Il Nuovo Ciclismo

Versione completa: Eclipse
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Sono vecchio, pieno di acciacchi e dolori, ma il suono pinkfloydiano, ha ancora il potere di rammendare fino al brilliò, i vestiti della mia vita. Prima, nel topic su "Che musica state ascoltando" ho linkato un "bootleg" dei Pink Floyd, registrato fra il 1972 e '73 e lì in mi sono drogato in quell'insieme fra musica ricordi, tanto da spingermi alle lacrime che solo l'emozione ti può dare. Ho ripreso in mano un libro che scrissi nel 2004, "Segnali di fumo", quello che ha nell'intera prima di copertina l'avatar che usavo su Cicloweb e che vi posto perchè simboleggia il sottoscritto nei suoi venti anni e nel pieno del segno propulsivo che giungeva dai Floyds.
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Ho estratto un racconto che è il summa di quando li conobbi e che cela, senza averne immediata pretesa, tanto quei tempo lontani, quanto quell'immanenza che non ho più cancellato.

ECLIPSE
.......Nella vita ci sono momenti, a volte brevissimi, quasi dei flash che non ti possono sfuggire e che mai dimenticherai, fino a portarli perennemente con te. Ero al mare dai miei zii, avevo quindici anni, portati normalmente sul fisico, mentre la mente in caleidoscopica formazione, mi dava spesso la sensazione di essere troppo legata alle emozioni e a quelle passioni, che permeavano in me, con un’intensità tale, da recare stupore in chi mi osservava. Nel tardo pomeriggio di quel giorno, mia zia Lidia, portò me e mamma, lungo un viale che costeggiava un canale abbastanza puzzolente e ideale dimora di fastidiose zanzare. In lontananza, giungeva un suono armonico, così strano, da coinvolgere e far dimenticare quegli odiosi insetti massacratori della nostra pelle. Non ce ne rendevamo conto, ma quella musica, pian piano, ci stava portando verso di lei, sotto le non certo moderne mura di una vecchia cascina agricola, solo parzialmente riattata.

Camminavamo e guardavamo noi stessi senza parlare, ma in me, faceva capolino la voglia di scoprire se anche quelle due donne, avviate all’età della pensione e con la lirica negli epigoni dell’interesse, fossero così legate a quella armonia musicale, o alla semplice curiosità che, spesso, accompagna una passeggiata. Non tardai a conoscere la realtà di quel trasporto emotivo, grazie alle improvvise parole di zia: “Ma guarda che strano posto è questo, senti che musica Giulia, ti trasporta, mi sento leggera e ringiovanita. Piace anche a te Morris?” Come poteva non piacermi e glielo dissi con un cenno di capo, proprio mentre vidi sul tetto del porticato di quel vecchio stabile un’insegna rudimentale, su cui v’era scritto: “La vecchia Fattoria”. Era davvero quella cascina, la fonte di quella musica sublime! Sul retro, c’era un giardino decisamente più curato rispetto a quei muri scalcinati che evidenziavano pietre fatte a mano, ed unite tra loro da quello che in origine era fango. Un enorme panca posta vicino al pozzo, ci consentì di ascoltare seduti, quel condensato di suoni sì nuovi per le nostre orecchie. Non rimanemmo molto lì, perché mia cugina, in bicicletta, ci venne ad avvisare che la cena era pronta. Mi staccai da quel luogo col dispiacere di perdere qualcosa che era già dentro di me e, mentre ci allontanavamo, sentivo sempre più forte il richiamo di quel suono che confluì nell’arpeggiare d’una chitarra. Ora era una canzoncina apparentemente insignificante, perché cantata in inglese, ed io non ci capivo nulla, ma l’armonia ancora una volta mi illuminava i passi. Quella musica era davvero entrata in me, dovevo conoscerla e capire chi era stato a comporla e chi erano quei musicisti che m’apparvero, da subito, artisti originali ed impagabili nel trasmettere emozioni.
Quando tornai a casa, scrissi subito a Frances, in italiano naturalmente, e le spiegai cosa avevo provato sotto l’incanto di quel suono. Le chiesi se conosceva un gruppo che poteva proporre una musicalità simile, perché sapevo quanto fosse più approfondita di me. Era stata lei a farmi conoscere Janis Joplin, Jimmi Hendrix, i Doors, ma erano tutti americani come il mio piccolo amore lontano un oceano, ed a me, sinceramente, quella musica più suonata che cantata, non mi pareva espressione degli Stati Uniti. Attesi quella settimana che la posta aerea impiegava fra il mio invio, la sua sempre rapida risposta, ed il viaggio da New York a me. Quando aprii la “solita” leggerissima busta azzurra che Frances m’aveva inviato, fremevo più del solito, tale era la mia speranza di sapere chi era, o chi erano quegli artisti, ma fui ben presto deluso, perché lei non era riuscita a farsene un’idea. Ma chi erano? Dovevo per forza ritornare alla “Vecchia Fattoria” per saperlo, ma non era facile per i tempi di allora e per le possibilità che la famiglia mi lasciava, nonostante la mia indole ribelle e la constatazione, già vecchia per i miei quindici anni, di essere il “coccolato”, perché nato da due genitori che potevano essermi nonni e con un fratello e una sorella tanto distanti da me, per età e..........per le generazioni che ci dividevano.
Dovevo aspettare il momento in cui babbo, la “luce” che stavo scoprendo ogni giorno come intensissima, fosse libero da un lavoro che lo soffocava. Intanto, nella mia frazione tagliata in due dall’importante via Emilia, c’era poco da informarsi. I giovani che potevano aiutarmi, pur studiando lontano e, quindi, possibili di conoscenze impossibili a quel villaggio, in cui oltre al walzer e alle mazurke di Casadei proprio non s’andava, erano tutti in un campeggio organizzato dalla parrocchia. Senza volerlo, stavo scoprendo un tassello sociologico di quei tempi e l’incomunicabilità dovuta alla disinformazione e i preconcetti. Non mi potevano aiutare i compagni di scuola, perché eravamo in vacanza, ed a quei tempi non era facile per noi, poco più che adolescenti, arrivare allo scambio dei telefoni, anche perché, quell’aggeggio oggi presente fino alle narici, allora era ancora abbastanza raro, perlomeno nei miei luoghi. Poi babbo, come sempre, capì il mio intimo stato di ricerca, all’apparenza così leggero da confondersi con la normalità, ma lui era davvero una luce che riusciva con uno sguardo a percepire, anche quando, tutto sporco di morchia, si dipanava fra cacciaviti, martelli, o doveva lavorare il ferro uscito dalla fucina rosso infuocato, battendolo sull’incudine.
“Giarganen sa jel cun va?” – mi disse col suo dialetto inconfondibile che spesso non capivo, accompagnato dal solito mio nomignolo dialettale. Quando gli dissi che ero stato affascinato e coinvolto da una musica così armonica che alimentava il mio scrivere ed i miei sogni, i suoi occhi brillarono e non tardò ad assecondarmi con una delle sue frasi tanto brevi e rare, ma sempre più significative di quei comizi che già conoscevo e frequentavo con lui: “Giarganen i sogn je la benzina d’la vita! Sabat dop mezdé andasén a clà faturì!”
Quando arrivammo alla “Vecchia Fattoria”, quella musica aveva lasciato posto al vociare della spiaggia vicina, che si confondeva col rumore malinconico e ritmato delle onde del mare mentre incocciavano la riva.
Uscì un ragazzo coi capelli lunghissimi, dall’apparente età di venticinque anni che mi guardò un po’ sorpreso, fino a sorridere quando gli spiegai il motivo della mia visita. I suoi occhi si intenerirono ulteriormente, quando vide la “Topolino B”, con la quale mio padre mi aveva portato lì e mi disse che ero il ragazzino più originale che avesse mai incontrato. A quel punto lo stupore venne a me, perché mi chiedevo come avessi potuto dare, in quei pochi attimi, una simile impressione. Il ragazzo aggiunse subito che la mia passione avrebbe trovato soddisfazione e mi disse di aspettare un poco, senza riferirmi chi fossero gli autori di quella musica. Non più di un minuto dopo tornò, porgendomi una cassettina: “Tieni questa, è la copia che abbiamo fatto noi di Atom hearth mother, l’ultimo album dei Pink Floyd. Non la fare vedere troppo in giro, ed ascoltala nel tuo mangianastri, perché immagino non avrai lo stereo che abbiamo qui, ma basta ed avanza per alimentare i tuoi sogni. Okay?” Ero così preso, che la mia faccia, evidentemente, parlava da sola e lui aggiunse: “Non mi devi nulla, è l’omaggio che diamo ad un giovane che saprà fare di questo musica, la sua colonna sonora!”
Le sue parole furono profetiche: quel gruppo e quella musica divennero una parte evidente di me, ed una costante della mia vita.
In tutti i giorni, dei trentadue anni, circa, da quel tardo pomeriggio di scoperta, ho vissuto almeno un pezzetto di quel suono inconfondibile, come un penate entrato in me, o come le scarpe che mi devo mettere la mattina.......


Da questo ricordo, scritto a spontanea velocità, trascinato sulla tastiera, da quel condensato di emozioni che l’ascolto del sound pinkfloydiano mi dona con immutata intensità da quel giorno, voglio agganciarmi al non certo dolce presente, usando il medesimo contesto di quei musicisti.
Viviamo giornate di forte disagio, dove mettere in discussione i valori per i quali abbiamo lavorato, sembra sovente un’esigenza le cui motivazioni ci sfuggono. Non sempre abbiamo di fronte a noi un paesaggio che ci può ritemprare e farci capire, da una diversa angolatura, la bellezza della vita e di quei fiori che si sacrificano, ogni giorno su diverse forme, a volte anche senza uno sfondo colorato. C’è in noi, la spinta che vuole cancellare la tristezza e la preoccupazione di un mondo che ci appare pietra rotolante verso un orizzonte di timori, se non vere e proprie paure, dettate dalla scarsa percezione dei confini. Ed è proprio lì che ci leghiamo, con solare infatuazione, ad una musica dal suono senza pari alla nostra comprensione. Poi scopriamo il titolo e notiamo che in una parola raccoglie sinteticamente il momento che stiamo vivendo: Eclisse.
Ho finito di sognare, in parte ad occhi aperti, ed in altra parte con l’ipnosi del meccanico ticchettio di una tastiera. Quel sound spaziale che ancor mi lascia la pelle d'oca e mi intenerisce il cuore, è ancora una volta quello dei Pink Floyd, da "The dark side of the moon", disco di cui, nel marzo del 2003, è stato festeggiato il trentennale.
Un capolavoro che, per l’occasione, è stato ripresentato e corretto nel suono, già sublime, curato a suo tempo da Alan Parsons e David Gilmour. Ne è uscito un CD, che ha davvero dell'incredibile per i nostalgici come me.
Eclipse, rappresenta il pezzo finale, un brano inizialmente composto senza soverchie ambizioni musicali, puntualmente smentite dal genio naturale dei Pink e con le parole, o meglio la poesia di Roger Waters. Le tastiere di Richard Wright, la chitarra di Dave Gilmour e le sottili percussioni di Nick Mason, dipingono la riflessione di Waters, lasciando a noi l'esigenza di superare gli ostacoli e di vivere i nostri tormenti, senza perdere noi stessi, nel comunque breve volgere di un'eclisse. Certo, perché la vita, se si possiedono gli occhi del cuore, è sovente oscurata da “qualcosa” che si frappone fra noi, e quel nostro cammino che ha nel sole il supremo riferimento.

Eclipse
Tutto ciò che tocchi
Tutto quello che vedi
Tutto quello che assaggi
Tutto quello che senti.
Tutto ciò che ami
Tutto ciò che odi
Tutto ciò di cui diffidi
Tutto quello che risparmi.
Tutto quello che dai
Tutto ciò che ti occupi
Tutto quello che compri,
Mendicare, prendere in prestito o rubare.
Tutto quello che crei
Tutto quello che distruggi
Tutto quello che fai
Tutto quello che dici.
Tutto quello che mangi
E tutti quelli che incontri
Tutto ciò che sminuisci
E tutti quelli contro cui combatti.
Tutto ciò che è ora
Tutto ciò è andato
Tutto ciò che deve venire
E tutto sotto il sole è in sintonia
Ma il sole è eclissato dalla luna.

Tratto da "Segnali di fumo" (Morris - 2004)