Il Nuovo Ciclismo

Versione completa: Ciclismo su strada - Inediti sulla spedizione azzurra a Melbourne ‘56.
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dal mio libro: Arnaldo Pambianco il Campione e l'Uomo....

….. Il CT Giovanni Proietti, decise di anticipare la trasferta australiana di ben quaranta giorni rispetto alla gara, al fine di dare agli azzurri la possibilità di acclimatarsi a dovere e conoscere ogni punto, anche il più banale, del circuito olimpico. Furono convocati per la trasferta a cinque cerchi, i romagnoli Baldini e Pambianco, il ferrarese Dino Bruni, il trevigiano Aurelio Cestari e il pavese Pietro Chiodini. Uno di questi non avrebbe corso, ma svolto il ruolo di riserva.
 
Per raggiungere l’Australia la comitiva azzurra impiegò tre giorni e dopo quell’estenuante viaggio, ad aspettare i corridori, s’elevarono due novità non proprio gradevoli: il gran caldo e la cupidigia di Proietti nell’imporre allenamenti iper ripetuti sul circuito olimpico. La
temperatura, che non poteva essere dribblata, avrebbe pesato diversamente se i percorsi del rodaggio e della rifinitura, fossero stati più vari: in fondo s’era in una terra nuova per tutti, con un’ambientazione che si muoveva, relativamente al circuito, su un percorso assolato ed una campagna arida, priva di occasioni d’ombra. In lontananza però, si scorgevano zone alberate, probabilmente selvagge, che stuzzicavano assai la volontà di osservare. Ma il ferreo CT, non ne voleva sapere di modificare il suo piano, di fronte alle comunque timide lamentele degli azzurri. Per quattro di loro, ovvero Pambianco, Cestari, Chiodini e Bruni, quel trend monotono, s’aggravava dell’impegno suppletivo di dover convincere, con una progressiva condizione, il Proietti a schierarli. Costui, infatti, aveva da subito dichiarato che il sicuro titolare era il solo Baldini e la riserva sarebbe stata scelta fra di loro. L’incertezza, rese quegli allenamenti di una durezza incredibile, perché fra i quattro insisteva l’obbligo di dimostrare, ed in Ercole stesso, non poteva che sorgere l’esigenza di non dimostrarsi inferiore, per non mettere eventuali dubbi al CT.

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                                                  La pattuglia azzurra in allenamento sul Circuito Olimpico

Dopo quasi due settimane, a soccorrere i corridori nella stressante monotonia di quel trend, si animò un incontro che, in poco tempo, prese la forma, appunto, di un soccorso: ai margini della carreggiata della zona campana del circuito, giaceva una mucca morta. L’animale, rimase su quel punto per diversi giorni, senza che nessuno provvedesse a seppellire quel corpo che, in decomposizione, aumentava costantemente, tanto il suo volume, quanto quel fetore via via più asfissiante ed esteso. In altre parole, un’Australia allora totalmente diversa dal giardino che è oggi. L’aspetto, divenne così un motivo, visto che la mefite perdurava per centinaia di metri e rimaneva nel naso dei corridori, per trovare ben diversa forza nel chiedere al CT di cambiare percorso d’allenamento. In particolare, a spingere su quella richiesta, si distinse il ferrarese Bruni, ma il nocchiero azzurro, non ne volle sapere. La mattina dopo quel vano tentativo di convincimento, i cinque azzurri partirono per l’ennesimo allenamento consistente in almeno dieci tornate del circuito olimpico, come sempre senza l’auto di Proietti al seguito: il CT infatti, li raggiungeva sempre più avanti.
Dopo pochi minuti di pedalate, i corridori scorsero in lontananza un fumo che si elevava grigio ed altissimo. La posizione d’origine, sembrava proprio sorgere ai margini della carreggiata del circuito. Immediatamente sorse in loro la speranza che fosse un “qualcosa” in grado di costringere il Proietti a cambiare, almeno un poco, quel trend. Invece, quando s’avvicinarono al punto che originava quel fumo, capirono tutto: qualcuno aveva dato fuoco alla mucca morta da giorni e quel qualcuno era proprio il Commissario Tecnico Proietti, che li guardava gongolante!

La fase di avvicinamento alla corsa valevole per le due Medaglie d’Oro in palio, trovò dopo una settimana dall’ennesima “prova di forza del CT e nella più piena costanza di quei ripetutissimi andamenti, un fatto che, nelle sue opposte punte emozionali, apparve come un segno di rottura di quelle quotidianità. Durante l’avvicinamento a quella che doveva essere la zona del traguardo, gli azzurri passarono di fronte ad una abitazione che, quel giorno, era presieduta da un paio di cani. Entrambi inseguirono i corridori, ed uno di questi azzannò il polpaccio destro di Chiodini, provocandogli una vistosa ferita. Per il pavese, l’Olimpiade finì lì, ma non quella sua permanenza in Australia che riuscì a coprire un ruolo che, nei giorni successivi, ebbe un peso importante nell’equilibro psicofisico dei colleghi. La costretta defezione dell’azzurro, pavese d’origine e reggiano di residenza, provocò in lui quella forte e comprensibile delusione che, di converso, rasserenò gli allenamenti degli altri, pur nella loro monotona morfologia. Ma ci fu anche dell’altro. Chiodini ammazzò la delusone potendo mangiare senza l’assillo di dover stare alle regole e, da bravo componente la squadra azzurra e relativo spirito di gruppo, mentre il suo peso si evolveva all’insù, iniziò a prendersi ad ogni pasto qualche frutto di “scorta”, che poi andava a riporre, nascosto alla visione di chiunque, sopra l’armadio della sua camera adiacente l’infermeria. Inutile dire che andare a trovare Chiodini, divenne per gli altri quattro, certo un modo per far compagnia allo sfortunato compagno, ma pure per rifocillarsi... E lì, Proietti non riuscì a scoprire la tresca!

Gli episodi buffi o tremendi delle giornate di avvicinamento all’Olimpiade però, non erano ancora finiti. Una mattina, il “torpedone italiano”, in pieno allenamento, si trovò a superare un tipo asiatico per fisionomia, che pedalava con una bicicletta rudimentale provvista di cestello. Costui, forse per divertimento, per prova, o per sfida, si agganciò al quartetto azzurro e non si staccò. Anzi. Quel “cinesino”, come lo chiamavano i quattro corridori, era un piccolo fenomeno, uno dei tanti sparsi per il mondo di cui la storia ciclistica mai ha voluto o potuto raccogliere pagine, riusciva a restare con gli azzurri anche quando Proietti, dall’auto, urlava di staccarlo e ridondava il tutto con coloriti aggettivi verso i propri corridori. Il cinesino rimaneva lì, ed a nulla servivano le progressioni dei quattro. Per staccarlo, sarebbero serviti degli scatti, probabilmente, ma la realtà era quella: con le progressioni e per un giro, fino a quando nella giornata del cinesino non c’era scritto di fermarsi presso un rudimentale negozio, lui restava un componente aggiunto della Nazionale Italiana! Quel segmento d’incontro, si consumò per circa una settimana, ininterrottamente, rendendo quel giro una sofferenza per gli italiani reali, soprattutto per lo spirito così facile al lamento del buon Bruni. Poi, un giorno, quando i quattro azzurri incontrarono il solito punto di incontro col “cinesino”, di costui non vi fu traccia. Verso la fine dell’allenamento, mentre i corridori passavano di fronte ad una specie di anfiteatro videro su quei vuoti gradoni, il tipetto asiatico che li salutava a piene braccia. Bruni tirò un sospiro di sollievo.

E venne finalmente il sette dicembre, giorno dell’Olimpiade. Forse per festeggiare l’evento, il sole ed il caldo, si strinsero a braccetto come non mai. Per gli ottantotto concorrenti al via, che rappresentavano ventotto nazioni, s’annunciava così un motivo ulteriore per rendere ancor più aspro l’impegnativo circuito di diciassette chilometri, da percorrere undici volte, per un totale di 187 chilometri. Gli azzurri erano attesi dai favori del pronostico, al pari di belgi e francesi, ma le condizioni ambientali così particolari, spinsero ancor più Proietti, verso il suo pesante piano, affinché le sorprese si riducessero al minimo. In sostanza, il vulcanico Commissario Tecnico chiese ai suoi ragazzi di imporre alla corsa un ritmo duro per portare in riserva il motore di molti nella seconda metà di gara, dove nel finale doveva entrare in scena Ercole Baldini, il predestinato capitano.

La corsa si mosse subito ad andatura di nota, ravvivata per diverse tornate da tentativi di corridori di secondo piano, con gli azzurri molto vigili a non fare entrare quelle sortite nel novero delle fughe importanti. Dopo settanta chilometri circa, quando il ritmo si era improvvisamente abbassato, aumentando, di conseguenza, il rischio di veder modificata la corsa che aveva in testa Proietti, proprio Arnaldo Pambianco detto Gabanì, l’atleta che nei piani del Commissario Tecnico doveva fungere da asfissia dei più temibili avversari azzurri, entrò in scena, allungando decisamente.
Un tentativo, quello solitario di Gabanì, che, in effetti, mise alla frusta belgi e francesi e nei suoi quaranta chilometri di solitudine, il gruppo si dimezzò. La squadra belga in particolare si sciolse, al punto di uscire interamente dalle posizioni utili per emergere nella gara (il primo belga, alla fine, giungerà 23° a quasi sei minuti!). Tra l’altro, Arnaldo, che nel corso della sua azione raggiunse un vantaggio massimo di 1’30”, non fu ripreso, ma fu lui a rialzarsi, per tenere in serbo quel minimo di energie sufficienti a rendersi ancora utile a difendere la riuscita dell’attacco di Baldini e guadagnarsi allo sprint, una posizione che potesse portare fieno alla classifica a squadre. E quando, a poco più di due tornate dal termine, il “Treno d Forlì” si involò in un grandioso assolo vincente, Gabanì si distribuì sulle ruote degli inseguitori a rompere i cambi nella difesa dell’amico che stava andando verso l’Oro. Si vissero due spettacoli stupendi: davanti il Primatista dell’Ora, con la sua potente e magica pedalata, a segnare un altro traguardo di storia e, dietro, Pambianco a far imprecare in babilonese gli inseguitori.
Ercole Baldini come da piano perfettamente riuscito di Proietti, andò a vincere quell’Olimpiade che, nella prova su strada, in azzurro mancava da 24 anni, mentre lo stoico Gabanì, riuscì a trovare la forza, nel convulso finale, per fare una volata che gli valse il settimo posto, posizione che se la classifica a squadre fosse stata determinata sulla base dei primi due atleti di ogni nazione, sarebbe valsa all’Italia un’altra Medaglia d’Oro.
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                                                                       Baldini durante la fuga decisiva

Purtroppo, il terzo italiano, Dino Bruni, giunse troppo lontano, 28°, e ciò valse agli azzurri solo la “medaglia di legno”, dietro Francia, Gran Bretagna e Germania.
Mentre Baldini saliva sul gradino più alto del podio e gli emigranti italiani intonarono quell’Inno di Mameli il cui disco l’organizzazione non riusciva a trovare, lo spossato Gabanì, visse due sentimenti contrastanti: da una parte la grande gioia per la vittoria colta dall’amico e dall’altra la delusione, per non aver colto quella medaglia a squadre, anche di metallo meno pregiato, che ad un certo punto sembrava non potesse sfuggire all’Italia.
Lo avvicinò il Presidente del Coni Giulio Onesti che lo abbracciò e gli disse: “Se stato fantastico! Metà medaglia d’oro è moralmente tua, ma non potendotela assegnare, in qualche modo il Coni ti sarà riconoscente”.

Maurizio Ricci detto Morris