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Luisa Fernanda Rios
#3
L'intervista: La Colombia, che passione - Luisa Rios, professione team manager
Una trentina di anni fa il grande ciclismo internazionale ha assistito alla straordinaria entrata in scena dei corridori colombiani: nel 1980 Alfonso Flórez diventa il primo non europeo a vincere il Tour de l'Avenir. I risultati di Flórez e della prima squadra colombiana al Tour (1983) non passano inosservati ma è quanto entra in scena la squadra Cafè de Colombia (1985) che questi scalatori attaccanti per natura entrano nel cuore di tutti gli appassionati, non solo sudamericani: Lucho Herrera e Fabio Parra realizzano delle vere e proprie imprese sulle montagne del Tour, della Vuelta e anche del Giro.

Dopo questo magnifico periodo d'oro la Colombia continua a produrre ottimi corridori vicendo anche un Mondiale a cronometro con Botero (corridore molto diverso da Herrera e Parra) ma tutti corrono per squadre per lo più spagnole o italiane e mai del loro paese d'origine. Da qualche anno a questa parte, però, i Cafeteros stanno cercando di ritornare grandi con il gruppo della Colombia es Pasión e anche questa volta il primo passo è stato conquistare il Tour de l'Avenir, vittoria arrivata l'anno scorso grazie al giovanissimo talento di Nairo Quintana (con il compagno di squadra Pantano terzo); nel 2011 è arrivata anche per la prima volta la registrazione all'UCI come team Professional ed un calendario fitto anche in Europa (con il terzo posto al Giro dell'Appennino): abbiamo cercato di scoprire di più su questa squadra parlando con la team manager, caso unico nel ciclismo professionistico maschile, Luisa Rios.

Innanzi tutto chi è Luisa Rios?
«Ho 37 anni e sono nata e vivo a Medellín. Da sempre lo sport fa parte della mia vita, infatti in passato sono stata un'atleta di atleta livello nei Raid e nelle Adventure Race: corsa, canoa, arrampicata e altre discipline. Anche quando ho smesso con l'attività agonistica sono sempre rimasta nell'ambiente organizzando eventi e gare di avventura».

Niente ciclismo su strada quindi, come hai fatto a diventare manager della Colombia es Pasión?
«Grazie a queste organizzazioni avevo conosciuto, nel 2007, Luis Guillermo Plata che allora era ministro del commercio estero della Colombia: la squadra stava attraversando un periodo di grosse difficoltà ed è stato lui a propormi per questo ruolo perché servivano idee nuove e differenti. Io ho accettato e questo è il mio quarto anno nella squadra. Ovviamente all'inizio non è stato facile perché conoscevo molto poco questa realtà e lo staff tecnico mi ha aiutato in molte questioni mentre io mi occupavo dei contratti e degli sponsor».

Sappiamo che la squadra ha anche finanziamenti governativi, quale è il vostro obiettivo per i prossimi anni?
«La squadra è stata creata per cercare di portare in tutto il mondo un'immagine positiva del nostro paese; anni fa i rappresentati del governo avevano condotto uno studio all'estero per capire quale fosse la prima cosa a cui pensava la gente comune sulla Colombia: una grande maggioranza, purtroppo, ha parlato della droga e della guerra dei narcos ma, incredibilmente, subito dopo veniva il ciclismo e questo grazie alle imprese di campioni come Lucho Herrera e Fabio Parra che hanno davvero lasciato un segno profondo. L'obiettivo primario quindi è migliorare la credibilità del nostro paese, dei nostri marchi e dei nostri prodotti nell'immaginario collettivo: il ciclismo per questo è un veicolo totale, assolutamente perfetto. Sportivamente parlando invece il nostro sogno è di tornare a disputare il Tour de France con una formazione tutta nostra, composta da nove corridori colombiani».

Hai preso una squadra in crisi e l'hai portata alla categoria Professional, quanto lavoro c'è nel mezzo?
«Tantissimo! Fin dall'inizio abbiamo cercato di creare una struttura completamente diversa dalle precedenti e tra le prime cose ho voluto contattare Chris Carmichael, ex professionista e storico allenatore di Lance Armstrong e altri grandi sportivi, per fare dei test sui nostri ragazzi e capire quale fosse il loro potenziale: la prima risposta è che sono dei talenti naturali, hanno tantissime doti fisiche ideali per il ciclismo. Da subito abbiamo cercato di fare le cose per bene, abbiamo fatti molti test, abbiamo scelto di aderire al passaporto biologico e abbiamo anche stretto un accordo con uno dei più rinomati e affidabili lavoratori colombiani per fare dei controlli interni: se vogliamo dire al mondo che la Colombia non è solo narcos sarebbe da stupidi trovarsi poi con un ciclista positivo; abbiamo anche cercato di educare i nostri ragazzi perché è facile fare le cose male, farle bene invece è difficile».

In effetti la sfida era di quelle toste e qualcuno avrebbe potuto anche abbandonare alle prime difficoltà...
«Sì, però per evitare questo abbiamo cercato sempre di fissarci degli obiettivi e passare allo scalino successivo solo dopo averli ottenuti; in più abbiamo cercato di costruire una squadra con tanti giovani da far crescere ma anche con uomini esperti con Peña e Laverde che possano essere un punto di riferimento. Per esempio la registrazione come Professional non l'abbiamo fatta finché non sentivamo che la squadra era pronta ad affrontare questa nuova avventura: mandare subito ragazzi giovani in Europa poteva bruciarli, vincendo il Tour de l'Avenir invece abbiamo capito che il momento giusto per provarci era arrivato. Certo, avevamo sperato in un invito al Giro del Delfinato perché poteva essere un test importante; per la Vuelta invece in questi mesi ho parlato spesso con Javier Guillén, c'era molto interesse da parte di entrambi ma forse rimandare di un anno non è un male, è una corsa in cui serve molta esperienza e a noi manca ancora qualcosa, soprattutto ai ragazzi più giovani».

Questa generazione di giovani ciclisti ha lo stesso potenziale quella di Lucho Herrera e Fabio Parra?
«Assolutamente, forse anche un potenziale maggiore. Alcuni dei nostri giovani a 20 anni hanno già ottenuti risultati eccellenti, in Catalogna abbiamo vinto la classifica dei gran premi montagna, molto importante per la filosofia della nostra squadra, con Quintana ed il suo rivale diretto era Contador. In più oggi abbiamo a disposizione una tecnologia migliore che ci da anche la possibilità di fare allenamenti specifici e colmare tante lacune: in passato i ciclisti colombiani erano solo scalatori, non c'erano passisti o velocisti e non parliamo dell'abilità in discesa! Adesso abbiamo tanti corridori bravi su tutti i terreni, gli scalatori sono sempre la maggioranza, è ovvio, ma in squadra abbiamo gente che va forte in pianura e un bel velocista come Forero. E poi abbiamo un grande patrimonio che è anche il motivo per cui ci divideremo sempre tra Colombia ed Europa: in patria abbiamo sempre la possibilità di vivere e allenarci in altura e questo ci fornisce un grande vantaggio da non sprecare».

Il ciclismo in Colombia è molto sentito e ci sono tante squadre nazionali o anche regionali. Ci sono invidie nei vostri confronti?
«Un po' sì, però noi cerchiamo sempre di pensare al nostro lavoro. Purtroppo il ciclismo colombiano negli ultimi anni ha vissuto una gravissima crisi di doping con tante positività nelle corse nazionali: il problema è che sembra non ci sia molta voglia di cambiare e tante volte mi trovo costretta a chiamare la Federazione o l'UCI per sollecitare dei controlli antidoping perché capita che alle corse non ci siano».

Sebastiano Cipriani - www.cicloweb.it
 
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Luisa Fernanda Rios - da SarriTheBest - 02-05-2011, 01:52 PM
RE: Luisa Rios - da SarriTheBest - 02-05-2011, 01:53 PM
RE: Luisa Rios - da SarriTheBest - 04-06-2011, 01:51 AM

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