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Storia e gloria del grande ciclismo prima della seconda guerra mondiale
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Gran Fondo - La Seicento chilometri
 
L’avvento della bicicletta, a lungo definita pure “bicicletto”, non avvenne in maniera lineare e tranquilla nella cultura e nel costume degli italiani. Le rivoluzionarie possibilità che, al contrario del velocipede, il nuovo mezzo dava a tutti, donne comprese, portò scompiglio ad abitudini consolidate, ed il vento della “belle epoque”, in Italia, si trovò a fare i conti con un’antropologia ben diversa da quella francese. La bicicletta donava libertà, sostituiva il cavallo, era raggiungibile da tanti, ed era lontanissima dai macchinosi echi circensi del velocipede. La sua diffusione portò numeri inimmaginabili, sia nelle città che nelle campagne adiacenti, creando bisogni e reazioni. L’esigenza di consigliare i “biciclisti” sull’uso corretto del mezzo e di lanciarlo commercialmente, si scontrò con la diffidenza e l’ostracismo dei contadini e della stessa chiesa, che tardò assai a capire quanto il nuovo strumento, fosse un fattore di nuova qualità della vita della gente. Nelle campagne, i cani divennero le armi per scacciare e spesso aggredire “l’intruso” pedalatore, mentre l’organizzazione ecclesiastica, divisa fra i tanti parroci aperti e inneggianti, ed i vescovi marcatamente avversi, si pose a freno della diffusione del nuovo strumento. In questo coacervo, i giornali e, soprattutto le riviste di settore, assunsero un  ruolo educativo e di trasmissione notevole. A Milano, il 22 aprile 1894, uscì il primo numero de “La Bicicletta”, una rivista bisettimanale che ebbe un peso importantissimo nel lancio del nuovo strumento a pedali, in tutti i sensi: sia nella cultura, che nello sport. Non si trattava della prima pubblicazione  specifica. A Torino, infatti, dal 1883, usciva la bisettimanale “Rivista Velocipedistica”, ma nessun giornale fu pari a quello milanese, nella capacità di incidere con completezza, per un decisivo decennio, “sull’assorbimento” sociale ed economico del nuovo mezzo. “La Bicicletta”, i cui primi numeri si stampavano su fogli di color rosa (tinta poi ripresa dalla Gazzetta dello Sport), attraverso redattori illuminati ed orizzontali nelle visioni e negli apogei, fra i quali anche l’eminente figura di Vittorio Luigi Bertarelli, che si firmava con lo pseudonimo di “Biagio Adagio”, sviluppò campagne tese a consigliare ed educare i cittadini nell’uso dello strumento, a seguirne quelle evoluzioni che, con rapidità, stavano emergendo e a lanciarne la pubblicità, spesso gratuita, come un valore tanto etico, quanto deontologico. Fu quel giornale, con un ammirevole e poco diffuso spirito laicistico, a mettere a nudo le contraddizioni e le non certo edificanti esternazioni della chiesa, sia su valori e potenzialità della bicicletta, quanto sulle ennesime discriminazioni nei confronti delle donne.
Fu “La Bicicletta” ad assumersi la “sfacciataggine”, lecita e razionale, di pubblicizzare, a tutela degli ormai definiti ciclisti, la pistola “scacciacani” che tanta parte ha avuto nella cultura del periodo e non solo. Fu la prima ad annunciare la nascita, a novembre 1894, del Touring Club Ciclistico Italiano, associazione benemerita che, nel 1900, mutò il nome in Touring Club Italiano. Con la citata associazione, i cui meriti e valori sono conosciuti in ogni appassionato di ciclismo, la rivista si raccordò sempre. E “La Bicicletta”, fu il primo giornale, dopo l’esperienza di patrocinante svolta dal “Corriere della Sera” per la Milano Torino nel 1893, a pensare ed ideare, al fine di sostenere il nuovo mezzo, di investire sullo sport ad esso legato. L’idea della rivista si dimostrò ancora una volta originale. Non si trattava di organizzare una semplice corsa, ma di tradurre una realtà che faceva capolino e che nel mondo stava prendendo piede: il biciclo aveva scalzato il velocipede, anche e soprattutto perché alla maneggevolezza, aggiungeva la gradevolezza e la facilità atte a percorrere notevoli distanze. Quindi, era necessario predisporre una manifestazione che ne esaltasse le novità da trasportare a tutti. Il passo verso una Gran Fondo, fu dunque breve e, sul collaudato itinerario che da Milano portava a Torno, ed il ritorno nel capoluogo lombardo, “La Bicicletta”, il 20 maggio 1994, propose questa prova, lunga 540 chilometri. L’adesione fu massiccia, in considerazione dello “spavento” che poteva portare anche fra i ciclisti professionisti. Il giornale mise a disposizione un montepremi di 1500 lire, all’incirca 45000 euro odierni, in termini di valori commerciali. Un’ottima somma, dunque, che divenne un fatto coinvolgente il pubblico dei lettori, attraverso la pubblicazione del totalizzatore dei premi, che i 20 ciclisti che riuscirono ad arrivare al traguardo, avevano raggiunto. Vinse Eugenio Sauli, alla media di 20,431 kmh, un’andatura che era data per impossibile, vista la distanza.
“La Bicicletta”, coadiuvata dall’Unione Sportiva Milanese, ripropose la Gran Fondo otto anni dopo, nel 1902, sul medesimo percorso della precedente, che segnò la vittoria di un corridore che non veniva pronosticato per corse così lunghe: Enrico Brusoni. La rivista, unitamente al suo partner organizzativo, visto il crescente successo della manifestazione, la ripresentò modificata nel 1903, su un nuovo e più impegnativo percorso che raggiungeva la fatidica lunghezza di 600 chilometri. L’itinerario prevedeva la partenza da Milano indi Bologna, Ferrara, Padova e ritorno a Milano. Vinse Giovanni Rossignoli, autore di una vera impresa, conclusasi con un arrivo solitario tale, da non avere praticamente pari nella storia del ciclismo italiano, ovvero con un anticipo sul secondo di ben 4 ore e 45 minuti. L’anno seguente, con la quarta edizione della Gran Fondo, vinta nuovamente da Enrico Brusoni e stabilitasi su una lunghezza di 600 chilometri, di lì appunto la denominazione aggiuntiva della manifestazione, l’esperienza organizzativa e di promozione de “La Bicicletta” si chiuse. Gli scopi erano stati raggiunti e la rivista lasciò interamente la sua creatura all’Unione Sportiva Milanese che, col patrocinio de “La Gazzetta dello Sport”, organizzò la Corsa Nazionale su un tracciato diverso, ed assai più corto: 340 km. Con questa denominazione si giungerà al 1908 compreso. La Gran Fondo-La Seicento, ritornò nel 1912, organizzata sempre dall’Unione Sportiva Milanese, sull’ormai fatidica distanza, che si distribuiva da Milano a Modena, indi Bologna, Ferrara, Verona e ritorno a Milano. Vinse un gran nome: Luigi Ganna. L’anno successivo, sempre sui medesimi contenuti a trionfare fu un giovane destinato a divenire fulcro della storia ciclistica italiana: Costante Girardengo.
All’indomani del conflitto mondiale, il 19 agosto 1919, stavolta con base a Torino, ed organizzazione della Associazione Sportiva Torinese, fu proposta nuovamente la Gran Fondo-La Seicento, su un percorso completamente nuovo: Torino-Milano-Trento-Trieste. Sui 662 km proposti vinse Alfredo Sivocci. Ne seguì un nuovo, stavolta lunghissimo, stop. Per ritrovare la Gran Fondo bisogna salire al 1941, quando, in piena guerra, il 6 luglio, fu proposta dalla Gazzetta dello Sport su un itinerario quasi completamente lombardo, con partenza ed arrivo a Milano, una prova di 522 chilometri. Vinse il pratese Aldo Bini  Nuovo stop, ed un ultimo colpo di coda, il 9 giugno 1979, quando, sempre la Gazzetta dello Sport, per volere del grande Vincenzo Torriani, ripropose da Milano a Roma, su 670 chilometri complessivi, la Gran Fondo. La corsa, partita due giorni dopo la conclusione del Giro d’Italia, e coi campioni molto stanchi, non raccolse gli auspici. Vinse Sergio Santimaria.
 
Maurizio Ricci detto Morris
 
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RE: Storia e gloria del grande ciclismo prima della seconda guerra mondiale - da Morris - 22-10-2018, 07:04 PM

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