratamente e, talvolta, anche erroneamente legato al duo Moser-Saronni. Il tratto di Gavazzi, contiene le carriere dei due catalizzatori, che ha saputo anche battere su traguardi storici o da leggenda, fino a giungere agli anni del Bugno ruggente, verso il quale, ha sempre nutrito rispetto e ammirazione. Con questo bresciano, poi rimasto sulla breccia, per l’ammiraglia che ha guidato, per i figli corridori, Nicola e l’attualissimo Mattia, si apre una fetta enorme del ciclismo italiano, ed un mare di esperienze che ci aiutano a capire le dinamiche proprie del pedale degli ultimi quaranta anni.
Pierino, il diminutivo popolare e, potremmo dire, illustrativo del suo lungo nome anagrafico, era destinato alla fabbrica, alla vita anonima di milioni di persone. Scelse la bici più tardi dei più e quando già aveva provato i ritmi del lavoro, duro e sempre mal pagato, dei generici delle imprese industriali, ma fece presto a recuperare. Fu un ottimo dilettante, capace di cogliere significativi traguardi, usando il fondo e l’iniziativa, prima ancora del suo spunto veloce: caratteristiche, che dal 1973, ha trasportato stupendamente nel professionismo. 
[Immagine: 3-14.jpg]
Di taglia piccola, ma compatta e muscolarmente di nota, si legò alla professione del ciclista, una delle più dure (almeno ai suoi tempi), con lo spirito di chi si vuole arricchire di contatti, di esperienze, di viaggi, pur con una natura caratteriale taciturna riflessiva, sempre pronta all’osservazione e al mettere a frutto il vissuto. Non cambiò mai da quella linea, arrivando al pedale del miglior Merckx e proseguendo fino al miglior Indurain, senza voler dare l’impressione di essere, e di essere stato, qualcuno anche lui. È restato al suo posto con dignità e validità, mettendo sulle strade condotte fatte di generosità e fatiche, che non possono giustificare, in alcun modo, la definizione che in tanti gli hanno data, di semplice velocista. Già, perché Pierino, non ha mai aspettato egoisticamente l’arrivo per portare fresco il suo indubbio spunto di velocità e non ha mai avuto treni, o quattro o cinque compagni a disposizione. Lui battagliava, andava in fuga, tirava, si muoveva come un passista completo e, per questo, spesso è giunto con le polveri un po’ bagnate all’arrivo, come dimostra l’infinità di piazzamenti ottenuti.
Ovvero risultanze significative dello spessore del corridore Gavazzi, ma troppo numerose per non aprire, sovente, le trombe dell’idiota atteggiamento che l’osservatorio ciclistico ha sempre dimostrato verso i posti d’onore. Ed a quei “qualcuno”, che mettono sulle ammiraglie dilettantistiche i bollini delle vittorie ottenute, come fossero pegni di valenze “mercsiane”, quando nella realtà sono piccoli gradini di un apprendistato che solo i miopi possono vedere come un arrivo; o a quelli che sviluppano, sull’inutilità agonistica delle odierne Granfondo, i servizi destinabili ai traguardi della leggenda del pedale, è bene ricordare che tal Pierino Gavazzi, fra una marea di campioni (corridori che oggi si vedono col binocolo), è stato uno che a vinto quel che segue. Le tre maglie tricolori conquis-tate nel '78 a Odolo, nell'82 nella Tre Valli Varesine e nel 1988 (a 38 anni) nella Coppa Placci, fanno da contorno e sintetizzano i suoi meriti, che hanno brillato particolarmente in occasione del 1980, il suo anno di grazia, dove conquistò la Milano-Sanremo (davanti a Saronni e Raas) e la Parigi-Bruxelles (su Demeyer e Vandenbrande). Ma anche su classiche, come la Milano-Torino '78, il Trofeo Laigueglia '79 e ‘89, il Giro di Campania '79, il Giro di Romagna '80 e '84, il Giro dell'Emilia '81-82, il Giro del Veneto '82, la Tre Valli Varesine '84, il Giro di Reggio Calabria '83, il Gran Premio di Prato '84 e ‘89, la Nizza-Alassio '85, il Trofeo Matteotti '85, il Giro di Puglia '77. Ha poi vinto cinque tappe del Giro d'Italia, una del Tour de Suisse, una del Romandia, quattro del Giro di Catalogna e cinque del Giro di Puglia. Insomma un corridore di spessore che fa piacere ricordare.

Ordine d’arrivo:
1° Pierino Gavazzi ITA Km 288 in 6h42'07" media 42,973 kmh
2° Giuseppe Saronni ITA  
3° Jan Raas NED  
4° Sean Kelly IRL  
5° Roger De Vlaeminck BEL  
6° Francesco Moser ITA  
7° Jacques Bossis FRA  
8° Klaus Peter Thaler ALL  
9° Giuseppe Martinelli ITA  
10° Fons De Wolf BEL  
11° Paul Sherwen GBR  
12° Freddy Maertens BEL  
13° Marcel Tinazzi FRA  
14° Dietrich Thurau ALL  
15° Gilbert Duclos-Lassalle FRA  
16° Jean-luc Vandenbroucke BEL  
17° Roberto Ceruti ITA  
18° Bruno Leali ITA  
19° Silvano Contini ITA  
20° Ludo Peeters BEL
Partiti 228, arrivati 139.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#11
80a Edizione: 18 marzo 1989
Sotto una pioggia battente che proseguì per tre quarti di corsa, partirono da Milano in 207. I favori del pronostico alla vigilia andavano per la gran parte a Kelly, indi ad Argentin e all’iridato Fondriest. Lungo l’elenco degli outsider fra i quali il vincitore uscente Laurent Fignon, il quale fopo la grande vittoria dell’88 s’era eclissato per tutta la stagione a causa, si diceva, dei soliti guai al ginocchio. Problemi che l’avevano costretto al ritiro anche alla Parigi Nizza di qualche giorno prima della Classicissima. Le negatività o le sfortune però, allora come oggi, possono sciogliersi rso con più facilità, quando ci si trova di fronte a dei fuoriclasse come Laurent.
Il gruppo sotto l’acqua a catinelle proseguì senza scossoni fino alle vicinanze di Voltri dove evasero Roberto Pagnin, Marco Lietti, Davide Cassani e Claudio Chiappucci. I quattro, a Finale Ligure, si ritrovarono con 5'30" di vantaggio, ma lì il grosso iniziò a macinare l’inseguimento. Sul Berta vennero riassorbiti Lietti e Cassani, ed ai piedi della Cipressa, anche Chiappucci e Pagnin. La salita mise a turno in evidenza i big, ma non si registrarono azioni importanti, o tali da incidere sulla corsa. Gli scatti di maggior peso avvennero invece nella pianura antecedente il Poggio: prima Galleschi, indi l’olandese Maassen che guadagnò duecento metri, fino a quello pesantissimo di Fignon, che rinvenne sul tulipano e che, per poco, non lo staccò di slancio. I due arrivarono sull’erta con una dozzina di secondi, quindi non ancora in sicurezza. Qui Maassen, autore di una gara eccezionale, provò ad accelerare ulteriormente, forse per vedere come rispondeva Fignon, ma il francese a metà Poggio fece vedere di che pasta era fatto. Inserì un lunghissimo rapportò, che avrebbe spezzato le gambe a chiunque e salutò il bravissimo compagno. Il resto fu una passerella trionfale per il parigino che andò a vincere con uyna delle più belle testimonianze di forza e superiorità dell’intera storia della Sanremo, ma anche per l’olandese che seppe anche lui incrementare il vantaggio sul gruppo dei big e che solo un mostruoso Fignon, quel giorno poteva battere. A 30”, Baffi vinse la volata per il terzo posto su un gruppo che s’era assottigliato per un gran numero di cadute. Per Fignon, si trattava della nona doppietta, consecutiva nel romanzo della Classicissima. Chapeau!
[Immagine: Fignon_Milano_Sanremo_1989.jpg]

Sul vincitore.
Laurent Fignon, il mio campione

(Articolo scritto il giorno dell'annuncio della morte di Laurent, nato il 12 agosto 1960 a Parigi, ed ivi deceduto il 31 agosto 2010. Professionista dal 1982 al 1993, con 85 vittorie).

Laurent Fignon non è stato per me solo un grande campione, era il mio campione. Uno dei pochi, pochissimi, che m'hanno spinto al tifo fra quella massa di ammirati che sono da sempre, nelle mie orbite, i corridori in bicicletta. Uno a cui sono giunto, pur senza la spinta che viene da chi ha in qualche modo steso il tappeto della predestinazione, dell'annuncio. Mi sono sempre chiesto come mai e me lo chiedo anche oggi, nel giorno in cui alla commozione e alle lacrime per la sua grave malattia che le mie debolezze non han mai trattenuto, si sono aggiunte le ragioni dell'irreparabile.
S'era alla Tirreno Adriatico, l'anno era il 1983, l'arrivo di tappa era posto sulla collina di Acquaviva Picena, il paesaggio era quello tipico delle Marche: bella terra, un po' troppo dimenticata, dove tanti paesini sono posti su quei cucuzzoli che li trasformano in vedette sul mai lontano Adriatico. Lì, su quelle pendenze, in un gruppetto di corridori tutti bravi, c'era anche lui, quel biondino con gli occhiali e la fascia di spugna sulla fronte, che s'era già ben comportato qua da noi al Giro d'Italia dell'anno prima. Lo vidi partire a ridosso di un ponte, quando già l'ascesa aveva imposto le sue leggi di fatiche suppletive. L'immagine la ricordo bene, anche se giungeva a me da un vecchio televisore posto su un salone di un circolo d'una piccola frazione, nel baccano e nel fumo che rendeva tutto più grigio, offuscando i contorni già attenuati di quell'anziano strumento. Ma erano ugualmente belli, perché l'azione di quel poco più che puntino era potente, persino armoniosa e fra le curve in salita che portavano all'arrivo, il suo passo si mostrò impossibile anche per gente assai più conosciuta ed adattissima a simili arrivi, come il più volte campione di Spagna Juan Fernandez, il talento croce e delizia del belga Fons De Wolf, l'astuzia e la progressione di un olandese che stava sovente nelle attenzioni di Martini, come "Fritz" Pirard e l'epica abnegazione dell'italiano Wladimiro Panizza. Non so perché e non lo saprò mai, ma quando Laurent giunse ad alzare le braccia in segno di vittoria, era già nel mio cuore, era il mio corridore: sì, dopo Merckx, era lui che mi risvegliava le corde del tifo. Urlai un liberatorio: "Sei un campione!". Attorno a me, c'erano persone che mi conoscevano in ben altra veste e ricordo lo sguardo di stupore dietro ai baffoni dell'anziano "Gianin", un vecchio partigiano, che s'affrettò subito a dire nel nostro dialetto: "ma l'è un franzes!". Chissà, forse quel coinvolgimento nazionalistico che contorna lo sport e che ho sempre odiato, presentandosi da subito nel mio intorno, cementò decisamente in me quel caleidoscopio di sentimenti che si schiudono, appunto, nel tifo.
[Immagine: fignon-a-l-avant-en-1984-photo-afp-1562751300.jpg]
Laurent, giunse a me così. Ed in tutti gli anni seguenti, per sempre potrei dire, non ho mai abbandonato quel solco. Ho scoperto e vissuto come tutti il campione che divenne, vivendolo però nell'intensità emotiva e per questo umanamente straordinaria, di chi lo portava nel cuore. Ho così gioito al massimo possibile per le sue vittorie, ed ho sofferto con forza uguale e contraria, le sue sconfitte. Non mi sono mai sentito in crisi, perché Fignon lo scoprii eccezionale anche come uomo, proprio per quella dote in possesso di pochi, di non cercare di farsi vedere per quello che non si è, e di mostrare con la quotidiana narrazione di se stessi, le proprie debolezze e distinzioni. Un uomo chiaro e di spessore, divenuto campione in uno sport come il ciclismo, dove il valore di una persona si testimonia soprattutto sulla strada, poiché l'ambiente sa scartare, omettere e giocare oltre misura col comune vezzo di ipocrisie e falsità, le realtà intellettuali ed umane dei singoli. Un personaggio pure scomodo, anche se in molti non lo voglion dire, proprio per il gioco di quei vezzi; onesto nelle quantificazioni di fondo e denso di quella dignità che ha saputo insegnare anche ai tifosi come me. Ci lascia, aldilà del suo ricordo e degli insegnamenti venuti dalla sua voce e dalle sue pedalate, un libro capolavoro, da considerarsi testo fondamentale per chi studia e vive il ciclismo e le sue trasformazioni. E lo ha scritto veramente lui, di suo pugno.
Un campione uomo che ha saputo azzerare la banalità, ed intenso su taluni passaggi dimenticati, perché considerati comuni. Sì, un professore, con le gambe di un fuoriclasse e la testa di uno splendido essere umano, che sa spiegare l'incoscienza della gioventù, come la fontana d'acqua fresca nell'estate della vita. Caro Laurent, ti piango perché son debole, ma sei stato e sei così grande, da farmi sentire migliore per esser stato tuo tifoso.

Ordine d’arrivo:
1° Laurent Fignon FRA Km 294 in 7h08'19" media 41,184 kmh
2° Frans Maassen NED a 7"
3° Adriano Baffi ITA a 30"
4° Ronan Pensec FRA  
5° Sean Kelly IRL  
6° Danilo Gioia ITA  
7° Rudy Dhaenens BEL  
8° Gérard Rue FRA  
9° Giuseppe Calcaterra ITA  
10° Etienne De Wilde BEL  
11° Gert-Jan Theunisse NED  
12° Steve Bauer CAN  
13° Dag-Erik Pedersen NOR  
14° Steven Rooks NED  
15° Jan Goessens BEL  
16° Daniele Bruschi ITA  
17° Erich Maechler SUI  
18° Eddy Planckaert BEL  
19° Vincent Barteau FRA  
20° Rolf Sorensen DAN   
Partiti 207, arrivati 116.


81a Edizione: 17 marzo 1990

La prima preoccupazione dei 213 corridori al via fu quella di trovare i migliori sistemi per ripararsi dal vento contrario. Ed infatti nei chilometri costeggianti il Naviglio, si formarono ventagli ed il gruppo si spaccò in più tronconi. Dopo il Po, i primi due si riunirono mentre un altro groppone inseguiva a due minuti di distanza. Del troncone inseguitore facevano parte taluni big: si tutti il vincitore uscente Fignon, l'iridato Lemond e Kelly. Sul Turchino, passò in testa Galleschi ed il vantaggio dei primi 122 corridori sugli altri salì a due minuti e mezzo, ma poco dopo Voltri, la differenza assinse in connotati della sconfitta: 14 minuti. Ed infatti sui registrò il ritiro in massa del secondo troncone. La Riviera segnò la svolta del vento che divenne favorevole, aumentando la velocità della corsa in maniera impressionante. Ad Imperia scattò Angelo Canzonieri e gli rispose il solo Giannio Bugno che al bivio della Cipressa scaricò il compagno. La pedalata del monzese, fin lì grande speranza non ancora compiuta del ciclismo italiano, fu di quelle da lasciare senza fiato. Sempre con un vantaggio sulla carta recuperabilissimo, superò Cipressa (in cima aveva 18”) e tutta la pianura trabocchetto prima del Poggio ed arrivò all’erta finale con 12 secondi, mentre dietro gli inseguitori per riprenderlo si erano frantumati. Sull’ascesa partì Delion, indi, in contropiede il tedesco Rolf Golz, ma davanti un Bugno stellare controllò e vinse con un’azione come non si era mai vista da quando la Cipressa era entrata sul tracciato della Classicissima. Golz arrivò a 4” e Delion a 23”.  Il ciclismo italiano tornò al successo sei anni dopo Moser e Bugno con quella prestazione da fuoriclasse storico del ciclismo, fissò la media record, in 45,806 kmh! Una performance ancora oggi imbattuta.
[Immagine: Bugno_Milano_Sanremo_1990.jpg]

Sul vincitore

Il Gianni, magnifico atleta, campione di ciclismo e d’implosione.
Gianni Bugno, introverso o semplicemente modesto fino a negare l’evidenza del suo sangue blu raro, del suo talento da eletto?
“Non mi si perdona di non essere un personaggio” – diceva.
Era sempre così, oppure lui ci metteva del suo?
Da ragazzino gli piaceva la matematica e sognava di fare da grande l’ingegnere aeronautico, eppure la sua carriera sulla bicicletta, è stata spesso tinta degli episodi tipici dell’atleta incapace di calcolare anche le distanze più brevi, come gli capitò ai Mondiali del 1991 e al Giro delle Fiandre del 1994, quando mise in discussione due vittorie certe, fino alle differenze minime: nel secondo caso, addirittura di un tubolare. Ma non sempre gli andò bene, perché in mezzo a quei due episodi, ve ne fu uno che fa ancora rabbia solo a pensarci, quando nell’Amstel Gold Race ’93, si fece anticipare di un niente da un avversario, lo svizzero Rolf Jaermann, che avrebbe battuto novantanove volte su cento in una volata a due. Oppure, quando provò, l’unica volta in vita sua, ad uscire dal suo classico “Vedremo” ed a dire, deciso, dopo la debacle al Tour ’94: “Aspettatemi al Mondiale, non sono finito e scommettete su di me!” Ed invece fu fermato per caffeina (ennesima stupidaggine grave solo per l’antidoping), altrimenti, forse, sarebbe stato un ematoma da caduta, a stopparlo prima ancora di correre.
[Immagine: 16550276051325Bugno,Gianni.jpg]
E che dire sui suoi “calcoli” di giudizio?
Di Chiappucci, il suo avversario per eccellenza, per pressappoco medesima età e quella geografia di zona che conta eccome nello sport, diceva: “E’ il mio opposto, lui ama la gente e sentirsi personaggio. A volte esagera e così si fa male”. Poi, invece, si scoprì che l’esuberanza e la ricerca del personaggio in Chiappucci, era un modo efficace per ovviare alla mancanza di supremo talento, ed arrivare là dove non era pronosticabile, mentre con la sua cautela, i suoi dubbi, la sua tenera bontà di ragazzo piovuto sulla bicicletta, fu proprio Bugno a farsi del male, sfregiando non poco quel curriculum da grandissimo della storia, al quale, la logica, prima di ogni altra ragione, s’era permessa di scommettere.  
Ancora calcoli inesatti e implosivi.
Le sue fughe d’amore. Niente di più naturale alla lettura non ipocrita del corso umano, ma come tutti gli aspetti che cozzano sovente con l’involucro d’ipocrisia di cui l’uomo imperfetto e perciò bellissimo si cosparge, vanno difesi, protetti, affinché le reazioni degli altri, non siano in grado di sfregiare. Capitò così per Bugno? No! Assolutamente no!
Non bastava dire: “Una donna non distrae, è una componente fondamentale nella vita di un uomo. Mi piacciono le belle donne, è una colpa?”. Era necessario capire, avere possesso chiaro del fatto che il ciclismo, ieri come oggi, rappresenta l’ultimo stupido baluardo del puritanesimo, perché aldilà del tanto resto vigente, una storia d’amore di un corridore con una ragazza, definisce automaticamente costei come “la dama bianca”, con tutto quello che ne consegue. L’amore è proibito, galeotto, illegale. Il ciclismo deve essere solo sofferenza, monogamia, sacrifici da monaco, si devono dimenticare i sensi per giungere agli status di forzati della strada. Uno schifo! Ed allo schifo non si risponde con la bontà, la gentilezza, la cautela, ma con la repulsione, la difesa cattiva della civiltà, in altre parole con l’agonismo che serve per battere i colleghi. Altrimenti l’intorno finisce per entrare nell’interno del coinvolto e ad implodere, proprio quello che capitò a Bugno. Era dunque necessario andare oltre a quella esternazione ulteriore, che suonava come resa o liberazione dal fulcro realistico che vedeva l’antipersonaggio Gianni - capace comunque di fare proseliti, creare club, portare al tifo e alle lacrime centinaia di migliaia di persone -  riassumere il tutto, privacy ed epica ciclistica comprese, con: “Sono solo un lavoratore del ciclismo io, che vince o perde, niente altro”.
Sì, buon senso, come sempre tanta bontà, pure quella intelligenza che non è mai mancata negli orizzonti di uno dei pochi corridori liceali (soprattutto ai suoi tempi), poi capaci di svolgere a fine carriera il lavoro che non ci si aspetterebbe mai. Ma il buon senso e la bontà, nello sport immerso nel pesante rapporto con quei media che pesano sovente più delle salite, sono poco più di niente. Il compianto dottor Cavalli, diceva ai rampolli della più forte generazione di ciclisti italiani, che Merckx era a loro superiore solo nella testa, in quel coacervo di stimoli nervosi che si traducono nella determinazione che si chiama cattiveria agonistica. Gianni Bugno era un signore, una gran brava persona fin da ragazzo, con una classe superiore a tanti grandi della storia. Uno dei  primissimi, per intenderci, mai salito su una bicicletta, ma un incompiuto rispetto al talento. Ha vinto tanto, nonostante tutto, ha emozionato come pochi; ha scritto pagine capaci di far piangere per tanto ben di Dio in un corpo solo,  come nella Milano Sanremo del 1990 (mai visto uno vincere così), ma ci ha lasciato le più incredibili delle consapevolezze: lo sport non è solo grandiosità atletica, il ciclismo non sta solo su quei muscoli dorsali che consentivano ad uno come lui, di spingere rapporti che nessuno si poteva permettere, al punto di far apparire la sua pedalata come simbolo di perfezione. Lui, Gianni Bugno, si è accontentato, è diventato campione con la “c” maiuscola, chiedendo permesso, come se la sua fosse una esibizione di kata ed è stato capace di lasciarci stupiti quando, dopo aver trionfato nel secondo mondiale consecutivo, a Benidorm, in Spagna, quasi chiese subito scusa: “Mi dispiace di aver vinto in casa di Indurain”.
Come si faceva a non amare una simile figura?! E come si poteva non prestare incanto verso colui, che più di ogni altro, da nobile, ci ha fatto conoscere cosa sarebbe il socialismo nello sport dell’utopica società opulenta di John Kenneth Galbraith?!  
Sì, tanto amore, ma senza che ce ne voglia, a noi che missionari non siamo, anche tanta rabbia.

Ordine d’arrivo:
1° Gianni Bugno ITA Km 294 in 6h25'06" media 45,806 kmh
2° Rolf Golz ALL a 4"
3° Gilles Delion FRA a 23"
4° Moreno Argentin ITA a 31"
5° Maurizio Fondriest ITA
6° Jean-claude Colotti FRA
7° Jesper Skibby DAN
8° Adriano Baffi ITA a 1'02"
 9° Johan Museeuw BEL  
10° William Dazzani ITA  
11° Andreas Kappes ALL  
12° Brian Holm Sorensen DAN  
13° John Talen NED  
14° Rolf Sorensen DAN  
15° Per Pedersen DAN  
16° Acacio Da Silva Mora POR  
17° Eduardo Rocchi ITA  
18° Fabrice Philipot FRA  
19° Gianluca Pierobon ITA  
20° Arno Kuttel SUI
Partiti 213, arrivati 113.

Maurizio Ricci detto Morris

-Continua-
 
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#12
86a Edizione: 18 marzo 1995
Allo start dei 191 partenti si capì subito che c’era un corridore voglioso di mettersi in evidenza. Costui rispondeva al nome di Christian Salvato, neoprofessionista 23enne con un gran passato nelle categorie minori, dove si portava in dote tre maglie iridate nella cronosquadre: una da junoiortes e due da dilettante. Partito ancor prima del cartello del primo chilometro rimase al comando in solitudine per 220, segmento nel quale raggiunse un vantaggio massimo di 11’. Sul Capo Mele le prime ostilità, ma nessuna con connotati tali da segnare la corsa. All’attacco della Cipressa il gruppo compatto si assottigliò fino ad una cinquantina d’unità. Sul Poggio il russo Vladislav Bobrik, vincitore dell’ultimo Lombardia, provò a rendere frenetica l’andatura, ed il gruppo al comando s’assottigliò ulteriormente fino a spezzarsi a causa di due moto che toccandosi rallentarono assai il ritmno di chi stava dietro, fra i quali le ruote veloci di Baldato, Cipollini, Sciandri e Museeuw. Sul falsopiano ad uno scatto di Fondriest rispose il francese Laurent Jalabert e per poco anche “Maciste” Stefano Zanini. I due imboccarono la discesa con una manciata di secondi. All’inseguimento della coppia si collocò un gran discesista come Dimitri Konychev in appoggio a Rebellin, ma a vantaggio dei battistrada, che pure pedalavano speditissimi soprattutto grazie a Fondriest, sorse un problema meccanico alla bici del russo e lì si capì che la Sanremo era un gioco a due. Lo sprint decisivo, infatti, fu facilmente vinto da Jalabert, che spinse il corridore trentino, ad allargare le braccia come a dire: “questo qui era impossibile batterlo, soprattutto se a tirare, ci ha pensato solo il sottoscritto”. Ma il francese era un vincitore degno, che suggellava il fresco successo alla Parigi Nizza e metteva un altro mattone sul ricordo della terribile caduta di Armantières, al Tour dell’estate precedente.
[Immagine: sanremo95-jalabert-win-fondriest-920.jpg]

Sul vincitore.
Nato a Mazamet (Francia) il 30 novembre 1968. Al suo debutto, nel 1989, si annunciava come un velocista. Poi, pian piano, iniziò a difendersi su ogni terreno cogliendo oltre ad una decina di vittorie in gare di medio blasone un'infinità di piazzamenti di peso: 2° a San Sebastian '90, 2° Campionato di Zurigo '91, 7° Amstel Gold Race '91, 8° Giro di Lombardia '91. Sempre nel 1991 si piazzò 2° nella classifica di Coppa del Mondo e 16° nel ranking UCI.
Con la stagione '92 e il suo passaggio alla Once di Manolo Sainz, la sua esplosione, attraverso le urla di nove successi, tra i quali una tappa e la maglia verde al Tour de France, il secondo posto al Campionato del Mondo, dove fu battuto da Gianni Bugno, nonché il 5° posto in Coppa del Mondo. La sua crescita parve inarrestabile nel '93, dove ottenne ben 18 successi, anche se non di primissimo livello, ma nelle classiche fu sempre fra i primi.
[Immagine: Laurent_JALABERT_%28cropped%29.jpg]
Nel 1994, dopo aver vinto 7 tappe e la classifica a punti alla Vuelta di Spagna, attraverso una bruttissima caduta ad Armentière, durante il Tour de France, dove un imprudente poliziotto francese, per fotografare i ciclisti, provocò un mezzo disastro che fece perdere a Laurent gran parte della dentatura (anche Wlfred Nelissen e Alexander Gontchenkov uscirono malissimo), si concretizzò la seconda parte dell'evoluzione di Jaja, come già veniva soprannominato Jalabert. Già, perché i mesi atti al recupero forgiarono la sua tempra e le sue convinzioni al punto di far vedere, al suo rientro, un corridore ben diverso. Nel 1995, infatti, Laurent si dimostra un corridore superiore nelle classiche e negli atteggiamenti verso le stesse corse a tappe: vinse la Milano-San Remo e la Freccia Vallone, la Vuelta di Spagna con cinque tappe all'attivo e tutte le classifiche, nonché la Parigi-Nizza e il Giro della Catalogna. Al Tour de France finì 4°, ma conquistò la maglia verde, una vittoria di tappa ed indossò per tre giorni la maglia gialla. Furono 30 le vittorie a fine stagione di Jalabert, nuovo numero uno al mondo sia nel ranking UCI e sia per la stampa internazionale.
Nelle stagioni '96 e '97, si confermò numero uno UCI, vincendo una miriade di corse fra le quali altre due classiche: Freccia Vallone e Giro di Lombardia '97. Sempre nel 1997 si laureò a San Sebastian, campione del Mondo a cronometro. Dopo un 1998 dove le pur copiose vittorie non furono di spessore tale da consentirgli la prima posizione nel ranking, si rifece nella stagione successiva, nella quale partecipò anche al Giro d'Italia (4° con tre tappe vinte) e riuscì a mietere il solito gruppo di successi. Nella classifica UCI di fine secolo fu dunque Jaja il numero uno. Col 2000 iniziò la sua lenta flessione, ma l'entità dei successi continuò ad essere alta. Un dato che testimoniava la tangibilità si ebbe a fine stagione, quando abbandonò la Once e si riscontrò che Jalabert nelle nove stagioni con quella maglia, aveva raccolto più di 140 successi! A 33 anni firmò un contratto con la squadra danese CSC Tiscali e mantenne un trend di vittorie da far rabbrividire. Ai Tour del 2001 e 2002 conquistò la maglia di miglior scalatore ed in entrambi gli anni vinse la Clasica di San Sebastian. A fine 2002 si ritirò dall'attività agonistica con un palmares tra i più grandi, nei numeri, dell'intera storia: 186 successi.

Ordine d’arrivo:
1° Laurent Jalabert FRA Km 294 in 6h45'20" media 43,520 kmh
2° Maurizio Fondriest ITA
3° Stefano Zanini ITA a 4"
4° Davide Rebellin ITA
5° Michele Bartoli ITA
6° Fabiano Fontanelli ITA a 13"
7° Dimitri Konyshev RUS a 14"
8° Claudio Chiappucci ITA a 17"
9° Jesper Skibby DAN
10° Fabio Baldato ITA
11° Mario Manzoni ITA
12° Johan Museeuw BEL
13° Fabrizio Bontempi ITA
14° Andrei Tchmil UKR
15° Maximilian Sciandri GBR
16° Rolf Sorensen DAN
17° Vladislav Bobrik RUS
18° Jens Heppner ALL
19° Giovanni Fidenza ITA
20° Luca Gelfi ITA
Partiti 193, arrivati 162.


92a Edizione: 24 marzo 2001
Furono 193 i partenti alla novantaduesima edizione della Milano Sanremo che presentò una grande novità: per la prima volta, a causa di una frana non si sarebbe percorso il Passo del Turchino, sostituito dall’inedita salita del Bric Berton, colle più alto (773 metri s.l.m.) dell’emblema della Classicissima, ma anche un poco più tenero. Il tema della corsa, una volta di più sembrò essere: “come impedire lo sprint di Zabel”. Col tedesco nel ruolo di uomo da battere, la corsa iniziò all’insegna del “vogliamoci tutti bene che c’è un panorama nuovo da vedere”. Fino a Capriata d'Orba, infatti, con poco più di cento chilometri alle spalle, nessuna azione. Poi nei paraggi della località citata, allungarono  Kadlec, Matveyev, Latasa e Rittsel. I quattro fuggitivi sempre a ritmi non infernali, arrivarono a racimolare il vantaggio massimo a Savona, dopo 180 chilometri, quando le lancette toccarono i 9’50”. Ma lì il gruppo si svegliò e a Capo Berta riagguantò Latasa, Kadlec e Rittsel, mentre Matveyev, continuò la fuga da solo, tentativo che si spense ai piedi della Cipressa.  Sulla salita dopo un tentativo di Barbero, allungarono Hamburger, Aerts, Farazijn e O'Neill. Sui quattro si riportarono Vinokourov e Casagrande prima, e, successivamente, Bettini. In vettà passò primo Casagrande, che era scattato negli ultimi 800 metri, con 15" su Bettini, Vinokourov e Farazijn. In discesa, davanti si ricompattarono e sui battistrada rientrarono Savoldelli e Balducci. Sembrava un’azione destinata a miglior sorte, ma dopo pochi chilometri di pianura, il gruppo chiuse il tentativo.In contropiede partì il belga Nico Mattan, che imboccò il Poggio con qualche secondo di vantaggio, ma sui primi tornanti della salita, anche il suo tentativo svanì. Ancora Gabriele Colombo, che alla Sanremo si trasformava, scattò e superò la cima in testa, seguito quasi a ruota da Van Petegem, Bartoli, Bettini, Rebellin e Petito. La discesa, percorsa a ritmo inferire alle precedenti edizioni, consentì a Cipollini di rientrare e, finalmente, giocarsi la Classicissima che amava tanto. Anche uno scatto di Dekker all’ultimo chilometro, non ebbe esito. Volata inevitabile. Matteo Fagnini lanciò bene Erik Zabel, mentre Cipollini venne ostacolato da Planckaert (che poi sarà retrocesso per questo) ed ai 250 metri, oltre la 10a posizione, una paurosa caduta coinvolse 22 corridori (fra questi Zanini, Konyshev, Rebellin, Tchmil e Guidi). Lo stupendo acuto di Zabel fu sufficiente a contenere l’altrettanto stupendo ritorno di Mario. Il tedesco centrò dunque in grande poker. Fortunatamente nessuno dei caduti si fece molto male.
[Immagine: Zabel2001.jpg]
Sul vincitore.
Nato a Berlino Est il 7 luglio 1970. Velocista. Professionista dal 1992 al 2008, con 239 vittorie.  
Un atleta forte, serio, gentile, onesto e persino simpatico ai colleghi, nonos-tante la naturale spinta all’antipatia, che può sorgere in chi vince tantissimo come lui. Una dimostrazione di doti umane che fanno di Erik Zabel una bellissima figura e sulla quale ogni elogio è sempre giustificato e corretto. E dire che si muoveva negli sprint divenuti, nell’era contemporanea, ancor più caotici rispetto al passato lontano, dove le scorrettezze, talvolta dettate dalla stessa dinamica imposta dai treni, sono da considerarsi quasi una realtà. Uno che non s’è mai abbandonato alla lagna, che ha pure subito dei torti dalla squadra a cui ha dato tanto, ed uno che si è sempre migliorato assestando le sue dinamiche agonistiche, sul metro del massimo possibile, al netto del peso, sul suo fisico, dei tanti anni di carriera. Pure geniale nel capire la necessità di frequentare la pista d’inverno, al fine di tenere fluide le pedalate e la ritmicità, dimostrando di essere lui stesso il miglior tecnico possibile per sé. Al dunque della montagna di facoltà a monte, s’è eletto atleta veloce che non ha mai mortificato i percorsi ed illuminato ogni gara col massimo dell’impegno, giungendo ad essere il velocista che più teneva in salita e che si poteva determinare, da solo, come l’icona di una prova come la Milano Sanremo, divenuta negli anni cerebrale, per non dire la più facile e, perciò complicata, delle classiche. Classica che ha vinto quattro volte, potremmo dire cinque, perché una se l’è giocata per l’entusiasmo che gli stava sopraggiungendo, facen-dosi beffare da Freire. Oppure quando concludeva i Tour de France in Maglia Verde o in lotta per la stessa, come un segno di serietà esemplare, nonostante le montagne e, ancora una volta, la poca tutela da parte delle formazioni in cui ha militato. Dire ad uno come Erik, “chapeau”, è d’obbligo, prima ancora della naturale volontà che viene ad ogni sportivo che ha avuto la fortuna di vederlo all’opera. 
[Immagine: Henninger_Turm_2006_-_Erik_Zabel.jpg]
Una sintesi veloce delle sue 239 vittorie e dei tanti piazzamenti di pregio ci portano in dote grandissimi numeri. È stato due volte Campione tedesco su strada (1998-2003); 2 volte Campione tedesco di Criterium fra i dilettanti (1990 e 1992); 4 Milano Sanremo (1997-1998-2000-2001); 3 Parigi Tours (1994-2003-2005); 3 GP di Francoforte (1999-2002-2005); Amstel Gold Race (2000); 6 volte vincitore della Classifica a Punti del Tour de France (1996-1997-1998-1999-2000- 2001); 2 volte vincitore della Classifica a Punti della Vuelta di Spagna (2003-2004); 12 tappe al Tour de France; 8 tappe alla Vuelta di Spagna; Numero Uno del Ranking UCI nel 2001 e 2002; Coppa del Mondo (2000); 13 Sei Giorni. La rifrazione dei suoi successi su strada, da professionista, ci evidenzia: 7 successi nella Classifica Generale in corse a tappe contenute nella settimana; 11 vittorie nelle Classifiche a Punti, 122 tappe vinte; 2 Campionati Nazionali, 2 Gare dietro Derny, 51 Criterium, 28 corse in linea; una Speciale Classifica (World Cup). Analizzando poi il suo ruolino anno per anno, sempre da professionista: 1992 - 2 vittorie; 1993 - 6 vittorie; 1994 - 9 vittorie; 1995 - 10 vittorie; 1996 - 14 vittorie; 1997 - 28 vittorie; 1998 - 20 vittorie; 1999 - 16 vittorie; 2000 - 22 vittorie; 2001 - 31 vittorie; 2002 - 23 vittorie; 2003 - 15 vittorie; 2004 - 10 vittorie; 2005 - 8 vittorie; 2006 - 10 vittorie; 2007 - 8 vittorie; 2008 - 5 vittorie.
Erik Zabel, figlio di Detlef corridore dilettante soprattutto pistard, è cresciuto nella DDR, ma non passò al ciclismo per “suggerimento” dei funzionari di Stato, bensì per vocazione potremmo dire di famiglia. Dopo Erik, infatti, è divenuto corridore di buon livello, suo figlio Rick, tutt'oggi in attività.
L’ultima corsa di Eric Zabel è stata la Parigi Tours 2008 e non si contano gli occhi lucidi che coinvolsero l’intorno dopo che il grande Erik aveva superato il traguardo. Nella sua carriera manca solo quella Maglia Iridata che ha sfiorato tre volte: nel 2004 e 2006 finì 2°, mentre nel 2002 fu 3°. Un grandissimo comunque. Basti citare a come si mise a disposizione di Alessandro Petacchi negli ultimi anni di carriera. Certi aspetti contano più delle insegne e Zabel, l’iride alla carriera lo merita eccome. Chissà che fra i tanti balzelli di semplice ricerca di danaro da parte dell’UCI, non venga in mente a quello strano governo deturpatore di ciclismo, un’opera buona: l’istituzione di una semplice laurea honoris causa ad atleti che, come Erik, si sono meritati in carriera qualcosa di più della fredda statistica condita di parole di mera circostanza.

Ordine d’arrivo:

1° Erik Zabel ALL Km 287 in 7h23'13" media 38,852 kmh
2° Mario Cipollini ITA  
3° Romans Vainsteins LAT  
4° Biagio Conte ITA  
5° Paolo Bettini ITA  
6° Gabriele Colombo ITA  
7° Gabriele Balducci ITA  
8° Markus Zberg SUI  
9° George Hincapie USA  
10° Rolf Sorensen DAN  
11° Michele Bartoli ITA  
12° Guido Trenti USA  
13° Peter Van Petegem BEL  
14° Gian Matteo Fagnini ITA  
15° Andrej Hauptman SLO  
16° Mirko Celestino ITA  
17° Dario Pieri ITA  
18° Mario Aerts BEL  
19° Jo Planckaert BEL  
20° Christian Vandevelde USA a 39"
Partiti 193, arrivati 181.

Maurizio Ricci detto Morris

-continua-
 
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#13
94a Edizione: 22 marzo 2003
Alla partenza da Milano si presentarono in 194. La domanda di tutti gli osservatori: ”si riuscirà ad evitare l’ennesimo sprint?”. Raccogliendo il quesito il moschettiere Jacky Durand, rispose subito che ci avrebbe provato, ed infatti dopo soli 7 chilometri partì all’attacco. Subito dopo si riportarono su di lui, Auge, Dacruz, Wrolich, Lopez Gil, Gutierrez Cataluña, Vansevenant, Aebersold e Van Hyfte. I nove attaccanti resero la corsa velocissima, altrettanto fece il gruppo per non farsi sopraffare. Fatto sta che l’animosità del drappello al comando sulla vigilanza del grosso non produsse mai quei lunghi e futili vantaggi, a cui ci aveva abituato la Sanremo di tante edizioni precedenti, ma il tentativo s’allungò ugualmente per tanti chilometri. I battistrada superarono il Turchino, tornato disponibile per la “casa madre”, ma persero lì Lopez Gil; arrivarono sull’Aurelia e, più avanti, ad Andora Marina, persero anche Auge. Poi, sul Capo Cervo, anche Gutierrez Cataluna, ma i sei rimasti rimasero lepri fino al Berta. Qui, il drappello su dimezzò e davanti restarono Wrolich, Aebersold e Van Hyfte che furono inghiottiti dal gruppo solo ad Imperia, dopo 260 chilometri in avanscoperta. Sulla Cipressa su iniziativa di Celestino si formò al comando un drappello di 5 uomini: lo stesso ligure, indi Rebellin, Bettini, Freire e Vinoukorov. I battistrada però, furono raggiunti poco prima del Poggio. Sull’erta finale attaccò Di Luca, inseguito dapprima da Honchar e Spruch che poi mollarono, ma poco prima del culmine sull’abruzzese si portarono Bettini, Paolini e Celestino. I 4 superarono la cima con 9" sul gruppo. In discesa, Di Luca, forse stanco, sbagliò una curva e perse contatto. Sull’Aurelia i tre battistrada registrarono 5" su Di Luca e 14" sul gruppo. All'ultimo chilometro: Di Luca a 13" e il gruppo a 16". Nonostante una moto che, per poco, non face cadere Celestino e Bettini, ma li rallentò, i tre poterono svolgere lo sprint decisivo senza l’assillo del rinvenente gruppo. Qui, Paolini (autore di una grandissima corsa), lanciò al meglio il compagno Bettini che non ebbe eccessivi patemi nel regolare Celestino e vincere, finalmente la Classicissima. A 11” Cipollini, 4°, regolò il gruppo.
[Immagine: arrivo2-def.jpg]

Sul vincitore.
Nato a Cecina l’1 aprile 1974. Passista veloce. Professionista dal 1997 al 2008, con 74 vittorie. Sicuramente uno dei più grandi atipici affermatisi tra gli evidenti della storia del pedale. Piccolino, anche leggero (1,67 per 60 kg), ma non scalatore da GT. In possesso di uno scatto forte e secco, ma da solo non letale, perciò ripetuto più volte ed a quel punto devastante. Veloce fino a vincere volate di gruppo, in un’era di treni. Assistito da qualità sul passo solo discrete, eppure gladiatorio nelle giornate di vena e, complessivamente, un “animale da classiche”, tanto raro, quanto efficace. Ne è uscito uno dei corridori più spettacolari dell’ultimo mezzo secolo nelle corse di un giorno e nelle brevi corse a tappe. Uno che non ha mai vinto tanto in una sola stagione, ma le sue erano sempre vittorie importanti e con un andamento nei piazzamenti sempre in codeste gare, impressionante. Il “Grillo”, come venne chiamato in tenera età, per la sua incapacità di stare fermo ed aspettare la zampata, è stato uno di quei corridori che sanno trasportare il tifo ovunque: dalla TV alla strada, senza confini geografici e capace di essere tanto gregario o spalla, quanto capitano, con una completezza d’atteggiamento che sfociava in una indubbia capacità di essere leader. Faceva gruppo e graffiava gli avversari, stava nascosto per un poco e poi esplodeva al punto di rendere le sue ripetute rasoiate, sacchi di acido lattico per chi intendeva rispondergli. In altre parole Paolo Bettini è un capitolo obbligato, aldilà del palmares, per qualsivoglia storico, ed è inoltre incredibile il suo itinerario che partì da giovanissimo, quando aveva solo 7 anni, ed è cresciuto fino ai 34 anni. Si è ritirato ancora vincente, da capitano, addirittura da carismatico leader, col numero uno sulla schiena, ad un Mondiale, arricchendo, anche in quella ultima pagina agonistica, la sua originalità complessiva. Chapeau!
[Immagine: Paolo_bettini-1foto-e1654955343801-1024x1011.png]
Il sunto della sua carriera da professionista dice tanto, soprattutto evidenza quanto sia stupido per non dir di peggio, giudicare arrivato un corridore che, magari, vince il Mondiale più inutile della storia, quello dei dilettanti (e non è un caso, se, nel gergo, fra cabala e lettura realistica, quella maglia porti sfiga). Lo ricordiamo piangente, ai piedi del podio, con quella medaglia di legno che tanto si menziona e che mai si porta al collo, dopo il Mondiale di Lugano, nel ’96, quando in un’oasi azzurra, fu superato dai compagni Figueras Sgambelluri e Sironi, tutti decorati, annunciati, considerati da un osservatorio, specie giornalistico, che, verso le categorie minori, ha sempre capito poco. Lui piangeva, e quel tipo che qui scrive, da sempre assai scettico su chi esprime troppo fra i cosiddetti “puri”, si lasciò andare, e se ne vanta con piglio immutato ancor oggi, ad una frase: “…Fra questi qui, chi sfonderà sarà solo Bettini!”. E così è stato, come tante, tantissime volte nella storia, abbas-tanza per fare opera di convincimento, sugli atleti, gli operatori, gli allenatori, i giornalisti e l’elefante dormiente FCI, a prendere le categorie precedenti il professionismo, come fase propedeutica al ciclismo, non come capitolo decisionale sulle virtù di un corridore. Fatto sta che, mentre gli altri tre di quella giornata iridata svizzera, consumarono lì, quasi o tutto l’intero loro vertice agonistico, il Bettini mise quel legno a piedistallo di una carriera fra le più belle in assoluto del ciclismo italiano di sempre. E lo dicono questi dati, gravitanti su 74 vittorie, non lunghi dunque centinaia di centri, ma con sette decine pesanti a migliaia:  2 volte Campione del Mondo su strada (2006- 2007, consecutivi dunque, come riuscirono a fare solo Georges Rosse, Rik Van Steenbergen, Rik Van Looy e Gianni Bugno); Campione Olimpico su strada (2004, con l’impresa di unire Titolo Olimpico a Mondiale prof, riuscita, oltre a Bettini, ai solo Ercole Baldini, ed Hennie Kuiper);  2 volte Campione Italiano su strada (2003- 2006); 3 volte vincitore della Coppa del Mondo (2002-2003- 2004, unico ad esserci riuscito tre volte, consecutivamente tra l’altro); 2 volte vincitore della Liegi-Bastogne-Liegi (2000- 2002); 2 volte vincitore del Giro di Lombardia (2005-2006); 2 volte vincitore del Campionato di Zurigo (2001-2005, allora gara di Coppa del Mondo); vincitore della  Milano-Sanremo (2003); vincitore della Clasica di San Sebastian (2003); vincitore del Hew Cyclassics (2003, allora gara di Coppa del Mondo); 2 volte vincitore della Classifica a Punti del Giro d'Italia (2005-2006); Numero Uno Mondiale nel Ranking UCI (2003); ha vinto 5 tappe alla Vuelta di Spagna, 2 al Giro d’Italia, una al Tour de France. Altri riconoscimenti speciali: Mendrisio d’Oro (2003); Velo d’Or (2006); Trofeo delle Fiandre (2006). Ha vinto la Classifica Finale (oltre ad una miriade di tappe in manifestazioni a frazioni di una settimana) della Tirreno Adriatico (2004); Giro del Mediterraneo (2003); Giro di Vallonia (2002); Giro della Provincia di Lucca (1999); Memorial Cecchi Gori (2000); Challenge di Mallorca (2006). Ha vinto poi classiche come: Giro del Lazio (2002), Coppa Placci (2001), Coppa Sabatini (2002), GP Città di Camaiore (2004), Trofeo Matteotti (2008).

Ordine d’arrivo:
1° Paolo Bettini ITA Km 297 in 6h44'43" media 44,031 kmh
2° Mirko Celestino ITA  
3° Luca Paolini ITA a 2"
4° Mario Cipollini ITA a 11"
5° Dario Pieri ITA  
6° Erik Zabel ALL  
7° Oscar Freire Gomez ESP  
8° Jan Svorada SVK  
9° Sergey Ivanov RUS  
10° Guido Trenti E-U  
11° Gianluca Bortolami ITA  
12° Bernhard Eisel AUT  
13° Markus Zberg SUI  
14° Baden Cooke AUS  
15° Graziano Gasparre ITA  
16° Matthew Wilson AUS  
17° Kim Kirchen LUX  
18° Marc Lotz RUS  
19° Beat Zberg SUI  
20° Ruggero Marzoli ITA
Partiti 195, arrivati 170.


101a Edizione: 20 marzo 2010
Alla partenza dal Castello Sforzesco di Milano, furono in 199. Non buone le condizioni atmosferiche, con moderata pioggia, che aumentarono il timore di un numero di cadute superiori alle tante di media. Al primo chilometro già la fuga che caratterizzerà due terzi di corsa. Ad evadere sono tre italiani: Fabrice Piemontesi, Aristide Ratti e Diego Caccia. Il vantaggio che il terzetto riuscì a racimolare, raggiunse un massimo di 22’35” all’80esimo chilometro. Mentre il gruppo perdeva qualche pezzo per le condizioni atmosferiche, oltre alla pioggia, nell’intorno del Turchino i corridori trovarono anche la nebbia, i tre superarono l’ostacolo del Passo e le prime località della Riviera ligure, ma sull’ascesa delle Manie, dopo 200 chilometri di corsa, furono raggiunti dal primo troncone del gruppo ridottosi a 81 unità. Dietro, infatti, inseguiva il grosso nel quale erano presenti, fra gli altri, il vincitore uscente Cavendish, Cunego e Andy Schleck. A Finale Ligure, finita la discesa delle Manie, al comando restarono 49 uomini. Poco prima di Alassio allungò Bouet che in breve guadagnò mezzo minuto. Al suo inseguimento si posero Monfort, Beuret, Mazzanti, Grabovskyy, Mori, Sentjens e Hoj. A 50 km dall'arrivo, il battistrada registrò un vantaggio di 45" sui 7 inseguitori e 1'25" sul plotone. Sul Berta il gruppo riprese gli inseguitori escluso Grabovskyy che, nel fratempo, aveva raggiunto e lasciato sul posto  Bouet, anch’egli riassorbito dal plotone. Ad Imperia, l’ucraino conservava 20", ma ai piedi della Cipressa venne raggiunto dal gruppo. Sull’ascesa andò decisamente in crisi Cavendish, mentre davanti, il gruppo pur allungato, superò senza azioni di rilievo la cima. In discesa e nei primi chilometri di pianura, nuova spaccatura del plotone, a causa pure di un attacco del francese Offredo. All’inizio del Poggio, il giovane transalpino, vide sciogliesi il vantaggio che gli era rimasto. A tre quarti dell’erta finale l’attacco di Gilbert, sul quale si riportò Pozzato, che passò primo sulla cima con a ruota Gilbert e gli altri a pochissimi metri. In discesa ci provò Nibali, che arrivò alla pianura con qualche metro di vantaggio su Pozzato, il quale accodatosi al corridore siciliano, sullo slancio provò l’affondo, ma a due chilometri dal termine venne raggiunto dal gruppo ridotto ad una trentina di unità. Ancora volata dunque, con tutti i migliori velocisti, escluso Cavendish. Nella volata, il giovane Oss lanciò Bennati, che però partì troppo presto e venne saltato da Freire che andò al sigillare il suo tris nella Classicissima, davanti a Boonen e Petacchi. Sanremo con l’epilogo che ormai tutti s’attendevano, ma con la novità sfuggita ai più: non s’erano registrate cadute.
[Immagine: milan-sanremo10-freire-920.jpg]

Sul vincitore.
Nato a Torrelavega il 15 febbraio 1976. Alto 1,71 per 64 kg. Velocista. Professionista dal 1998 al 2012 con 92 vittorie. Un "Bettini spagnolo", più veloce, meno intraprendente anche se capace di tenere su certe salite di media difficoltà che gli rendevano possibili certi traguardi. Raramente comunque è uscito dal modus del tipico velocista che attende lo sprint dove però si dimostrò capace di stendere i propri acuti senza l'aiuto dei treni. Un evidente che moltiplicò fra i professionisti il buono fatto vedere fra i dilettanti dove fu argento ai mondiali di San Sebastian nel 1997. Due anni dopo, infatti, con un'azione da finisseur di nota ed il vantaggio di non essere particolarmente controllato, andò a vincere a Verona sul circuito delle Torricelle, il suo primo Titolo Mondiale. Conquistò nuovamente la Maglia iridata a Lisbona nel 2001 e ancora a Verona nel 2004, eguagliando il record di mondiali vinti stabilito da Alfredo Binda, Rik Van Steenbergen, Eddy Merckx e Peter Sagan.
[Immagine: Oscar-Freire.jpg?w=660&ssl=1]
Oltre ai tre mondiali, il campione di Torrelavega, spesso sorridente e con una simpatia altrettanto evidente, si dimostrò adattissimo alla Milano-Sanremo, dove seppe vincere in ben tre edizioni. La prima nel 2004, quando beffò Erik Zabel che stava già esultando a braccia alzate, grazie ad un gran di reni che diede a Freire il successo  per due dita al fotofinish. La seconda nel 2007 nuovamente in volata, precedendo l'australiano Allan Davis e il belga Tom Boonen e la terza nel 2010, sempre in volata, dove anticipò nettamente ancora Boonen e Alessandro Petacchi. Ha poi vinto tre volte la Freccia del Brabante nel 2005-2006-2007,  la Vattenfall Cyclassics 2006 (dove anticipò ancora Zabel), la Gand-Wevelgem 2008 e la Parigi-Tours 2010. Al Tour de France si è aggiudicato quattro tappe conquistando la maglia verde nell'edizione 2008. Ha vinto anche sette tappe alla Vuelta di Spagna, ma non ha mai partecipato al Giro d'Italia. Nelle corse a tappe di una settimana vanta il successo nella Tirreno Adriatico 2005, manifestazione dove ha saputo vincere ben 12 frazioni. Altri successi di tappa alla Ruta del Sol, al Tour de Suisse, al Giro di Romandia, al Giro di Catalogna, al Giro dei Paesi Baschi, alla Vuelta a Burgos, al Giro della Provincia di Lucca dove vinse pure la Classifica finale nel 2003. Di nota anche i successi in patria nel Challenge de Mallorca e nel Trofeo Luis Puig. Nel 2012, dopo il mondiale di Valkenburg, nel quale si piazzò 10° annunciò il suo ritiro. Nel dopo ciclismo, al pari dell'estone ex grande sovietico Aavo Pikkuus si diede al rally, partecipando a gare valevoli per il Mondiale.

Ordine d’arrivo:
1° Oscar Freire Gomez ESP Km 298 in 6.57'28'' media 42.830 kmh
2° Tom Boonen BEL
3° Alessandro Petacchi ITA
4° Sacha Modolo ITA
5° Daniele Bennati ITA
6° Thor Hushovd NOR
7° Francesco Ginanni ITA
8° Maxim Iglinskiy KAZ
9° Philippe Gilbert BEL
10° Luca Paolini ITA
11° Matti Breschel DEN
12° Anthony Geslin FRA
13° Enrico Gasparotto ITA
14° Geoffroy Lequatre FRA
15° Paul Martens GER
16° Yoann Offredo FRA
17° Fabian Cancellara SUI
18° Juan Antonio Flecha Giannoni ESP
19° Linus Gerdemann GER
20° Pablo Lastras Garcia ESP
Partiti 199, arrivati 153.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#14
Morris avrai sicuramente scritto qualcosa su Dario Pieri, in caso contrario spero ci sarà occasione
 
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#15
Vidi il Toro di Scandicci da juniores quando vinse il Tricolore nella corsa a punti: un pedalatore supremo per stile e potenza. Da prof si mostrò presto un eccelso del nord. Ed uno che vince Harelbeke, è sempre qualcosa di più della media. Non amava il ciclismo, correva, ma preferiva altro, soprattutto la caccia ed il tiro. D'inverno non sapeva resistere ad altre passioni: la pasta e, soprattutto, la carne. D'altronde ha sempre vissuto in zone top per la carne rossa. Si ingrassava, ma era onesto e si allenava: semplicemente era fatto così e andava rispettato. Tante cose scritte su di lui erano balle o, comunque, esagerate. I posti d'onore a Fiandre e Roubaix hanno domostrato che il suo talento era qualcosa di stellare ed alla faccia degli zambottini odierni, pesava all'epoca di quei grandi piazzamentri, 82 kg per una altezza di 1,74 m.
Anche in Tv lo si prendeva come esempio negativo. Ricordo che in sua difesa salì Benelli Olimpionico di Skeet ad Atene 2004. Oggi è un ristoratore e vive contento. Meglio lui di tanti campioni o pseudocampioni anoressici e depressi, falsi come l'ottone o con la salute pregiuducata dai soliti zambottini. Lo ricordo con piacere e solo un diavolo come Van Petegem, poteva batterlo sul lungo velodromo di Roubaix.
 
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#16
Grande Morris.
Anni fa lessi un'intervista in cui lo stesso parlava dei suoi trascorsi e di certe cose che si portava dentro.
Aveva un motore eccellente e il fisico di un pesista.

Uno dei miei preferiti, di sempre.
 
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#17
(13-03-2024, 02:00 PM)Morris Ha scritto: Da un libro che scrissi nel 2010........ e dove ho cercato, decisamente  troppo, di essere dolce di fronte ad una corsa lontana dai suoi fasti. O meglio, corsa che sta nelle orbite del "grande ciclismo", grazie alla sponsorizzazione degli "strilloni" su carta e video.....

….Dall’intensa città
scendendo fino ad incontrare
l’insieme dei benevoli sali
padroni invisibili dell’aria di mare.
E proseguire con le onde vicine
verso il profumato incanto
di tanti Mercurio
che t’annuncian primavera.
È lo spazio d’una fatica
che assorbe il fascino
contro ogni aspro dettame
sempre.

Morris


MILANO - SANREMO
Spruzzi di Storia e di Protagonisti di quella che fu la Classicissima

[Immagine: sanremo-chiappucci-intervista06-585x450.jpeg]

Introduzione

“Ha vinto Daems. Anzi ha stravinto, li ha proprio stroncati tutti.” Con queste parole che sono di mio fratello Lorenzo, il corridore di famiglia, la Milano-Sanremo, entrò compiutamente nell’attento bambino sottoscritto. Era il 19 marzo 1962.
Ho scritto ovunque di quanto il ciclismo sia nato in me fin da piccino e non trovo superfluo ribadirlo in ogni occasione, perché è un modo di presentare, fotogramma su fotogramma, un rapporto che alla fine sa essere qualcosa di più.
La “Classicissima di primavera”, ovvero la definizione che spesso accompagna questa corsa anche e soprattutto ai tempi della mia fanciullezza, fu la prima delle grandi classiche di un giorno a farsi conoscere al mio osservatorio, era stata preceduta solo dal Giro d’Italia e dal Tour de France, nonché dalla prova a cronometro, il Trofeo Tendicollo Universal di Forlì, che ha contraddistinto le mie zone e che fu per il sottoscritto la palestra di indelebile saldatura verso lo sport del pedale.
Questo volume non sarà solo il primo dei due che compongono la Storia della Milano Sanremo, ma rappresenterà l’apertura di una collana-viaggio sulle classiche del ciclismo, perlomeno su quelle che trovo oggettivamente più importanti, per quel condensato che tradizione e realtà hanno eletto tali e che, magari, potranno non trovare sulle medesime coordinate taluni.
Saranno storie che definisco essenziali, senza la pretesa di essere organiche, ma tutte più meno incentrate sulle evoluzioni dei percorsi, sul riferimento che recitavano relativamente ad ogni annata; su quei protagonisti corridori che sono sempre, checché ne dica qualche organizzatore, la parte più cospicua di ogni proposta, nonché quegli ordini d’arrivo che, se si vuol essere fedeli al tratto storico delle singole corse, vanno presentati nella loro interezza. Tra l’altro, su quest’ultimo aspetto, i lettori più disponibili alla ricerca, tro-veranno delle sorprese non indifferenti.
La Milano Sanremo dunque, una corsa che ha vissuto fasti altissimi, che divide con la Parigi-Roubaix e il Giro delle Fiandre, il podio più alto della popolarità, al netto delle diversità e delle specializzazioni che hanno progressivamente avvolto e minato il ciclismo. Una corsa dall’itinerario magnifico, un tempo bellissima non solo per questo, ma pure per i suoi tratti agonistici. Oggi, certamente la più cerebrale per quel gioco di attimi che sono il filo conduttore delle prove veloci. Sicuramente colei che più di ogni altra, esprime il sunto dei cambiamenti intervenuti su questo sport: senza stravolgenti modificazioni di percorso, è passata da prova di fatica eccelsa, che vedeva l’arrivo di Sanremo come un’impresa comunque, a meta possibile a tutti e dove i 300 chilometri del tracciato rappresentano l’aspetto tecnico nettamente meno influente. In altre parole, una corsa che è riuscita nell’impresa di non perdere fascino pur cambiando l’indirizzo dei propri aloni, costringendo,di conseguenza, l’osservatorio a riflettere non poco su questa anomalia.  
Una prova che vive moderna uno spaccato di storia, non solo sul proprio sé, ma per le varie diramazioni che ha mosso e che sono arrivate ad incidere sulla cultura, sul costume e sullo stesso stile di chi si pone fraterno al pedale. Abbastanza per impegnare il narratore, a non fare di ciò che segue, una mera rappresentazione di dati.

        Maurizio Ricci (Morris)

Una moderna Classicissima Centenaria.

La Milano Sanremo nacque nel 1907, come vedremo, fra le titubanze del direttore della Gazzetta dello Sport Camillo Costamagna e la non certo cospicua convinzione di chi, inizialmente, lavorò alla posa in opera della prova. Ad oltre un secolo di distanza però, la creatura che vide accanto al determinante Armando Cougnet, le maggiori volontà dell’ispiratore Tullo Morgagni e, successivamente, il peculiare contributo di Augusto Carlo Rossini, a dispetto dei mutamenti enormi incorsi nello sport di riferimento, è ancora perfettamente collocata su quel top internazionale che seppe raggiungere da subito. In altre parole, è sempre una corsa che tutti i corridori vorrebbero nel proprio palmares, nonostante le modificazioni che ne hanno deviato l’apogeo di riferimento, ovvero da prova per uomini di fondo ed eccelsi su ogni terreno, a gara per ruote veloci o, come tutte ad onor del vero, adatta a chi possiede le rare stimmate del finisseur. Sicuramente gli ispiratori che concepirono ed organizzarono per la prima volta la Milano-Sanremo, non avreb-bero mai immaginato che la loro sempre più perfetta macchina organizzativa, potesse arrivare al nuovo millennio con intatto fascino.

Il ciclismo italiano all’alba del 1907.
Il movimento del pedale d’inizio secolo poggiava internazionalmente sulle attività all’interno dei tondini, come venivano chiamati i velodromi del tempo, ma nel breve volgere di un lustro, le manifestazioni su strada avevano saputo, in taluni paesi come Francia e Belgio, raggiungere e superare l’alone del ciclismo su pista sulle attenzioni popolari, fino a determinare le basi per l’elevazione di vere e proprie classiche. La Francia in particolare, era già “moderna”, con tre corse da considerarsi degli autentici fari mondiali, come Parigi-Roubaix, Parigi-Tours e Bordeaux-Parigi, attorno alle quali ruotavano molte gare minori, ma di spessore e continuità tali, da farne riferimento e, soprattutto, fungere da vero e proprio calendario. La nascita del Tour de France nel 1903, aveva proiettato il ciclismo a dominatore delle strade.
In Italia invece, lo spontaneismo pure molto forte, non aveva sempre trovato i sostegni necessari per creare, sulle “macchine spinte a motore umano” a portata di tanti, la spinta che ne creava continuità. In altre parole, s’era in ritardo in maniera tangibile rispetto alla Francia, ed anche nei confronti del Belgio, che pure aveva sopperito con la quantità l’ancor non avvenuta cementazione di gare riferimento. La fotografia del nostro movimento, dunque, viveva di punti isolati e di poche certezze.
E dire che l’avventura era iniziata molto presto, fra i primissimi in tutto a livello mondiale, nel 1870, con la Firenze Pistoia. Gli echi di quella genesi di ciclismo nella penisola - fatti di 23 concorrenti su bicicli aventi una ruota anteriore di 75 centimetri di diametro e di una posteriore di 50, della loro fatica, nonostante la media di soli 13 chilometri sui 33 del percorso e di quella polvere che sollevavano, della vittoria di uno straniero venuto dagli Stati Uniti, ma di origine olandese, tal Rynner Van Heste, s’erano nuovamente concentrati in una risposta, solo nel 1876, con la Milano Torino. Ma pure la corsa fra le due grandi città non era decollata come si sperava, ed a parte le edizioni del 1894, 1896, 1903 e 1905, all’alba del 1907 sembrava definitiva-mente tramontata. I perni sui quali gravitava il movimento dell’evoluta bicicletta su strada di quei giorni erano: la Coppa del Re, nata nel 1897 e fin lì corsa tutti gli anni ad esclusione del 1900 (chiuderà il suo ciclo nel 1909); la “Corsa Nazionale”, partita nel 1902 e corsa ininterrottamente (fino al 1908) e la “XX Settembre, poi negli anni conosciuta col nome di Roma-Napoli-Roma (che arriverà a chiudere il proprio itinerario nel 1961).
A quelle “certezze”, erano giunte a dar manforte, con significativi successi, nel 1905, il Giro di Lombardia, organizzato proprio da “La Gazzetta dello Sport”, che diventerà negli anni la superclassica che tutti conoscono e, nel 1906, il Giro del Piemonte (che si corre ancora oggi), nonché la Milano-Modena (che chiuderà nel 1955), la Milano-Mantova (che giungerà fino al 1962) e quel Campionato Nazionale che, dopo essere stato lanciato nel 1885, si era subito arenato, fino a riprendere il suo ruolo, appunto, nel 1906. Un panorama non vasto, che aveva visto diverse meteore in auge un solo anno, di cui meritano citazioni le più importanti, ovvero: Legnano-Gravellona-Legnano (1905), Milano-Domodossola-Milano (1906), Milano-Erba-Lecco-Milano (1906), Brescia-Milano-Pollanza (1906), Milano-Alessandria-Milano (1906), Milano-Giovi-Milano (1906), Novi-Milano-Novi (1906), Milano-Verona (1906) Milano-Pontedecimo (1906).
Tutte corse gravitanti su Milano e la Lombardia, ma pure alcune che scendevano verso la riviera ligure. E furono proprio le “fresche” ceneri di questi “quadri unici”, uniti ad altri interessi che portavano direttamente verso il mare ed i fiori della Liguria, a spingere ulteriormente verso la nascita della Milano Sanremo, la futura “Classicissima di Primavera”.

I giornali organizzatori e sostenitori del pedale.
Nel 1906, l’impulso verso lo sport che poteva vivere su uno spirito olimpico, nato e cementatosi attraverso ben tre Olimpiadi già svolte, trovò nelle testate giornalistiche, non solo sportive, un riferimento preciso per giungere all’elevazione dei propri scopi. Di converso, la rivoluzione tecnologica che produceva altre occasioni per fare sport, donava, al mondo della comunicazione, allora quasi esclusivo patrimonio dei giornali, l’occasione per porsi nelle condizioni migliori al fine di lanciare taluni “frutti” della suddetta rivoluzione, fino ad aggiungere all’anima narratrice e alla cronaca, una sempre più fitta rete di rapporti col mondo economico.
In altre parole, si stavano creando copiosi spazi alla pubblicità diretta dei prodotti, oltre che dare temi di interesse di massa tali, da aumentare maggiormente le entità delle copie vendute. Lo sport ed i suoi eventi, dunque, rappresentavano un volano in rapida crescita, sul quale l’intervento organizzativo, in appoggio ed in simbiosi alle ancora poco diffuse e precarie società sportive, diveniva un fattore importante per la stessa sopravvivenza delle testate. Discipline come l’automobilismo, il motociclismo e il ciclismo, poi, avendo alla loro base un mezzo, stimolavano ancor più delle altre il rapporto ed il coinvolgimento col mondo imprenditoriale dei rispettivi settori, così fortemente intinti dell’esigenza di coinvolgere il più possibile le masse.
Per lo sport più in generale comunque, l’entrata in scena di questi partners, costituiva un passo peculiare, perché la crescita sportiva italiana, doveva necessariamente passare su organizzazioni adeguate e territorialmente presenti, spinte da volontà precise di propaganda, proselitismo e programmi che non si limitassero a dare qualche risposta allo spontaneismo.
Intanto, all’interno dei giornali, non tutti i redattori vivevano questo coinvolgimento con la medesima convinzione, ed in questo quadro, emergevano figure più peculiari e propulsive. Nella giovane Gazzetta dello Sport, che era na-ta nel 1896 e che, nel 1899, aveva scelto di proporsi sulla distinguibilissima carta rosa, i protagonisti della svolta verso il mondo sportivo, rispondevano ai nomi di Armando Cougnet, giornalista amministratore con un incredibile amore verso il ciclismo e Tullo Morgagni, redattore capo, nonché  progenitore di una fitta tela di rapporti con l’orizzonte dello sport. Grazie a loro lo stes-so ambiente dei costruttori delle “macchine a pedali”, come venivano definite allora le biciclette, non rimase insensibile, anche perché il giornale, sul quale il direttore Eugenio Camillo Costamagna raccoglieva al meglio le idee della redazione, sapeva coprire i periodi di lontananza dagli avvenimenti agonistici, con una serie di approfondimenti sul mezzo e le specifiche peculiarità, da rendere i “fogli rosa”, una palestra per lo stesso lancio commerciale dello strumento.
All’alba del 1907, dunque, dopo gli esaltanti successi riscossi dalla Gazzetta dello Sport, con la proposta e l’organizzazione delle prime due edizioni del Giro di Lombardia, la testata, pur non essendo la più importante e diffusa nemmeno a livello sportivo, era comunque divenuta, un sicuro riferimento del mondo del pedale.

La nascita della Milano Sanremo.
Il fatto progenitore della Milano Sanremo non partì dalle macchine spinte a motore umano, ma da quelle a motore. A metà della prima decade del ‘900, si era all’alba dello sviluppo industriale automobilistico. La realtà mostrava già una discreta consistenza, in termini di proposta e ricerca, per le vetture di grossa cilindrata, molte delle quali venivano definite turistiche. C’erano poi quelle che venivano dichiarate “da corsa” e correvano realmente, visto che esisteva già un calendario di gare.
Le auto di piccola cilindrata per lo più costruite da ditte minori, destinate alle fasce meno abbienti, ma comunque già con un certo tenore economico, andavano lanciate. Erano le cosiddette “utilitarie” sulle quali ogni passo di propaganda era ben accetto, anzi lo si favoriva. E fu proprio in questa direzione che “La Gazzetta dello Sport”, si fece convincere dall’Unione Sportiva Sanremese, guidata dall’Ingegner Francesco Sghirla, nell’organizzazione di una corsa automobilistica, riservata a queste vetture, che da Milano avrebbe rag-giunto Acqui e, da qui, la graziosa Sanremo, già allora meta turistica della migliore borghesia milanese.
La corsa fu un fiasco in tutti i sensi: solo due delle trenta vetture partenti, raggiunsero Sanremo un paio di giorni dopo e l’interesse generale scemò, di fronte alla poca consistenza dimostrata da quelle macchine, ancora ben lontane dal minimo accettabile. Era l’agosto del 1906.
La manifestazione però, aveva stuzzicato non poco la fantasia ed il pragmatismo di Tullo Morgagni (nella foto sotto), 
[Immagine: Tullo-morgagni-1-295x400.jpg]
il capo redattore della Gazzetta dello Sport, il quale, di fronte alla comunque forte volontà degli sportivi sanremesi e all’esigenza del giornale di cancellare quell’insuccesso con un’altrettanto forte risposta sportiva, pensò di mantenere valido l’itinerario che da Milano conduceva a Sanremo, ma con una corsa da riservare alle biciclette. Era convinto che il motore umano, si sarebbe comportato meglio rispetto a quello delle auto, come già il ciclismo dimostrava, attraverso diverse competizioni internazionali e lo stesso Giro di Lombardia, che il suo giornale organizzava. Ne parlò con Armando Cougnet, il quale, oltre ad essere l’Amministratore della testata, era pure il valente giornalista che trattava in primis lo sport del pedale. La sua risposta fu positiva.
Ben più freddo e perplesso, invece, fu il direttore Camillo Costamagna, che accettò di partire per la nuova avventura, più per la mera necessità di coprire il buco finanziario e d’immagine dell’esperienza automobilistica, che per effettiva convinzione. Non a caso il suo “sì” definitivo s’ebbe solo quando vennero portate a Milano le 700 lire che costituivano la dotazione della corsa, la maggior parte delle quali erano state raccolte in un grosso salvadanaio con il quale il giovane aiuto-segretario della Unione Sportiva Sanremese, Piero Perotti, aveva realizzato una pubblica questua attraverso l'intera città della riviera ligure.
Ad onor del vero in tutti persisteva un timore, come lo stesso Cougnet (foto sotto) dichiarò cinquanta anni dopo.
[Immagine: founders-Cougnet2.jpg]
 “L'idea – disse - fugato qualche dubbio, fu accolta. Si aprì semplicemente la carta del Touring Club al 200.000 e si tracciò il percorso che in meno di trecento chilometri congiungeva Milano a Sanremo attraverso Ovada e Voltri col Passo del Turchino, e nella primavera del 1907 lanciammo il bando internazionale della prima Corsa al Sole. A quella epoca non c'era assolutamente in noi la speranza e tanto meno la convinzione, che la competizione dovesse incontrare quella fortuna che poi la fece proclamare la prima corsa al mondo. Ma la Milano Sanremo conteneva in sé un grande potenziale di sviluppo che la fece progredire di anno in anno. Fu essa a crearsi il successo dal suo debutto, caratterizzato dalla partecipazione dei migliori corridori francesi e belgi in rappresentanza delle due maggiori Case: la Peugeot e l'Alcyon, che allora dominavano il mercato e l'arengo agonistico”.
Il 14 aprile 1907, iniziò così il corso ultracentenario della Milano-Sanremo: una nuova manifestazione per il pionieristico movimento del pedale, ma destinata a far colpo su tutta l’Europa, sia per l'impareggiabile scenario scelto, che per il suo autentico significato sul piano tecnico, nonché per la spinta ricevuta dalla prodigiosa riuscita che caratterizzò l'edizione inaugurale. Già alla vigilia della corsa si ebbe la dimostrazione di quanto l’attesa fosse cor-risposta, ed infatti, i manifestini propagandistici che la Gazzetta dello Sport aveva stampato per reclamizzare l'avvenimento, non mancarono di raggiungere lo scopo che i promotori s'erano prefissati, riuscendo ad accentrare l'interesse delle folle. Era tutto pronto e nel ritrovo dell’Osteria della Conca Fallata di MIlano, lungo il Naviglio Pavese, stava per partire quella che poi divenne la prima favolosa cavalcata di un drappello di uomini che si mostrarono superiori alle automobili, nel riuscire a raggiungere, pur partendo in una giornata di pioggia e di freddo, il bel sole della riviera ligure.

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Maurizio Ricci detto Morris

-continua-

molto bello
 
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