Il Nuovo Ciclismo

Versione completa: Homo Pedaliensis
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Non posso dire di conoscere bene il sito, sono tanti i meandri dove non mi sono ancora avventurato (i pronostici o i giochi, ad esempio). Tuttavia, ogni tanto zonzo tra i vari articoli, spesso apprezzando molto. Di recente ho scoperto la serie di articoli “Sulle orme del passato”: grande Er Paglia! Ave

Trovo molto piacevole la varietà delle chiacchiere e degli argomenti. Volendo contribuire a questa varietà non trovo molte frecce nella mia faretra. Molte cose le ho seguite per parte della mia vita, ma spesso non con continuità. Gli argomenti che seguo maggiormente per passione personale sono l’evoluzione umana e gli scacchi (senza essere un forte giocatore).

Non so quanto possa interessare ma vi propongo il primo, la lunga strada che dagli alberi che andavano svanendo nell’Africa centro – orientale ci ha condotto fino a qui. Se vi interessa, se qualche notizia sull’argomento vi incuriosisce, ne chiacchiererei volentieri.

Per l’occasione propongo una nuova specie, l’Homo Pedaliensis…  :D

I meccanismi evolutivi che conducono dall’Homo Sapiens al Pedaliensis non sono noti Mmm   ma ho una mia teoria. Siamo diventati prima uomini e poi Sapiens correndo e sudando nella savana. Non siamo veloci ma dotati di una notevole resistenza. Correvamo per inseguire le prede ma la corsa credo sia pian piano diventata un modo ulteriore di sentirsi vivi, di sfidare il mondo e l’orizzonte, il vento sulla faccia, il cuore che batte. Molti corrono ancora oggi, per diletto, molti altri, i Pedaliensis, sfidano il mondo con un nuovo strumento, figlio della nostra mente. A volte una montagna ci nasconde l’orizzonte, ma la scaliamo, fino a conquistare una visione più ampia di quanto ci circonda, il vento sulla faccia, il cuore che batte.
Non ci ho capito tanto, ma sappi che sei uno dei miei utenti preferiti tra i nuovi.
(30-03-2016, 04:09 PM)Dayer Pagliarini Ha scritto: [ -> ]Non ci ho capito tanto, ma sappi che sei uno dei miei utenti preferiti tra i nuovi.



Grazie!
“L’ideazione” di Homo Pedaliensis è un elogio ai ciclisti e agli appassionati di ciclismo.


Quando si scoprono fossili non attribuibili a specie già conosciute (o quando si scoprono animali o piante non attribuibili a quanto già classificato) si nomina una nuova specie, enumerandone caratteristiche e differenze rispetto ad altre specie simili. Si usano termini latineggianti, con il nome del genere (la categoria immediatamente superiore alla specie, nel nostro caso “Homo”) e il termine per la specie, che viene inventato in vari modi. L’uomo di Neanderthal deriva il suo nome dal luogo dove è stato scoperto per la prima volta un fossile attribuibile a tale nuovo “gruppo” (la valle, in tedesco thal, di Neander). Quindi il termine scientifico è Homo neanderthalensis (se specie a sé stante, cosa su cui i paleoantropologi non sono unanimi).


Come artificio, per dire che trovo il ciclismo profondamente legato alla nostra natura umana, sono partito dai pedali per denominare scherzosamente la “nuova specie” Homo Pedaliensis. L’immagine è quella dell’arrivo in cima a un passo, magari alpino, con lo sguardo che spazia, mentre il cuore batte per lo sforzo e si avverte la brezza sulla pelle. Un attimo che avverto profondamente legato al nostro essere uomini (come tanti altri diversi attimi o sensazioni, ovviamente).
L'aver citato Indurain oggi in un altro post mi ha fatto venire in mente che c'è persino un legame tra Paleoantropologia e Ciclismo! 
Nel 1992, anno in cui Indurain fece la prima accoppiata Giro - Tour, venne scoperto ad Atapuerca, in Spagna, un famoso fossile, un cranio quasi completo insieme ad alcuni resti post craniali, attribuito alla specie Homo heidelbergensis, che venne soprannominato Miguelòn in suo onore!


[Immagine: Atapuerca-5.jpg]
Da pochi giorni è stata pubblicata su Nature la scoperta di un cranio fossile molto antico (ritrovato nel 2016), risalente a 3,8 milioni di anni fa (Mya, millions years ago). La notizia ha avuto su tutti i media a livello mondiale un risalto discreto ma non eccezionale, spesso definendo il nuovo fossile come “l’antenato di Lucy”.
Lucy è il fossile “superstar” della paleoantropologia, lo scheletro di una femmina, completo al 40%, risalente a 3,2 Mya e ritrovato in Etiopia nel 1974, attribuito alla specie (definita a partire da questo fossile e da molti altri ritrovamenti) Australopithecus afarensis. Era una specie, completamente bipede ma che conservava adattamenti all’arrampicamento sugli alberi, vissuta approssimativamente tra 3,9 e 2,9 milioni di anni fa, posta dalla teoria prevalente alla base della diramazione evolutiva derivante da due diversi adattamenti dietetici, da un lato i “grandi masticatori” (australopiteci, oggi descritti nel genere Paranthropus, che a fronte della crescente aridità in Africa, con forte riduzione di alberi e frutta, si adattarono ad una dieta di vegetali duri e fibrosi, che richiedevano una lunga masticazione), dall’altro i gruppi che iniziarono a integrare la dieta con proteine animali, soprattutto, si ipotizza, derivanti dalle carcasse, utilizzando strumenti di pietra scheggiata per macellare tali avanzi, la linea che avrebbe dato vita al genere Homo.
Una serie di straordinarie scoperte, nell'ultima ventina di anni, ha reso più complessa la descrizione delle nostre origini, aumentando molto i “cespugli” dell’albero evolutivo e costringendo a riflettere su alcuni passaggi delle linee evolutive maggiormente accettate. Nei suoi tratti fondamentali, però, la storia che siamo in grado di raccontare resta valida, e tutto fa pensare che resterà tale anche in futuro.
 
Negli ultimi 50 milioni di anni il clima della Terra si è progressivamente raffreddato, un processo che è diventato via via più marcato a partire da 15 Mya. Ancora 10 milioni di anni fa l’Africa era quasi completamente ricoperta di foreste ma, nell’ambito del globale raffreddamento, una serie di cambiamenti della circolazione dell’aria e delle precipitazioni (connessi anche all’incipiente spaccatura dell’Africa, lungo la linea della Rift Valley) ha diviso climaticamente due regioni, con le foreste che tutt’oggi caratterizzano l’Africa occidentale e la crescente aridità in Africa orientale. E’ stato un processo molto lento, che ha richiesto milioni di anni. I paleontologi individuano a partire da sette milioni di anni fa un primo “popolamento etiopico”, ovvero la comparsa di specie che si andavano adattando alla crescente savana.
Gli antenati di uomo e scimpanzé si sono trovati a vivere in due situazioni diverse e il “gruppo orientale” ha dovuto adattarsi, migliorando l’incipiente bipedismo (più adatto per muoversi nella savana, a tutt’oggi gli scimpanzé tendono ad alzarsi in piedi se devono attraversare uno spazio aperto, in linea di massima per guardarsi meglio attorno) per spostarsi da una macchia di foresta ad un’altra, in cerca di cibo. La dieta restava prevalentemente frugivora, come quella dei cugini occidentali. Nei successivi uno / due milioni di anni la situazione non è probabilmente cambiata molto, questo adattamento era sufficiente per la sopravvivenza del gruppo orientale. Con il tempo la savana conquistava però spazi sempre più ampi, gli alberi e la frutta erano sempre meno disponibili. Si arriva così, indicativamente a partire da 2,9 – 2,8 Mya, in una fase ben più arida delle precedenti, al momento della diramazione tra grandi masticatori e i gruppi che integravano la dieta con la carne.
Il paleoantropologo che ha proposto questa teoria, la “East side story”, ha descritto efficacemente quanto accaduto in contrasto all’idea “volitiva” dei nostri antenati, scesi “coraggiosamente” dagli alberi per conquistare gli spazi aperti e infine il pianeta: “Non sono stati i nostri antenati a scendere dagli alberi, sono stati gli alberi a sparire sopra le loro teste!”.
 
Questo preambolo (estremamente e necessariamente sintetico) per individuare meglio il nuovo eccezionale fossile.
 
[Immagine: Anamensis.jpg] 
 
Per quanto limitato agli addetti ai lavori, il dibattito sulle nostre origini è molto ampio e vivo. Il modello tuttora prevalente, che descrive Australopithecus afarensis (Lucy) come antenato ancestrale nostro e dei parantropi, incontra diverse domande e mostra qualche scricchiolio. Afarensis ha dei molari piuttosto grandi, che denotano un progressivo adattamento verso il consumo di vegetali duri. In quell’epoca, tra 3,5 e 3 Mya, sono stati trovati diversi fossili, mandibole e denti, che hanno molari meno grandi e spessi. Anche un cranio molto distorto, che ha fatto denominare un’altra specie, Kenyantrophus platyops, con molari ancora più piccoli, risale a quel periodo. Potrebbero essere indizi di una dieta diversa, meno specializzata, forse con un incipiente consumo anche di carne (anche se molari più piccoli potrebbero semplicemente appartenere ai rappresentanti di gruppi che forse riuscivano ancora a mantenere una dieta prevalentemente frugivora). A 3,3 milioni di anni fa risalgono degli utensili in pietra molto primitivi, trovati pochi anni fa e diversi, meno sofisticati dei successivi strumenti (i cui esempi più antichi sono di 2,6 Mya), che, insieme al ritrovamento di ossa scarnificate e spezzate intenzionalmente per estrarne il midollo, potrebbero indicare a partire da 3,3 / 3,4 Mya (epoca cui corrisponde la prima crisi climatica nettamente più arida del periodo precedente) l’inizio della differenziazione del nostro genere, Homo.
 
 [Immagine: temperatura01a.png]
 
Il nuovo cranio risale ad un periodo ancora precedente, 3,8 milioni di anni fa, ed è stato attribuito alla specie Australopithecus anamensis. Si tratta di una specie denominata nel 1995 in base a diversi fossili (mandibole e parti delle gambe, fino ad oggi senza crani) risalenti a 4,2 – 3,9 milioni di anni fa. Rispetto ad afarensis si tratta di una specie che presenta caratteristiche facciali ancora più “scimmiesche” ma con resti post – craniali che segnalano un pieno bipedismo, secondo alcuni autori più completo di quello di afarensis. In entrambe le specie i molari sono abbastanza grandi e a smalto spesso, segnalando l’incipiente consumo anche di vegetali più duri e fibrosi della frutta. Secondo alcuni autori ci sarebbe una continuità evolutiva tra anamensis ed afarensis, come dire che i fossili di anamensis rappresentano solo degli afarensis più antichi, secondo altri le differenze e alcune specializzazioni di anamensis fanno pensare a due linee evolutive diverse, anche se molto vicine.
 
Questo nuovo fossile ha permesso il raffronto con resti facciali frammentari, finora non assegnati ad una determinata specie, di 3,9 milioni di anni fa. L’analisi ha fatto considerare agli autori differenze significative, attribuendo i resti frammentari ad afarensis, ovvero la specie di Lucy. Una conclusione un po’ azzardata, a mio avviso, si tratta di dettagli interpretativi che saranno sicuramente oggetto di dibattito. Si suggerisce comunque, il che è probabilmente corretto, che almeno due gruppi / specie diverse di ominini bipedi vivevano nella boscaglia / savana dell’Africa orientale 4 – 3,8  milioni di anni fa. Perché questo, eventualmente, avveniva? Vi erano aree in cui le macchie forestali erano più rade rispetto ad altre, costringendo probabilmente ad un adattamento più complesso, a camminare più a lungo e a integrare la dieta frugivora. Si potrebbero introdurre molte altre informazioni e considerazioni ma mi fermo qui, c’è abbastanza nebbia e non è facile distinguere dettagli.
 
In ogni caso, il nuovo fossile ha secondo me un particolare elemento di fascino. Al di là delle lievi differenze, i gruppi che stavano forse iniziando a differenziarsi erano ancora molto simili. Non possiamo ovviamente dire che questo cranio sia appartenuto ad un rappresentante del gruppo dei nostri antenati ma i nostri avi di 3.8 – 4 milioni di anni fa avevano comunque, molto probabilmente, un aspetto simile. Se percorressimo una ipotetica fila dei nostri antenati per 160.000 generazioni, incontreremmo presumibilmente un ominino bipede con un aspetto analogo a questo.

[Immagine: Anamensis2.jpg]
Sta facendo il giro della rete la scoperta di diversi fossili nella grotta Guattari, al Circeo, attribuibili a nove diversi individui di Neanderthal. Si tratta di resti frammentari, con calotte craniche ma senza ossa facciali. È un ritrovamento importante ma non aggiunge molto alle nostre conoscenze sull’evoluzione umana. In quella grotta, nel 1939, era stato trovato un cranio quasi completo, sempre attribuibile all’uomo di Neanderthal (nella foto seguente).  

[Immagine: Circeo1.jpg]

 
E’ notevole che si sia atteso tanto per ulteriori scavi, uno dei modi migliori per trovare fossili umani è cercarli dove ne sono già stati trovati! Dell’uomo di Neanderthal abbiamo una quantità notevolissima di ritrovamenti, conoscendone l’intero scheletro ed avendone ricostruito in modo completo il genoma. Negli anni recenti stiamo comprendendo sempre più profondamente il mondo di questo “cugino”, che seppelliva i morti, con prime forme d’arte, che costruiva ornamenti, che quasi certamente possedeva un linguaggio, anche se ci si affretta a precisare che era “un linguaggio meno complesso del nostro” (cosa che ovviamente non sappiamo).
Ormai da molto tempo la raffigurazione del cavernicolo un po’ curvo e semi – scimmiesco è stata sostituita da ricostruzioni più scientifiche, che ci restituiscono l’immagine di un altro uomo, diverso da noi ma non poi così tanto.
Suppongo abbiate letto che circa il 2%, in media, del nostro patrimonio genetico deriva dall’uomo di Neanderthal. Significa, con tutta ovvietà, che alcuni nostri avi erano Neanderthal, che si sono incrociati con i Sapiens. Le scoperte degli ultimi decenni stanno rendendo sempre più complessa la ricostruzione della nostra storia. Sta emergendo una elevata quantità di incroci tra popolazioni diverse, una matassa difficile da dipanare, anche perché nella gran parte dei casi non è possibile estrarre il DNA dai fossili.

In linea generale, a partire da circa 850.000 anni fa, vi è stata una espansione in Asia e in Europa del tipo umano che viveva in Africa, incontrando le popolazioni umane che già avevano colonizzato quei continenti, in parte sostituendole (ma non sempre), in qualche caso probabilmente anche incrociandosi con loro. Devono esservi state più fasi migratorie dall’Africa, con altri incontri e altri incroci. Gli antenati di Sapiens, Neanderthal e Denisoviani (forse con altri gruppi ancora) costituivano una popolazione “unica”, diffusa in gran parte del vecchio mondo. Circa 400.000 anni fa si possono distinguere iniziali caratteristiche neanderthaliane nei fossili europei (ma non in tutti, vi erano altri gruppi) e caratteristiche pre – sapiens in alcuni fossili africani (con altri gruppi diversi). Anche in questa fase devono esserci stati incontri ed incroci.
Tra 200 e 100.000 anni fa i Sapiens, ancora quasi esclusivamente africani, non sembravano avere alcun “vantaggio” sulle altre popolazioni, la “tecnologia” loro e dei Neanderthal era del tutto analoga. Vi erano Sapiens stabilitisi in Medio Oriente (e arrivati anche in Asia), successivamente sostituiti in quelle terre da uomini di Neanderthal (fase in cui sembra vi siano stati altri incroci). Circa 70 – 60.000 anni fa è emerso in Africa un tipo di Sapiens con una cultura più complessa, che ha via via colonizzato tutto il mondo, sostituendo tutte le altre popolazioni. Gli ultimi Neanderthal si sono estinti intorno a 35 – 30.000 anni fa in Spagna.
Questo recente schema del paleoantropologo John Hawks dà una idea delle conoscenze attuali. Le tante lineette rappresentano incroci tra popolazioni diverse. Non è uno schema di facile lettura ma dà una idea della grande complessità.

[Immagine: Filogenesi03-John-Hawks2020.png]

Ovviamente solo un accenno, la materia è vastissima. Tra gli oltre tre milioni di anni fa del post precedente e queste brevi chiacchiere ci sono almeno due milioni di anni di “vuoto”… Magari, strada facendo, eventualmente in relazione a nuovi ritrovamenti, mi capiterà di provare a raccontare meglio come potrebbe essere andata.
Si riparla di Neanderthal
Gli autori, tra i quali l'eccellente prof. Manzi, enfatizzano i punti di domanda posti dallo studio ma non è la prima volta che per i Neanderthal si ipotizza una origine non europea (o non solo europea). Tra l'altro, sono fossili che sembrano presentare caratteristiche miste, Neanderthal e più primitive. 
Il punto, secondo la mia modestissima opinione, è che si fa fatica a passare da una ottica precedente relativamente statica (quella specie umana in Asia, quell'altra in Africa, peraltro con tutte le difficoltà delle definizioni di specie) al nuovo quadro delineato dalla genetica, con tante migrazioni e incroci tra gruppi diversi. 
Intendiamoci, quanto gli studiosi riescono a descrivere in base a pochi resti, spesso frammentari, con analisi sempre più sofisticate e multidisciplinari, è fantastico. Tuttavia ho l'impressione che a volte ci si imprigioni con schemi di studio che oggi rischiano più di porre vincoli che non la base per teorie via via più attendibili. 
Ad esempio, se uno studioso pubblica l'analisi di un fossile africano di 2 milioni di anni fa e lo attribuisce a Homo Erectus, e se tale attribuzione appare congrua con le definizioni relative a tale specie, un altro studioso potrà successivamente scrivere che "sappiamo che Homo Erectus era presente in Africa almeno due milioni di anni fa.". Logico, conseguente, ma poco utile... La definizione di specie è già complessa per i gruppi animali attuali, diventa un vero labirinto su archi temporali enormi e sulla base di pochi fossili, fino ad essere quasi un ostacolo per il pensiero. 
Sullo sfondo serpeggia una sorta di premessa sulla unicità di Homo Sapiens, più volte smantellata dallo sviluppo delle conoscenze e sempre pronta a rientrare in campo. 
In linea di massima, lo schema che ho segnalato nel post precedente è quanto allo stato si può "faticosamente" dire sugli ultimi 800.000 anni. 
Nel leggere e riflettere sull’evoluzione umana mi sono confrontato con l’enormità dei tempi di cui si tratta. 35.000 anni? 500.000? 5 milioni di anni? Mi ha aiutato la raffigurazione di una lunghissima fila di progenitori, con un metro di distanza tra ogni generazione, considerando genericamente 25 anni tra una generazione e l’altra (solo come esempio, 25 anni sono un lasso di tempo un po’ ridotto nella nostra realtà moderna, forse adeguato in epoche storiche, probabilmente ampio nella preistoria, via via abbondante man mano che si va indietro nel tempo).

Quindi, a un metro di distanza (25 anni) c’è mio padre (o mia madre), a 4 metri (100 anni) un trisnonno, a 40 metri (1.000 anni fa) un progenitore del medioevo. Immaginiamo di camminare lungo questa fila, incrociando lo sguardo con tutti questi avi.

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Bastano 74 metri (74 progenitori) per trovarci nella Roma imperiale, all’epoca di Marco Aurelio! È una passeggiata che riduce la storia a pochi attimi! A 200 metri dal presente (200 progenitori) siamo a 5.000 anni fa, al 3000 avanti Cristo, già ai confini della storia. Da allora ad oggi il tempo ha sepolto case e monumenti, ha dimenticato storie ed eventi, lasciandoci solo vaghe memorie. Parliamo al tempo stesso di tempi enormi, dalle civiltà mesopotamiche o dall’antico Egitto ad oggi, e di tempi brevissimi su scala geologica ed evolutiva.
 
Con tutta probabilità i miei (nostri) antenati di allora vivevano in gran parte nella penisola italiana ma qualcuno lo rintracceremmo probabilmente altrove, in Grecia, nell’Europa centrale, in Nord Africa, in Asia Minore. Quanti erano questi nostri avi, quanti miei / nostri progenitori diretti vivevano 5.000 anni fa? Meno di quanto potremmo pensare. I nostri trisnonni sono 16, 2 elevato alla quarta. Ma 2 elevato alla 200ma (le circa 200 generazioni per giungere a 5.000 anni fa) dà un numero enorme, già 2 elevato alla quarantesima potenza dà un numero superiore a 1.000 miliardi! 5.000 anni fa l’intera popolazione mondiale era di circa 25 milioni di persone e solo una parte di loro rientra tra i miei / nostri avi diretti. Semplicemente, molti nostri avi ricorrono più e più volte nelle nostre linee di ascendenza.
 
Continuiamo a scorrere la fila: in termini di storia è cambiato molto nei primi 200 metri ma se percorriamo altri 200 metri (per un totale di 400 generazioni, 10.000 anni fa) abbiamo meno informazioni, non vediamo comunque grandi cambiamenti. Siamo all’epoca delle primissime coltivazioni e l’agricoltura non era ancora arrivata in Europa. Che il nostro antenato vivesse in Europa o in Mesopotamia, incontriamo semplicemente uomini come noi, geneticamente del tutto simili. Nonostante il tempo sia fortemente schiacciato da questa raffigurazione è necessario camminare per molti chilometri prima che qualcosa cambi.

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Dopo una dozzina di chilometri, una fila ininterrotta di 12.000 avi, 300.000 anni fa, incontreremmo antenati che riconosceremmo pienamente come uomini, molto simili a noi, appena un po’ diversi per i tratti più marcati, spesso decisamente robusti, più forti fisicamente.

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Sono necessari 40 chilometri per arrivare ad un milione di anni fa (40.000 avi in fila, uno dietro l’altro!) e per notare differenze maggiori, fondamentalmente una fronte sfuggente, arcate sopracciliari molto marcate, l’assenza di mento, eppure riconosceremmo quasi certamente come uomini quelli che incontriamo, meno simili a noi ma uomini.

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200 metri per arrivare all’epoca delle piramidi, decine di chilometri per incontrare uomini visibilmente diversi da noi. Quand’è che questa percezione dei nostri antenati come uomini inizia a mutare? Probabilmente, considereremmo ancora come appartenenti al genere umano gli avi di un milione e 500.000 anni fa (60 chilometri, 60.000 generazioni), avremmo dubbi crescenti andando ancora più indietro nella fila: a 120 chilometri, 3 milioni di anni fa, la sensazione “scimmiesca” prevarrebbe, anche se si tratterebbe di una “scimmia” piuttosto “umana”, con andatura bipede, che scheggia pietre per trarne utensili.


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Un fossile conservatosi in modo spettacolare, da Dmanisi (Georgia), risalente a circa 1.800.000 anni fa. Forse è rappresentativo della prima ondata migratoria dall'Africa, poi sostituita dalle successive migrazioni. 
Il 2 gennaio è morto Richard Leakey, figura straordinaria della ricerca paleoantropologica. La notizia è stata comunicata direttamente dal presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta. Quella dei Leakey è quasi una casata reale per la paleoantropologia, alone di “nobiltà” cui Richard ha dato un grande contributo. Quasi impossibile sintetizzarne la biografia in poche righe, rinvio alla pagina inglese di Wikipedia. Qui annoto solo come il suo apporto alla ricerca sulle origini dell’uomo sia stato eccezionale, senza i fossili scoperti dalle sue spedizioni comprenderemmo molto meno la nostra storia evolutiva e la sua complessità.

Nel 1967 sorvolò, a causa di una deviazione per evitare un temporale, il Lago Turkana (allora Lago Rodolfo) e ne notò il potenziale fossilifero, come confermarono i successivi sopralluoghi. L’anno dopo riuscì incredibilmente, da giovane senza titoli accademici, a convincere la National Geographic Society a investire in un progetto di ricerca a Koobi Fora, sulle rive orientali del Turkana. La quantità e importanza delle scoperte, susseguitesi nell’arco di decenni, è sbalorditiva.

[Immagine: RLeakey01.jpg]
 
Tre crani dalla zona orientale del Turkana. 1470, scoperto nel 1972, è a tutt’oggi il cranio più antico attribuibile al genere Homo (1,9 milioni di anni). È un reperto abbastanza enigmatico, spesso ritenuto collaterale rispetto alla nostra linea evolutiva. Classificato a lungo come Homo habilis, è oggi denominato come Homo rudolfensis, proprio a sottolinearne le differenze con habilis, di cui il cranio 1813 (a fianco nell’immagine, circa 1,8 milioni di anni fa, scoperto nel 1973) è spesso presentato come il tipico rappresentante. 1470 ha un volume endocranico di circa 750 cc, contro i soli 510 di 1813. 3733, probabilmente una femmina di circa 1,63 milioni di anni fa, con un volume endocranico di circa 850 cc, rappresenta invece la specie Homo ergaster, denominata per distinguere i più antichi reperti africani dai fossili di Homo erectus asiatici, la stessa cui è attribuito il ragazzo del Turkana (KNM-WT 15000, nella foto seguente, circa 1,5 – 1,6 Mya).

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Lo scheletro incredibilmente quasi completo del Turkana Boy e Richard Leakey con una sua ricostruzione. All’epoca della morte aveva una età di circa 11 anni (tra 8 e 12, secondo le diverse stime) ed era già alto un metro e sessanta. La scoperta è probabilmente la più straordinaria della storia della paleoantropologia, a mio avviso ancor più di “Lucy”. Ci mostra il “pacchetto completo” di un pieno adattamento alla savana, ormai privo di specializzazioni per l’arrampicata sugli alberi, orientato verso la corsa e la caccia, probabilmente con la capacità di contestare a leoni e iene il possesso delle prede. Bastoni, probabilmente resi appuntiti, e pietre scheggiate, rendendole taglienti, erano le zanne e gli artigli di questo nuovo attore dell’ecosistema dell’Africa Orientale.

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Richard Leakey era soprattutto un grande organizzatore, capace di aggregare uomini, competenze e risorse, un uomo poliedrico e di grande energia, avventuroso, convinto ambientalista, che apparteneva ai grandi spazi africani in cui era cresciuto. Tra le centinaia di firme che hanno portato alla enorme crescita di conoscenze del Novecento credo che ci sia a pieno titolo anche la sua.
 
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Mi ha sorpreso ieri l’assegnazione del Nobel per la Medicina e Fisiologia ad uno scienziato a me ben noto per la mia passione per la paleoantropologia, lo svedese Svante Pääbo, straordinario genetista che ha di fatto fondato la paleogenetica, il sequenziamento e lo studio del DNA antico. Dal 1997 il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, fondato e diretto da Pääbo, è il punto di riferimento nella materia, con molte scoperte che hanno rivoluzionato la nostra comprensione dell’evoluzione umana. 

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Risale proprio al 1997 il primo sequenziamento del DNA mitocondriale dell’uomo di Neanderthal: le differenze con il nostro, in paragone al DNA mitocondriale degli scimpanzé, fecero ipotizzare a circa 450.000 anni fa la differenziazione tra Sapiens e Neanderthal (a 5 milioni di anni circa risalirebbe la differenziazione con il ramo degli scimpanzé). Il concetto è quello dell’orologio molecolare, con il tempo si accumulano mutazioni e il loro numero ci consente una stima del tempo intercorso, implementando dati geologici e paleontologici. La scoperta ha confermato come le popolazioni moderne non derivino dai Neanderthal, a conferma di una “unicità” di Homo sapiens che ha sempre “rassicurato” parte del mondo scientifico. Le cose sono però un poco più complicate.

Il DNA dei mitocondri delle cellule passa esclusivamente dalla madre ai figli, gli spermatozoi non contengono mitocondri. Lo studio del DNA mitocondriale è quindi un risalire di madre in madre, così come l’analisi del cromosoma Y risale esclusivamente di padre in padre. Le analisi filogenetiche di entrambi questi fattori (ricerche queste non di Pääbo) hanno dimostrato come il primo antenato Y e la prima antenata mitocondriale di tutti gli uomini moderni siano vissuti entrambi in Africa, tra 150.000 e 200.000 anni fa. Questo non esaurisce il quadro dei nostri progenitori di quell’epoca, in media un 2 – 3% del patrimonio genetico delle popolazioni moderne deriva da altri gruppi umani.
Nel 2009 il gruppo di Pääbo ha pubblicato la prima bozza del genoma di Neanderthal, un risultato stupefacente. L’analisi fece comprendere come una piccola percentuale del nostro patrimonio genetico derivi dai Neanderthal, per molti una rivoluzione! 

Nel 2010 la scoperta di Pääbo di un nuovo gruppo umano, denominato di Denisova. L’estrazione del DNA mitocondriale da un piccolissimo fossile dalla grotta di Denisova, nei monti Altai, fece valutare una differenza quasi doppia rispetto a quella esistente tra Sapiens e Neanderthal. L’anno dopo, però, il sequenziamento del DNA nucleare di Denisova dimostrò una parentela più stretta con i Neanderthal. Due dati che si contraddicevano, come evidenzia il seguente grafico:

[Immagine: Filogenesi05.png]
 
Il dato del complessivo genoma è enormemente più ampio e rappresenta quanto accaduto molto meglio dello schema derivante dall’analisi mitocondriale. Come spiegare una tale differenza? L’ipotesi è quella di una introgressione, ovvero una ibridazione tra due gruppi in cui un tratto della popolazione ancestrale minoritaria diventa prevalente. Supponiamo che una popolazione pre – neanderthal si sia incrociata con una popolazione pre – sapiens, supponiamo poi che ne derivi una popolazione con il 90% di genoma pre – neanderthal e il 10% di genoma pre – sapiens. In questa successiva popolazione ci sono molte donne con DNA mitocondriale originale pre – neanderthal e alcune donne con DNA mitocondriale pre – sapiens. Un determinato DNA mitocondriale si trasmette alle generazioni successive solo finché vi è una linea ininterrotta di figlie femmine. Per pura casualità, dopo migliaia di generazioni, l’unico DNA mitocondriale tramandatosi in quella popolazione è stato quello pre – sapiens. Si è avuta una conferma dalla successiva (e straordinaria) estrazione del DNA dai fossili di Atapuerca, in Spagna, risalenti a circa 400.000 anni fa, con molti tratti che fanno ritenere questa popolazione ancestrale ai Neanderthal. Il DNA nucleare ha confermato come si tratti di una popolazione pre – neanderthal ma il DNA mitocondriale ha caratteristiche denisoviane! Evidentemente, una ibridazione successiva ha visto questo cambiamento del DNA mitocondriale.

Abbiamo evidenze di diverse fasi di ibridazione Sapiens – Neanderthal, di ibridazioni Sapiens – Denisova, Neanderthal – Denisova, di una ibridazione dei Denisova con una popolazione di ascendenza più antica, in Africa di una ibridazione Sapiens con un’altra popolazione antica. Un quadro del nostro passato meno lineare e molto complesso. Lo schema che ho segnalato in questo post presenta le conoscenze attuali. 
Leggendo quello che hai scritto non sorprende che gli abbiano dato il Nobel semmai che glielo abbiano dato solo adesso
(04-10-2022, 11:52 AM)OldGibi Ha scritto: [ -> ]
Mi ha sorpreso ieri l’assegnazione del Nobel per la Medicina e Fisiologia ad uno scienziato a me ben noto per la mia passione per la paleoantropologia, lo svedese Svante Pääbo, straordinario genetista che ha di fatto fondato la paleogenetica, il sequenziamento e lo studio del DNA antico. Dal 1997 il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, fondato e diretto da Pääbo, è il punto di riferimento nella materia, con molte scoperte che hanno rivoluzionato la nostra comprensione dell’evoluzione umana. 

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Risale proprio al 1997 il primo sequenziamento del DNA mitocondriale dell’uomo di Neanderthal: le differenze con il nostro, in paragone al DNA mitocondriale degli scimpanzé, fecero ipotizzare a circa 450.000 anni fa la differenziazione tra Sapiens e Neanderthal (a 5 milioni di anni circa risalirebbe la differenziazione con il ramo degli scimpanzé). Il concetto è quello dell’orologio molecolare, con il tempo si accumulano mutazioni e il loro numero ci consente una stima del tempo intercorso, implementando dati geologici e paleontologici. La scoperta ha confermato come le popolazioni moderne non derivino dai Neanderthal, a conferma di una “unicità” di Homo sapiens che ha sempre “rassicurato” parte del mondo scientifico. Le cose sono però un poco più complicate.

Il DNA dei mitocondri delle cellule passa esclusivamente dalla madre ai figli, gli spermatozoi non contengono mitocondri. Lo studio del DNA mitocondriale è quindi un risalire di madre in madre, così come l’analisi del cromosoma Y risale esclusivamente di padre in padre. Le analisi filogenetiche di entrambi questi fattori (ricerche queste non di Pääbo) hanno dimostrato come il primo antenato Y e la prima antenata mitocondriale di tutti gli uomini moderni siano vissuti entrambi in Africa, tra 150.000 e 200.000 anni fa. Questo non esaurisce il quadro dei nostri progenitori di quell’epoca, in media un 2 – 3% del patrimonio genetico delle popolazioni moderne deriva da altri gruppi umani.
Nel 2009 il gruppo di Pääbo ha pubblicato la prima bozza del genoma di Neanderthal, un risultato stupefacente. L’analisi fece comprendere come una piccola percentuale del nostro patrimonio genetico derivi dai Neanderthal, per molti una rivoluzione! 

Nel 2010 la scoperta di Pääbo di un nuovo gruppo umano, denominato di Denisova. L’estrazione del DNA mitocondriale da un piccolissimo fossile dalla grotta di Denisova, negli Urali, fece valutare una differenza quasi doppia rispetto a quella esistente tra Sapiens e Neanderthal. L’anno dopo, però, il sequenziamento del DNA nucleare di Denisova dimostrò una parentela più stretta con i Neanderthal. Due dati che si contraddicevano, come evidenzia il seguente grafico:

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Il dato del complessivo genoma è enormemente più ampio e rappresenta quanto accaduto molto meglio dello schema derivante dall’analisi mitocondriale. Come spiegare una tale differenza? L’ipotesi è quella di una introgressione, ovvero una ibridazione tra due gruppi in cui un tratto della popolazione ancestrale minoritaria diventa prevalente. Supponiamo che una popolazione pre – neanderthal si sia incrociata con una popolazione pre – sapiens, supponiamo poi che ne derivi una popolazione con il 90% di genoma pre – neanderthal e il 10% di genoma pre – sapiens. In questa successiva popolazione ci sono molte donne con DNA mitocondriale originale pre – neanderthal e alcune donne con DNA mitocondriale pre – sapiens. Un determinato DNA mitocondriale si trasmette alle generazioni successive solo finché vi è una linea ininterrotta di figlie femmine. Per pura casualità, dopo migliaia di generazioni, l’unico DNA mitocondriale tramandatosi in quella popolazione è stato quello pre – sapiens. Si è avuta una conferma dalla successiva (e straordinaria) estrazione del DNA dai fossili di Atapuerca, in Spagna, risalenti a circa 400.000 anni fa, con molti tratti che fanno ritenere questa popolazione ancestrale ai Neanderthal. Il DNA nucleare ha confermato come si tratti di una popolazione pre – neanderthal ma il DNA mitocondriale ha caratteristiche denisoviane! Evidentemente, una ibridazione successiva ha visto questo cambiamento del DNA mitocondriale.

Abbiamo evidenze di diverse fasi di ibridazione Sapiens – Neanderthal, di ibridazioni Sapiens – Denisova, Neanderthal – Denisova, di una ibridazione dei Denisova con una popolazione di ascendenza più antica, in Africa di una ibridazione Sapiens con un’altra popolazione antica. Un quadro del nostro passato meno lineare e molto complesso. Lo schema che ho segnalato in questo post presenta le conoscenze attuali. 

Altro imbonitore conosciuto dalle masse. Abilissimo nei suoi sotterranei, cieco alla luce. Talpa abitatrice di un universo scientista malato.
Non serviva che quotassi tutto il post di Angelo solo per perculare Duilio Sweat Asd
Si dirà: segno di civiltà. Perché poi il tasso intellettuale collettivo sia pressoché pari al livello di quello delle scimmie (che non godono dei magnifici ritrovati della scienza!!!! E perciò, tutto considerato, inferiore!) qualcuno dovrà spiegarmelo…