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Tommy Simpson, il vero baronetto.
#1
[fon‌t=Times New Roman]……A chi mi chiede dove collocherei Tommy Simpson fra gli stradisti britannici di tutti i tempi, rispondo: “In alto, molto in alto, oltre le nuvole se i contendenti gravitano sui nomi di un comunque grande asso, anche se settoriale prima della maggiorazione sugli asfalti, nonché, soprattutto, di colui che oltre la mezzanotte è un Cenerentolo moderno, che lascia l’assistenza dell’incanto di zucca e topi sulle foglie d’anoressico ed un viso da ET…..”[/font]

[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]......Lo han fatto passare come la prima vittima del doping, ma la realtà è un po’ diversa, eppure, ancora oggi, c’è chi ci marcia sopra. Per onestà, un contributo, con parti totalmente inedite ai più...... [/font][/font]

[fon‌t=Times New Roman]Tommy Simpson, il vero baronetto.[/font]
[fon‌t=Times New Roman][b][fon‌t=Times New Roman]Nato a Haswell (Gran Bretagna) il 30 novembre 1937, deceduto il 13 luglio 1967. Passista. Professionista dal 1959 al 1967, con 54 vittorie su strada. [/font][/font][/b]

[fon‌t=Times New Roman]Nel tardo pomeriggio del 13 luglio 1967, il dottor Pierre Dumas, medico del Tour de France, emetteva da Carpentras, il seguente comunicato: [/font][fon‌t=Times New Roman]“Il corridore Tommy Simpson, caduto sul percorso due chilometri prima della cima del Mont Ventoux e rialzatosi in stato comatoso è stato immediatamente soccorso dai membri del servizio del Tour, che hanno fatto uso di tutte le tecniche di rianimazione. Dopo un breve miglioramento, il corridore Simpson, è stato trasportato con l’elicottero della polizia al centro ospedaliero di Avignone. La rianimazione è continuata a bordo, sotto la responsabilità del dottor Macoring, All’arrivo all’ospedale di Avignone, Tom Simpson era in stato di morte apparente. I servizi specializzati dell’ospedale hanno proseguito senza successo la rianimazione. Tom Simpson é deceduto alle ore 17.40. I medici incaricati hanno deciso di rifiutare il permesso d’inumazione”. [/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Sulla morte di questo campione si son dette tante cose, addirittura si sono formulate delle teorie sul motivo scatenante della crisi che gli provocò la morte. S’è scritto di anfetamine, che sicuramente c’erano, come da costumanza o metodica di quel periodo, ma che siano state loro a provocargli l’irreparabile, è ancora tutto da spiegare, soprattutto guardando al passato di Tommy Simpson [fon‌t=Times New Roman](***).[/font][/font][/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Di sicuro, questa tragedia è la più conosciuta o quella che ha fatto più epoca nel pedale d’ogni era. [/font][/font][/font]

[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Sir Tom Simpson era stato il primo corridore inglese ad imporsi nel mondo del ciclismo. Per i suoi meriti sportivi, all’indomani della sua vittoria alla Milano-Sanremo’64, la regina Elisabetta l’aveva insignito del titolo di baronetto. Iniziò la carriera come da tradizione tipicamente britannica provando l’inseguimento su pista. Era più che discreto tanto da vincere il titolo britannico a 20 anni, nel 1957. Tre anni prima appena diciassettenne aveva vinto un altro titolo nazionale, stavolta nel campionato della montagna. Tommy capì ben presto che nel suo paese il ciclismo era particolare e ben poco seguito. Lui voleva diventare qualcuno e non era proprio il caso di restare in patria. Agli inizi del 1959m per provare a diventare un campione si trasferì in Bretagna, regione del nord della Francia, nella quale i dilettanti di quel tempo avevano a disposizione numerose gare, praticamente ogni giorno. In quella terra di ciclisti nati, imparò i primi segreti della professione, ma non tardò molto a convincersi che per migliorarsi, il Belgio offriva ancora più possibilità. Si trasferì nuovamente, stavolta nella provincia di Gand, dove i fiamminghi facevano del ciclismo un lavoro quotidiano. Qui, nel breve volgere di qualche settimana conquistò le più vive simpatie di quella gente aperta, così abituata ad integrarsi con gli emigranti. Infatti, non appena Tom si mostrò vincente, nella zona vennero fondati alcuni club portanti il suo nome. Durante quel 1959, riuscì a passare professionista all’interno della francese St Raphael-Geminiani e, subito, colse tre successi, prima di correre, senza esperienza, un mondiale super in quel di Zandvoort, dove finì 4°. Simpson era così arrivato sul palcoscenico che voleva e si dimostrò subito un gran bel corridore. Negli anni successivi, continuò a migliorare, grazie ad un’abnegazione enorme e alle sue indubbie qualità naturali. Un corridore completo, non di qualità eccelsa, ma senza lacune. In pochi anni si prese gran parte delle più grandi classiche. La prima fu il Giro delle Fiandre, dove andò in fuga con un fulmineo contropiede assieme a Nino Defilippis e lo battè in volata. [/font][/font][/font][/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Poi, una dopo l'altra, vennero le vittorie nella Bordeaux-Parigi ('63), nella Milano-Sanremo ('64) e nel Giro di Lombardia ('65), poco più di un mese dopo la conquista, a San Sebastian, del campionato mondiale. Una maglia iridata conquistata in uno sprint a due col tedesco Rudi Altig, ma una maglia che non gli bastava. Voleva una grande corsa a tappe, da quel giorno di luglio del 1962, in cui, al Tour, riuscì, primo fra i britannici, a vestire per almeno un giorno la maglia gialla. Sì, proprio quel Tour de France che, nel '67, dopo che all'inizio della stagione aveva vinto la Parigi-Nizza, si presentò attraverso lo scenario pietroso e bollente del Mont Ventoux, come il luogo della sua tragedia. Di Tommy Simpson, praticamente tutti ricordano la morte, ma pochi, molto pochi, sanno che era un gran corridore. Per questo, credo sia opportuno allegare l’elenco delle vittorie più belle del baronetto inglese.[/font][/font][/font][/font][/font]

[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Le vittorie ed i piazzamenti più importanti di Tom Simpson:[/font][fon‌t=Times New Roman] [/font]
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[fon‌t=Times New Roman]1959: [/font][fon‌t=Times New Roman]Due tappe del Giro dell’Ovest; Tappa al Route de France; 4° al Campionato Mondiale. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1960: [/font][fon‌t=Times New Roman]Corsa del Mont Faron; Giro del Sud Est; Criterium Poly di Lorient; Criterium di Ploerduts; 3° nella Genova-Roma (primo nel GPM); 9° Parigi-Roubaix; 7° Freccia Vallone. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1961: [/font][fon‌t=Times New Roman]Giro delle Fiandre; Tappa alla Quattro Giorni di Dunkerque; Tappa al G. P. Eibar; 9° Campionato Mondiale; 5° ParigiNizza; 2° Genova-Roma[/font]

[fon‌t=Times New Roman]1962: [/font][fon‌t=Times New Roman]2° Parigi-Nizza; 5° Giro delle Fiandre, 6° Tour de France. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1963: [/font][fon‌t=Times New Roman]Bordeaux-Parigi, Trofeo della Manica; Tappa del Tour del Var; Ruota d'oro di Dansmenil; Criterium di Chef Bautonne; Criterium di Valenciennes; Criterium di St. Gaudens; G. P. Isola di Man; 2° Parigi Tours; 2° Gand Wevelgem; 2° Parigi Bruxelles; 3° Giro delle Fiandre; 8° Parigi-Roubaix; 10° Freccia Vallone. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1964: [/font][fon‌t=Times New Roman]Milano Sanremo; G. P. della Corona a Londra; Tappa del Giro della Provenza; Criterium di Issoiret; Criterium di Zolder; 4° Campionato Mondiale; 2° Mont Faron; 2° Kuurne-Bruxelles-Kuurne; 3° Trofeo Baracchi con Rudi Altig. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1965: [/font][fon‌t=Times New Roman]Campionato Mondiale; Giro di Lombardia; G.P. di Vayrac; 3° Midi Libre; 3° Bordeaux-Parigi; 3° Freccia Vallone; 7° Parigi-Roubaix; 9° Liegi-Bastogne-Liegi. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1966: [/font][fon‌t=Times New Roman]Criterium di Brest; Criterium Felletin; Criterium Laval; 2° Luchon-Revel; 2° Revel-Sete (tappe del Tour de France). [/font]

[fon‌t=Times New Roman]1967: [/font][fon‌t=Times New Roman]Parigi Nizza; Tappa del Giro di Sardegna; Trofeo della Manica; due Tappe della Vuelta di Spagna; 3° G. P. Salvarani di Bruxelles. [/font]



[fon‌t=Times New Roman]Le sue prestazioni al G.P. Terme di Castrocaro. [/font][fon‌t=Times New Roman](Quando lo vidi dal vivo) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Tommy Simpson prediligeva le cronometro piatte, mentre nell’anno in cui corse il G.P. forlivese, il 1965, era prevista la salita di Massa. Era forte sul passo, ma se non riusciva ad interpretare da subito una prova contro il tempo, poteva naufragare. Era un passista da cronocoppie o di squadra, in altre parole uno che aveva bisogno di respirare e riprendersi un po’, dietro la ruota di un compagno. Sul traguardo di Castrocaro naufragò, finendo sesto, a 11’24” da Anquetil. [/font]


[fon‌t=Times New Roman]***Note. [/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Di Simpson si parla nel libro “Ercole Baldini, il Treno di Forlì” scritto da Rino Negri e Maurizio Ricci – Edizioni Ciclofer. 
La parte interessata all’asterisco, raccolta nel libro direttamente dalla voce di Baldini e relativa al suo “amarcord”, è questa: [/font]
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[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Il corridore più simpatico? [/font]
[fon‌t=Times New Roman]"Tommy Simpson. Quando penso ai periodi passati assieme a lui, mi diverto ancora e rimpiango il ciclismo e la gioventù che ci accompagnava. Tommy era un ragazzo eccezionale. Quando morì sul Mount Ventoux fui davvero molto colpito. Quando poi, molti, troppi giornali, scrissero che la sua morte era stata causata dall'ingerimento di sostanze dopanti, al dolore si aggiunse la rabbia per quella che giudicai allora, come del resto la giudico oggi, una ingiustizia e una spiegazione superficiale. Sono sicuro che il motivo scatenante della crisi che poi l'ha portato alla morte, sia stato dovuto alla sua incredibile insofferenza al sole e al calore. Di questo suo problema ne aveva parlato con me e Wanda, in occasione di una tournée in Nuova Caledonia nel 1963. Anche laggiù l'incidenza del Sole, gli provocò una crisi molto forte che lo costrinse al ricovero ospedaliero per un paio di giorni. Eravamo tutti molto preoccupati (con Ercole e Wanda Baldini, anche Jacques Anquetil che era anch'egli in Nuova Caledonia n.d.m) per il suo stato e proprio lì ci raccontò che anche da bambino, a causa del Sole, aveva avuto crisi simili. Ci disse che pure in seguito ne aveva subito altre e che anche la sua Gran Bretagna, terra notoriamente non caldissima, gli aveva creato spesso problemi di tal tipo. Ricordo pure come fosse per questo solito correre nelle giornate di sole con foglie di cavolo sulla testa. Ci disse pure che lui cercava il più possibile di stare attento a questo disturbo, ma a volte non era sufficiente nemmeno l'attenzione. Per chi, come noi, lo avevan potuto vedere quando si sentì male in Nuova Caledonia, il tragico giorno del Mount Ventoux, si spiega senza andare a ricercare altre cause. Se poi aggiungiamo la fatica che comporta quella salita, sia per le pendenze che per le particolari condizioni ambientali, ci è facile capire il perché della morte di Tommy Simpson. Ripeto, questo indipendentemente dall'ingerimento di qualche eventuale sostanza. [/font][/font]
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[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]continua[/font][/font][/font][/font][/font]
 
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#2
[fon‌t=Times New Roman]Qualche altra testimonianza su Simpson, raccolta nei miei incontri…. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Arnaldo Pambianco: [/font][fon‌t=Times New Roman]“Tommy era un buon ragazzo, simpatico e disponibile. In corsa diventava tenace e ti faceva capire, sempre, di mettere sulla strada tutto quello che aveva dentro quel giorno. Probabilmente un limite, perché non si risparmiava, ed io ne so qualcosa, perché a lungo, nella mia carriera, sono stato come lui. Quel modo di correre rappresentava il suo senso dell’onore e dava la misura delle sue ambizioni. Dopo aver raccolto molte corse importanti e la maglia iridata, si mise in testa di diventare competitivo anche al Tour. Non ho mai creduto potesse avere le caratteristiche per riuscirci, prima ancora che per motivi tecnici, per quelle sue difficoltà col caldo. Glielo dissi in occasione del nostro ultimo incontro al Lombardia del ’65, che poi vinse in maglia arcobaleno. Gli dissi pure che per le stagioni in cui si correvano, erano più abbordabili la Vuelta e il Giro, ma avrebbe trovato, soprattutto in Italia, delle salite ancor più dure di quelle francesi, quindi era comunque per lui necessario un grosso miglioramento sulle pendenze lunghe. Mi rispose ridendo, dicendomi che ci avrebbe pensato dopo quel Tour, che era la corsa più famosa assieme al mondiale nella sua terra. Il giorno fatale del Ventoux, per certi aspetti, riassume nella tragedia questa sua abnegazione, ma se non fosse stato rimesso in sella, forse sarebbe ancora qua. La sua morte mi scosse tanto". [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Charly Gaul: [/font][fon‌t=Times New Roman]"Sono stato con lui alla Peugeot nel ’63, un anno sfortunato per me, per quella appendicite che poi mi tagliò la carriera. Ebbi poche occasioni di conoscerlo meglio, perché corsi pochissimo. Era ambizioso come si conviene ad uno che vuole arrivare. Chiacchierava moltissimo con quel francese mezzo inglese e mezzo fiammingo. Pareva il nostro dialetto lussemburghese e, contrariamente agli altri, lo capivo al volo. Mi era simpatico e poi, come me, non sopportava il caldo. Il suo problema però, mi parve subito come un qualcosa di più grave. Qualcuno rideva, vedendolo correre con quelle foglie sotto il berrettino, non certo io, perché ben conoscevo il disagio del caldo e del sole. Lo dicevo sempre con Ernzer (il suo inseparabile gregario e connazionale n.d.m.). Era bravo sul passo, discretamente veloce, teneva bene sulle salite corte, insomma uno adatto alle corse di un giorno, non per i grandi tour. Quando morì, diedero la colpa alle bombe, ma non ci ho mai creduto. Mi dissero che non stava bene anche nei giorni precedenti, ma era troppo orgoglioso per ritirarsi, visto che non era fuori classifica”. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Luciano Pezzi: [/font][fon‌t=Times New Roman]“Un gran corridore per le classiche. Aveva tutto per far bene: passo, la giusta agilità quando serviva, una discreta volata e tanta generosità. Se a quaranta o cinquanta chilometri dall’arrivo di una classica, era lì, significava che per vincere, uno doveva fare non facili conti con lui. Quando poi partiva, erano dolori. Vinse il mondiale al cospetto di uno come Altig, che era piuttosto veloce senza risparmiarsi durante la fuga. Ero con un altalenante Gimondi e la Nazionale a quel Tour fatale a Tommy. Quando arrivammo a Carpentras, dove arrivò un gruppetto di sette corridori e Felice fu battuto da Janssen, sapemmo che Simpson era stato trasportato in elicottero all’ospedale di Avignone in condizioni disperate, infatti, dopo poco, giunse la terribile notizia. Quella sera sul Tour piovvero davvero le lacrime. Ricordo il dolore che provai e non dimenticherò mai le facce sbigottite dei ragazzi della Nazionale e della squadra Primavera”. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Guido Neri: [/font][fon‌t=Times New Roman]“Per un gregario come me, al tempo del grande Simpson scudiero di Motta, la conoscenza di Tommy, era quella di uno che l’ammirava e lo guardava non solo per imparare, ma pure per informare i propri capitani. Uno come lui, non potevi non notarlo, perchè era generoso ed attivo in corsa come pochi. Aldilà delle corse di un giorno, dove era un osservato speciale, lo ricordo per la continuità che ti da una grande corsa a tappe, ai due Tour a cui ho partecipato: nel ’66 ed in quello tragico dell’anno dopo. Nella prima occasione, ebbi la possibilità di stare a lungo coi migliori, perché lottavo con Darrigade per la classifica dei traguardi volanti, che poi vinsi. Vidi sovente Tommy molto pimpante ed alla ricerca di una fuga buona per migliorare la classifica. Lo ricordo nel tappone di Briancon, dove, prima di staccarmi, lo notai vivacissimo e sempre con un occhio verso gli spagnoli Jimenez, che era lo scalatore principe, e Joachin Galera, un altro molto forte, anche se tanti l’han dimenticato. Quando arrivai, dopo una ventina di minuti, seppi che aveva attaccato nella discesa della Croix de Fer e che era riuscito nell’impresa di fare il Telegraphe con Jimenez, prima di cadere, probabilmente perché in crisi, nella discesa del Galibier. Quel giorno capii che Tommy voleva provare a vincere definitivamente quella maglia gialla che aveva indossato occasionalmente qualche anno prima. Il giorno dopo di Briancon, arrivavamo a Torino, ma lui, a causa di quella caduta, si ritirò. Nel Tour della tragedia, io abbandonai due giorni prima della tappa del Ventoux perché stavo male, ma per tutte le giornate dove fui in gara, undici mi pare, non vidi mai Tommy pimpante come nell’anno precedente. Mi pareva decisamente più spento e chi dice che non stava bene da giorni, forse aveva ragione. L’unica continuità, quelle foglie sotto il berrettino nelle tappe più calde”. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Eddy Merckx: [/font][fon‌t=Times New Roman]"Ho corso con Simpson alla Peugeot BP, nel ’66 e nell’anno della sua morte, il ’67. Quando arrivai, lui portava la maglia iridata ed era un riferimento anche per un belga come me. Ma io potevo correre libero, perché la sua presenza non mi ha mai infastidito: Tommy era gentile, un vero signore. Io cercavo le vittorie nelle classiche, mentre lui voleva il Tour. Gli è stato fatale purtroppo e fu un dramma per tutti noi. Pensai fortemente a lui, quando nel ’70 vinsi sul Ventoux. Dopo l’arrivo pagai la fatica, ed ebbi un mezzo malore, fortunatamente la tappa era finita e fui assistito come si deve. A Simpson, invece, capitò di essere rimesso in sella e lì, per me, si concepì la tragedia. Il Ventoux, nelle ore di massimo caldo, può essere asfissiante". [/font]


[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Tommy Simpson tecnicamente [/font]
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[fon‌t=Times New Roman]Oggi, uno come lui verrebbe definito un passista scalatore. In realtà, liberandoci dalle fauci e dai modus del presente, Tommy era un corridore completo, con un tallone d’Achille sulle lunghe salite, dove, non sempre, sapeva trovare il passo ideale, in grado di difendere al meglio le sue possibilità. Di statura media, biomeccanicamente proporzionato e bello sulla bici, non amava alzarsi sui pedali e usava questa variabile al minimo indispensabile. Non era dotato di una grande flessibilità della schiena: per questo motivo, sia in salita che a cronometro, tendeva ad appoggiare le mani sulla parte alta del manubrio, precisamente sull’attacco dei freni. Era però un grande “giocoliere” dei rapporti, che sapeva usare, sempre, nel modo più idoneo (grandi salite a parte) alle circostanze di gara. La sua bella pedalata dava l’idea di un passo agile, ma in realtà quel 52 x14 che era il massimo della sua epoca, insisteva più spesso del pensato, nel suo mulinare i pedali.[/font]
[fon‌t=Times New Roman]Era un patito dell’allenamento. La sua stagione non aveva mai fine, perché alle prove su strada ha sempre aggiunto l’attività su pista, specie d’inverno, nonché quel ciclocross che era un riempitivo delle sue giornate nella stagione fredda. Quando andava in ferie, spesso trovava il modo di cimentarsi anche lì. Non a caso, era uno dei sempre presenti alle gare promozionali in Nuova Caledonia. Ha sempre dichiarato che se si voleva vincere su strada, avere il fondo necessario per trionfare in una classica, o mantenersi a grandi livelli al Tour, era necessario conoscere le altre variabili del ciclismo, ed averle nelle gambe. Notevoli le sue presenze alle prove dietro derny, su strada (allora abbastanza frequenti) e su pista: non a caso seppe vincere, nel ’63, Bordeaux-Parigi, una classica di cui tanto oggi si sente la mancanza. [/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Diversi osservatori, hanno forse sottostimato le doti velocistiche di Simpson. Importanti traguardi come il Fiandre (su Defilippis), la Sanremo (su Poulidor) e il Mondiale (su Rudi Altig) sono finiti nel suo palmares grazia allo sprint, in volate a due. E’ vero che Poupou era fermo allo sprint (infatti si beccò 2”), ma Nino Defilippis e Altig, erano piuttosto veloci, l’italiano in particolare. Su uno sprint a due, giocano molto i fattori di freschezza e non può considerarsi una volata classica, ma altre volte, certo in corse minori, Tommy ha dimostrato di saperci fare. La scelta di tempo e la progressione del “baronetto” erano di nota, perlomeno per un ciclismo che ancora non conosceva i treni e che lasciava spazi all’inventiva anche negli sprint.[/font][/font]


[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]Giro di Lombardia ’65: la vittoria che giudico più significativa nella carriera di Simpson. [/font][/font][/font]
[fon‌t=Times New Roman]La “classica delle foglie morte” dal fascino sofisticato, rappresenta per me, la corsa che più di ogni altra, ci ha donato uno spaccato del potenziale notevole, da autentico campione, di Simpson. Nel 1965, la prova, che il vulcanico Torriani ci presentò ancora rinnovata, con l’ambizione di proporre un itinerario classico nella densità di asperità e nei suoi aspri 270 chilometri, il cast era degno di ogni riconoscimento. Soprattutto proponeva, in un giorno solo, la sfida fra chi era uscito illuminato da Giro e Tour, ma non aveva colto soddisfazione al mondiale e chi sapeva di poter avere le stimmate da maglia prestigiosa, senza essere riuscito, lungo l’anno, a coglierne le tinte. Una corsa dal grande cast dunque, con Tommy che la poteva correre con l’arcobaleno conquistato a Lasarte, in Spagna. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]La partenza alle 8.45, ci dona oggi un segno di quei tempi diversi e di quelle medie che andavano conquistate con l’ardimentoso idioma dell’essere e non dalla spinta figlia di una trasformazione creata dagli indotti di chi deve curare e non modificare. Gli stessi protagonisti delle fughe iniziali, autentici grandi nomi, ci trasmettono nel ricordo di quel 16 ottobre di 42 anni fa, il segno di impostazioni e di tattiche di gara, lontanissime dalle monocordi dell’odierno. Per questo, è doveroso raccontarle con quelle piccole inserzioni accanto agli “agnomen”, che daranno certamente pesantezza alla lettura, ma hanno il pregio di donare ai lettori più giovani, qualche conoscenza in più. La cronaca di quel Lombardia ci offrì un insieme di scaramucce fino ad Erba, ma nessuna in grado di graffiare in qualche modo i taccuini di corsa. Poco dopo il piccolo e grazioso centro del comasco, ad un quarto di gara compiuto, allungano due big, il belga Emile Daems (gran corridore belga, il più minuto vincitore di una Roubaix nonché già trionfatore, cinque anni prima, della “classica delle foglie morte”) e Italo Zilioli (l’uomo dalla faccia triste, alla ricerca di una rivincita dopo il consecutivo secondo posto al Giro d’Italia). La prestigiosa coppia, conquista in poco tempo un minuto di vantaggio, ma verso le pendenze di Sormano (non il muro, ma il paese), i pensieri di Emile, fra l’ostracismo di Van Looy ed il bisogno di trovare una nuova dimensione extra Belgio, spingono “il piemontese che non dormiva prima delle gare importanti”, verso un indecifrabile scatto. Daems, non risponde e si rialza, mentre Zilioli prosegue nella sua volontà di allungare, ed a Sormano, transita con un minuto e mezzo sul belga e poco più di due minuti sul gruppo. L’angelo triste che Teofilo Sanson aveva scelto come sua pedina per vincere il Giro, affronta il Ghisallo col piglio di uno che cerca l’impresa, ma dietro ci sono segni di attenzione, ed una flebile quanto presente voglia di rimescolare le carte. In cima, Zilioli transita con 1’15” su un Daems meno pensieroso, sul francese Joseph Carrara, guardiano delle ambizioni del capitano Henry Anglade, sul lungo bergamasco Vittorio Casati, alla ricerca della gara della vita e su un biondino dell’Adda, già famoso e vincitore uscente del Lombardia, Gianni Motta. Il gruppo è poco distante dai quattro inseguitori e pare pronto a partorire qualcosa di importante. La discesa del Ghisallo porta consiglio, ed il piemontese dalla classe cristallina col portamento da gran signore si rialza, facendosi raggiungere da undici corridori, fra i quali manca Daems, fermatosi, forse per scaramanzia, a far pipì, proprio come cinque anni prima, quando poi vinse. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]A Vassena il drappello al comando, con poco più di un minuto di vantaggio sul gruppo, è composto da: Italo Zilioli, il campione del mondo Tom Simpson (che appare in gran forma), Henry Anglade (un ingegnere mancato, alla ricerca di un successo di prestigio da aggiungere alla fresca maglia tricolore conquistata, in grado di slegarlo un poco dal ruolo di grande incompiuto d’oltralpe), Imerio Massignan (“gamba secca”, non è più lo scalatore di un tempo, ma il Lombardia è una corsa che sente particolarmente), Gianni Motta (pimpante e convinto di poter bissare il successo dell’anno prima), Luciano Galbo (convinto nei suoi mezzi, dalla vittoria di tappa e dalla maglia rosa indossata al Giro), Vittorio Casati (che comincia a pensare possibile, la gara della vita), Roberto Poggiali (il grande e dimenticato toscano che corre col sogno di aggiungere alla Freccia Vallone vinta a primavera, anche questa corsa imperiale e fascinosa), Enzo Moser (il meno famoso e molto più giovane dei due Moser in attività, che vuole l’acuto capace di rendere evitabile l’abbandono a soli 25 anni), Marino Fontana (il vicentino ormai ricercatore antico di un pegno da aggiungere al Toscana ’61 e alla sfumata maglia tricolore ’63, in quella che resterà perennemente come il primo segno di non brillantezza della dirigenza ciclistica), Andrè Foucher (il “vecchio” anche da giovane, forse solo perché fin troppo fedele al coetaneo Anglade), Gérard Thielin (da Riviere ad Anquetil ed Aimar, con un unico scopo: aiutarli). Un gruppetto assortito, dunque, con molti nomi di pregio, che gridano quanto l’azione sia importante. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Sul Colle Balisio l’andatura del drappello è notevole e per Casati, Fontana e Thielin, le lampadine si spengono presto, anche Anglade e Galbo perdono terreno, ma in maniera molto più limitata. Dal gruppo, intanto, escono come due cacciatori di taglie “cuore matto” Franco Bitossi e lo svizzero dalle sopracciglia folte color stoppa Robert Hagmann. Ben presto questo duo riprende Galbo e Anglade, ed i quattro nella discesa si riportano sui fuggitivi. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]A Bellano, sul Lago di Como, praticamente a metà gara, sono così in undici al comando, con un paio di minuti sul gruppo. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]I fuggitivi, con un’andatura di buona lena, mantengono inalterato il vantaggio sul grosso, fino all’inizio dell’asperità che si pronostica come teatro di grossa battaglia: il temuto Passo d'Intelvi. Qui, il biondino di Cassano d’Adda, Gianni Motta, rompe gli indugi e si scatena. Il suo passo, alternato a scatti che paiono lame, sgretola il gruppetto, ma con lui resta, senza nessun timore di sorta e con partecipazione attiva all’azione, l’iridato Tommy Simpson. Le pedalate dei due fanno veramente male, ed in cima all’Intelvi, a 58 chilometri dall’arrivo, la coppia passa con un vantaggio di 25” su un ottimo Poggiali, ben 1’50” su “gamba secca” Massignan, due minuti sul resto del drappello e tre sul gruppo. Nella discesa su Argegno gli inseguitori si compattano, ed anche Poggiali, vista l’impossibilità di riportarsi da solo sul duo, desiste. Alle spalle di Motta e Simpson, quando la strada ricomincia a salire in direzione di Schignano (detto anche secondo Intelvi) si forma con un ritardo di poco superiore ai tre minuti un folto gruppo. Le prime rampe della nuova asperità spingono all’acuto Raymond Poulidor, che vuole prendersi una rivincita, proprio nella sua regione, su quel giovane che lo aveva battuto al Tour de France. “Poupou”, è autore di un forcing di pregio, che lo vede transitare a Castiglione, in solitudine, nella terza posizione di gara, con un ritardo di 1'28". Poggiali, sempre brillante in salita, è a 1'55", mentre a 2'30", troviamo un primo gruppetto composto da quattro uomini: “cuore matto” Bitossi, “monsieur chrono” Jacques Anquetil, il “bresciano dal sorriso perenne e dalla classe viva” Michele Dancelli e un giovane olandese, figlio di notaio e già olimpionico, Gerben Karstens. Lungo la discesa verso Argegno, l’iridato Simpson e Motta, mantengono 1'35" su Poulidor e 2'50" su un gruppo di 16 corridori. “Poupou”, che è forte sul passo e non solo in salita, da tutto se stesso per agganciare il duo e, ai piedi del San Fermo, uno strappo con importanti pendenze ed ultima asperità di una gara durissima, transita con soli 45” di distacco. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Le dure rampe dell’ultimo colle, mettono le ali al campione del mondo, che lascia sul posto un esausto Gianni Motta e s’invola verso Como. Anche Poulidor paga lo sforzo. Lungo la discesa del San Fermo, Motta viene raggiunto prima dal francese e, poco dopo, da Franco Bitossi, dall’ex iridato transalpino di origine polacca Jean Stablinski e dal sempre più pimpante tulipano Karstens. L’azione di Tommy Simpson è impressionante, perlomeno pari all’inchino degli sconfitti e, nello Stadio Senigallia di Como, il campione del mondo vince a braccia alzate, segnando una significativa media di 39,213 kmh. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Dopo 3’11” Gerben Karstens si prende un meritato ruolo d’onore, superando nell’ordine Stablinski, Bitossi, Motta e Poulidor. [/font]
[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]La “Classica delle foglie morte” si è così concessa, convinta, al più forte, non a caso in maglia arcobaleno.[/font][/font][/font]

[fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman][fon‌t=Times New Roman]continua[/font][/font][/font]


[fon‌t=Times New Roman]Le due giornate più importanti di Simpson vissute nei fotogrammi di un bambino.[/font][fon‌t=Times New Roman] [/font]

[fon‌t=Times New Roman]5 settembre 1965…. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]L’appuntamento del Campionato Mondiale di ciclismo era già per me un rito. Oddio, quello del 1965 che si teneva il 5 settembre a Lasarte, vicino a San Sebastian, nei Paesi Baschi, era il secondo che potevo vedere dalla TV di casa, ma l’esperienza del ’64 e quelle trafugate fra radio e giornali negli anni precedenti, mi facevano sentire un esperto. E poi, la visione reale della televisione, era preceduta da un rito tutto particolare ed intenso, che mi immaginavo diffuso fra i bambini del tempo. Per giorni preparavo i coperchini (i quarcì nel dialetto che sentivo attorno a me, ma che ancora non parlavo), con le maglie a tinte spesso unite delle squadre nazionali e, per altrettanto tempo, ferveva la ricerca degli iscritti, allora sempre presenti nei giornali (oggi è una rarità uguale ad un tapiro nel centro di Milano), ma con la complicazione dettata da corridori di paesi da considerarsi confine, che presentavano propri alfieri, solo in quella occasione. Erano dunque sconosciuti a me, per caratteristiche e valori, che pure grazie a quel gioco e alla passione che mi invadeva conoscevo nel ’65 qualcosa come oltre 400 corridori, lasciandomi una strana voglia di essere più grande e capirne di più. Alla preparazione dei coperchini, si aggiungeva quella decisamente più difficile del percorso di gara che, poi, dovevo modellare sul cortile di casa, cercando di copiare al massimo ciò che potevo vedere dall’altimetria presente nei giornali, nonché tutto quello che mi poteva servire per proporre, dopo la corsa vista in Tv, la mia, nell’oceano ciclistico immaginario, istruttivo e divertente, dei quarcì. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Di quel ’65, ricordo le difficoltà a costruire sul minuscolo dischetto di carta la maglia della nazionale australiana e la delusione di dover depennare, tre giorni prima, i già pronti coperchini di Adorni e Gimondi, caduti ed infortunati in una corsa precedente il mondiale. Ricordo pure l’attesa di Romano, un mio vicino, di cinque anni maggiore di me e gran tifoso di Anquetil, sicuro che il suo campione avrebbe finalmente vestito la maglia iridata e ricordo pure le frasi di mio fratello Lorenzo, l’esperto di casa ed ex corridore: “I giornali scrivono di un mondiale duro, quindi i belgi sono tagliati fuori, gli spagnoli hanno bisogno di grandi montagne, quindi sarà un affare fra i francesi, Anquetil e Poulidor su tutti, e gli italiani Motta, Dancelli e Zilioli”. Fu un profeta stordito, perché dei suoi favoriti si vide ben poco, anzi delusero decisamente, in particolare i transalpini che si ritirarono entrambi assieme al loro terzo uomo tanto aspettato Anglade. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Arrivai così a gustarmi la corsa alla Tv, senza dimenticare quella che già allora era una mia caratteristica, guardare come pedalavano i singoli, raccogliere le notizie sulle loro caratteristiche che la telecronaca di De Zan e Martellini non facevano mancare, dandomi al sogno di vedere qualcuno che mi facesse emozionare un po’ di più del già tanto, visto che nessuno dei miei idoli (Adorni e Pambianco) era in gara. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]La corsa, nei fatti veri di gara fu abbastanza deludente, anche se i miei occhi di allora non potevano comprenderla fino in fondo. Sotto una pioggia ben poco spagnola, che contrastava col sole di Romagna di quel giorno, la corsa iridata riservò, nelle battute iniziali, il breve attacco di un trio composto da Zilioli, Elliot e Simpson, ma già agli inizi del terzo giro, recitò il suo fatto cardine. Su un circuito sicuramente abbastanza difficile, grazie alla spinta furiosa degli spagnoli (che fino ad allora, ai mondiali, avevano messo in evidenza, come da analisi dei miei vecchi di casa, il solo Miguel Poblet), si formò al comando un drappello di una dozzina di uomini, ben assortiti, taluni dei quali pure di grande prestigio. L’inseguimento del gruppo, mai convinto, più che la veemenza dei fuggitivi, circoscrisse ben presto i giochi per l’iride a quei dodici. A distanza di decenni, si capisce il perché del successo di quella fuga che presentava: gli spagnoli Francisco Gabica e Vicente Gomez del Moral (rispettivamente, la speranza di casa perché pimpante basco, ed il corridore forse più forte dell’intera Spagna nelle gare di un giorno, assieme a Perez Frances), gli olandesi Peter Post ed Arie Den Hartog (ovvero due vincitori di grandi classiche, in quel momento, da considerarsi come i corridori più garantiti d’orange), i tedeschi Rudi Altig e Kark Heinz Kunde (il primo era nettamente il più forte tedesco alla partenza, mentre il secondo, piccino di taglia e dal cuore grande, era stato bravissimo al Tour), gli italiani Franco Balmamion e Bruno Mealli (non erano il massimo, ma uno aveva due Giri vinti alle spalle e l’altro, era molto veloce), lo svizzero René Binggeli (uno degli elvetici più forti, abbastanza per bloccare rendere inattiva all’inseguimento la squadra rossocrociata), il francese Jean Stablinski (ex iridato, in fuga per Anquetil, soprattutto, ma poi capitano francese, vista la giornataccia di Jacques e dello stesso Poulidor come al solito in lite), il britannico Tommy Simpson (già baronetto e già enormemente numero uno del ciclismo di lingua inglese) e il belga Roger Swerts (il punto meno forte per fermare una nazionale, un giovane di belle speranze, divenuto però riferimento di giornata, di una squadra fiamminga che pagava la cattiva condizione del sire Van Looy). Era dunque ovvio, quanto una simile azione fosse il crogiolo della corsa. I chilometri e l’andatura del drappello su cui non mancarono i tentativi di spezzarlo, specie sull’erta di Anciola e la pioggia costante, crearono davanti una selezione naturale. La fuga di Altig e Simpson (due che avevo visto dal vivo in quel di Forlì), fu la traduzione finale di una eliminazione naturale, più che l’imperiosità di un acuto: i due erano nettamente i più forti del lotto rimasto in gara, quasi da subito. Durante la loro azione, scoprii il passo più potente, ma monocorde con punte di spalla di Rudi e quello più vario, più “salvagamba” di Tommy: due giganti s’intende, due prototipi del gran corridore (non oso pensare cosa avrebbero potuto fare due di quel genere nel ciclismo odierno). La telecronaca, intanto, continuava ad evidenziare le maggiori doti velocistiche di Altig, ma il piccolo ancor bambino sottoscritto, che conosceva il tedesco anche per le continue frasi di famiglia…”è quello che ha trainato Anquetil al Baracchi”, e che lo stimava, tanto da averlo messo fra i “suoi simpatici”, si sentì fortemente vicino al meno giudicato, a quello che in quel pomeriggio per me assolato, avevo immediatamente inserito fra i “più” del proprio vocabolario ciclistico. Sì, Tommy Simpson mi piaceva, era troppo bella la sua azione. “Vince Altig” – diceva Lorenzo, ma io rispondevo, con un certo rispetto verso il grande di famiglia: “Per me oggi ti sbagli, perché Simpson è più fresco”. Quando i due giunsero sul rettilineo finale, che mi pareva in leggerissima salita, lo sprint per l’iride non ebbe storia: Tommy era veramente più in palla di Rudi e vinse meritatamente. “Pestifero, sei impossibile” – mi urlò il fratellone di quattordici anni più grande di me! [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Aspettai l’arrivo degli altri e delle delusioni italiane e poi, come l’anno precedente, andai in cortile e sul fiammante circuito che avevo preparato, come un regista, riproposi la gara coi quarcì. Avevo conosciuto meglio un campione già finito nei bagliori dei miei teneri ricordi con la vittoria nella Sanremo del ’64, ma che mi parve ancor più radioso, ed accompagnai la mia radiocronaca nella gara coi coperchini, come fossi De Zan o Martellini, ma con le mie sensazioni. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Fu una gran bella giornata, quel 5 settembre ’65. [/font]

[fon‌t=Times New Roman]L’ordine d’arrivo del Mondiale di Lasarte: [/font]
[fon‌t=Times New Roman]1. Tom Simpson (GBR) 267 km in 6h39:19 alla media di 40,178 kmh [/font]
[fon‌t=Times New Roman]2. Rudi Altig (GER). [/font]
[fon‌t=Times New Roman]3. Roger Swerts (BEL) a 3’40” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]4. Peter Post (NED) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]5. Karl-Heinz Kunde (GER) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]6. René Binggeli (SUI) a 3’50” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]7. Arie den Hartog (NED) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]8. Franco Balmamion (ITA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]9. Francisco Gabica (ESP) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]10. Jean Stablinski (FRA) a 4’58” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]11. Antonio Gomez del Moral (ESP) a 6’06” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]12. Bruno Mealli (ITA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]13. Sebastian Elorza (ESP) a 7’44” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]14. Edward Sels (BEL) a 9’06” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]15. Valentin Uriona (ESP) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]16. Italo Zilioli (ITA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]17. Fernando Manzaneque (ESP) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]18. Bernard Van de Kerckhove (BEL) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]19. Barry Hoban (GBR) a 9’55” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]20. Walter Godefroot (BEL) a 12’56” [/font]
[fon‌t=Times New Roman]21. Hennes Junkermann (GER) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]22. Joseph Groussard (FRA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]23. Willi Altig (GER) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]24. Winfried Boelke (GER) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]25. Joseph Huysmans (BEL) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]26. Franco Cribiori (ITA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]27. Michele Dancelli (ITA) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]28. Rolf Maurer (SUI) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]29. Eddy Merckx (BEL) [/font]
[fon‌t=Times New Roman]30. Joao Roque dos Santos (POR) [/font]


[fon‌t=Times New Roman]13 luglio 1967, la tragedia.... [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Com’è strana la vita….Uno come me, che del ciclismo di quei tempi staccava ogni petalo possibile, il giorno di una tragedia così ben ricordata da tutti, era a letto, con le vertigini che mi impedirono di alzarmi prima del tardo pomeriggio. “Disturbi di crescita” - diceva mio zio medico. Per tanti anni però, ed ancora oggi per certi aspetti, devo dire grazie a quei continui capogiri, perché l’aver visto solo il piccolo tassello finale di quella maledetta tappa in TV, mi risparmiò sicuramente un dolore ancor più intenso. Ad onor del vero, non ricordo nemmeno se ciò che vidi, fosse un telegiornale in onda sulla coda della tappa, o il finale stesso di quella frazione. Ero intontito e frastornato, seppi di ciò che stava accadendo dalla radiolina di mia cugina, lasciata a casa mia per dimenticanza. Ricordo pure che la stazione giusta, fu trovata dalla mia preoccupatissima madre, perché io non riuscivo ad aprire gli occhi senza provare fastidi. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Avevo da pochi giorni compiuto dodici anni, ed il mio tifo, nel ciclismo, si divideva fra il collaudato Vittorio Adorni ed il rampante, ma per me superammirabile e fenomenale, Eddy Merckx (era già nelle mie attenzioni da Sallanches ’64, ma a farmi scattare la molla fu la Sanremo del ’66). Già allora, fortunatamente, della nazionalità degli sportivi non me ne fregava nulla, simpatizzavo e mi sentivo vicino a chi mi trasmetteva qualcosa e, come oggi, già provavo fastidio di fronte a chi mi sbeffeggiava nazionalismo e, di conseguenza, per questa mia anomalia, mi faceva sentire eretico. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]In quel Tour nessuno dei miei due idoli era presente, quindi saliva di quotazione, nei miei interessi, quel ristretto gruppo di simpatici, fra i quali un posto importante, se non peculiare, era proprio per Tommy. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Vivevo dunque quel Giro di Francia, con la speranza che uno di questi arrivasse in giallo a Parigi. Torturato da quei gimondiani che, nel ciclismo assieme a quei moseriani e saronniani che poi incontrerò, rappresentavano il tifo calcistico oltre ogni limite di decenza sulle letture delle consistenza, speravo negli acuti spettacolari del sacrestano di Avila, Julio Jimenez, ma sapevo che era utopia, per cronometro e discese (mi sbagliai perché senza il pavé, quel Tour, lo avrebbe vinto); speravo in Raymond Poulidor, per i diritti accumulati dal suo ruolo di perdente di gran lusso, ma sul Ballon d’Alsace, mi resi conto che non era quello degli anni precedenti; speravo così in Tommy Simpson, l’ultimo del mio gruppetto di simpatie, in grado di poter fare classifica, gli altri, infatti, erano corridori da corse di un giorno, impossibili per un Tour. Sapevo che se rimaneva in una buona posizione nella “generale” sulle Alpi, avrebbe potuto far qualcosa sui Pirenei e puntare al podio di Parigi. E poi, con quei gimondiani attorno, ignari del poco edificante contorno nella tappa di Tirano al Giro, era troppo bello potergli ribadire: “Se non arriva almeno sul podio di questo Giro di Francia, scordatevi di tifare per un nuovo Coppi”. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Il mio cavallo, dunque, era proprio Tommy, anche se dopo l’occasione sfumata non seguendo Pingeon e gli altri quattordici, sul pavé della Roubaix-Jambes (dove il francese costruì, di fatto, col successo in quella tappa, anche la vittoria al Tour), si era allontanato tantissimo dalla possibilità di giungere ai vertici di classifica. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]La tappa di Carpentras, col Mont Ventoux, era l’ideale per ricevere le risposte più credibili sulle sue possibilità. Il malore fatale lo colpì proprio quando era davanti al gruppo della maglia gialla e dei migliori: era ovvio che cercava di rimediare alla classifica. Con l’aiuto delle amfetamine? Anche il ragazzino sottoscritto sapeva che le usavano i corridori e non solo. Ricordo persino le prove sui gatti, i cani, sull’enorme pesce rosso della fontana di Sarsina ecc….di quella bomba che si diceva fosse di Coppi, nonché principale causa dei viaggi novembrini in Svizzera, per “cambiarsi il sangue”, di Jacques Anquetil. Ero ragazzino, ma convivevo con queste storie. Solo qualche anno dopo, da calciatore, conobbi quello che era già definito doping….e fui spinto a prendere l’allenatore a cazzotti…. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Quando mi alzai dal letto, con vertigini controllabili, in quel tardo pomeriggio del maledetto 13 luglio 1967 e vidi che la TV confermava quello che avevo sentito alla radio e che non volevo credere, iniziai a sudare freddo, provando una sensazione di enorme tristezza: un dolore strano e diverso, che lanciava la commozione di un dodicenne. Poi, il giorno dopo, con le tante foto sui giornali che mio fratello aveva comprato, dalla respirazione artificiale tentata, alla narrazione di quei momenti terribili, dalle inopinate spinte dei tifosi, al pianto dei compagni e non solo, divenni consapevole di una tragedia che, paradossalmente, mi avvicinò ancor più al ciclismo. Capii che lo sport della bicicletta, era uno spaccato della vita come nessuno, perché è parte della vita anche quel lieve parametro che la divide dall’irreparabile della morte, che c’è sempre, anche quando il nero del dopo, non è avvicinato dall’essere su una moto, o su un’auto, a gran velocità. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Tommy Simpson era, anche nella morte, un nuovo idioma di quella passione che cresceva con me, ed in me. [/font]
[fon‌t=Times New Roman]Lo capii il 14 luglio ‘67, piangendolo, all’ascolto non cercato di “A wither shade of pale”, una canzone che il giradischi a pieno volume della mia vicina di casa, mi faceva sentire come fossi ad un metro. Nel suono dell’organo “Hammond” di quel brano storico dei Procol Harum, ci stava una spinta a capire e farsi trasportare e riflettere, nel bene e nel male, come sulle onde non sempre volute della vita. Sì, proprio come nella traduzione italiana: “senza luce”. [/font]


[fon‌t=Times New Roman]TOMMY [/font]

[fon‌t=Times New Roman]Io vivo un punto 
che vedo faro 
cancello una zebra 
perché amo i colori 
prendo una pesca 
per intingermi contento 
dell’onnipresenza dell’acqua. 

Sfoglio un libro 
per conoscere un amico nuovo 
accetto e dono baci 
come contatto con l’essere 
che vive dentro di me 
fantasioso, soave e sorridente, 
mai perduto. 

Allontano le ombre 
covando l’illusione di riuscirvi 
e se simpatico sono 
è perché metto assieme 
vie, porte e finestre incontrate 
come un anziano clown 
che ha perso il copione. 

Caro Sole 
ci hai dato la vita 
ricordandoci i confini 
ci hai dato la luce 
per farci conoscere la notte 
di fiori ci cospargi 
ma vuoi giusta devozione. 
Ecco perché 
non dovremmo dimenticarlo. 
[/font]


Maurizio Ricci detto Morris
 
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