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Storie: Calcaterra e la più naturale delle sconfitte
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Tempo fa, scrivendo del velocista Endrio Leoni, mi venne in mente un fatto che capitò durante la prima tappa del Giro d’Italia 1992, che si concludeva ad Uliveto Terme, vinta proprio dallo sprinter veneziano. Il protagonista però non è lui, ma un pezzo da novanta, per tante stagioni, del treno di Mario Cipollini: Giuseppe Calcaterra. Un gran bel corridore, a dispetto delle sole nove vittorie ottenute in carriera. 
Nel 1992 comunque, questo ragazzone milanese di Cuggiono, non correva ancora con “Re Leone”, bensì con Fanini e le possibilità di fare la propria corsa, erano molte. In una tappa non difficile, si trovò ad aprire una fuga in compagnia di un altro passista di gran nota, anche se non ancora diventato “Maciste”, il varesino Stefano Zanini. 
I due, approfittando del sonno del gruppo, dopo il prologo a cronometro, iniziarono a pensare di incrementare quelle esilissime percentuali di riuscita del tentativo e pedalarono poderosamente. Gli attesi di tappa e di Giro, nascosti nella pancia del grosso a dormire sull’indifferenza, lasciarono fare, convinti com’erano che le risposte di squadra negli ultimi 30-40 chilometri, sarebbero state sufficienti a riportare i due ricercatori di improbabili fortune, alle miti ragioni del “nulla di fatto”. E così, quella volonterosa fuga, assunse buone proporzioni e si dilungò assai. 
Dopo oltre cento chilometri di pedalate all’insegna del “noi ci proviamo e siamo forti”, in Zanini continuava a persistere l’ardore, mentre in Calcaterra un po’ meno. Oddio, pedalava come il varesino e si alternava con lui a prendersi il vento della velocità, ma la sua pancia cominciò a parlargli il linguaggio più naturale ed indispensabile ad ogni essere umano o animale, quindi anche per gli stoici corridori, perbacco! Dolori e senso di gonfiore, con orientamento verso il retto. Sì proprio quel retto sul quale giace il confine, fra decoro e naturalità, fra veri ed illusionisti che non voglion far capire che pure loro, nonostante i titoli monarchici o religiosi o di semplice distinguo, vanno a defecare. Quel retto, le cui creazioni, illuminarono odi, nel pio Teofilo Folengo.
I chilometri passavano, ed andavano dritti verso i 150, quando Calcaterra affiancò Zanini e gli disse: “Che tu sappia, qua vicino c’è una toilette?”. “Dovrebbe essercene una alla stazione di Viareggio” – rispose il compagno d’avventura. Ma il tumulto interno-pancia di Calcaterra, non ne voleva sapere di recessione, ed il corridore, andando contro natura, cominciò a dare segni di insofferenza e lamento. Zanini, accortosi del crescente disagio del socio, puntualizzò: “Se ti fermi, è certo che ci prenderanno”. Al ché, il sofferente compagno lo aggiornò dicendo: “Se non mi fermo, scoppio!”. 
Ma i corridori, si sa, hanno sette vite ed un cuore grande e Calcaterra continuò a macinare pedalate, unite a gutturali segni di tortura. Avevano superato i 150 chilometri di fuga, quando, d’improvviso e senza annuncio, il forte ciclista lombardo, prese una decisione irrevocabile: inquadrò un provvido bar e vi si tuffò come una scheggia. Orfano del compagno, Zanini, provò ad anticipare il suo futuro nomignolo di “Maciste”, ma era impossibile continuare con successo e venne ripreso quando nel gruppo erano già in corso i lavori per lo sprint decisivo.
Vinse Leoni, ma quella fu davvero la tappa delle naturali sofferenze di Calcaterra.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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