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Qualche zoom sui ciclisti nati oggi 21 aprile
#1
Marcel Hendrikx (Bel)
[Immagine: 1245832467HENDRICKX%20Marcel%20-%205.jpg]
Nato a Houthalen il 21 aprile 1925, deceduto a Munsterbilzen il 15 febbraio 2008. Passista veloce-finisseur. Professionista dal 1946 al 1961 con 27 vittorie. Con questo coriaceo fiammingo nato nel cuore del Limburgo belga, incontriamo un archetipo di passista veloce, avviato alla variabile del finisseur. Marcel possedeva scatto e progressione, ma pativa gli arrivi affollati e provava idiosincrasia verso quei corridori veloci che correvano sulle ruote degli altri. Sapeva che questi ultimi divenivano spesso letali, perciò, quando poteva, perché la discontinuità è stata il suo vero grande tallone d'Achille, cercava di sorprenderli con un'azione da finisseur, o sapeva scegliere al meglio il tempo dello scatto in una eventuale volata. In questo modo vinse le sue corse, in particolare le due Parigi Bruxelles che sono le perle della sua carriera. Nell'edizione '54 della "corsa delle due capitali", partì all'ultimo chilometro, anticipando, nel gruppetto dei migliori di giornata (del quale faceva parte anche il giovane Rik Van Looy), i temuti sprint di Derijcke e Kubler. Nel '55, invece, svolse la volata decisiva, anche stavolta avente protagonista un gruppetto con tutti i migliori, partendo ai 150 metri sulla destra della carreggiata e lasciando di stucco i suoi avversari. Un bel corridore, uno di quelli che, nell'odierno, anche per l'intelligenza che possedeva, sarebbe stato un vincente in proporzione assai superiore.
Tutte le sue vittorie. 1946: Criterium Mechelen (Indipendenti). 1947: 8a Tappa Giro del Belgio Indipendenti; Criterium di Bruxelles. 1948: 1a Tappa Attraverso il Belgio; Criterium Houthalen e Heusden. 1949: Liegi-Jemelle; GP de la Famenne; Criterium Quaregnon e Kasterlee. 1950: Criterium Westerlo. 1951: Roubaix-Huy; Circuito del Belgio Centrale; Criterium Eisden 1952: Parigi-Saint Etienne; 2° Tappa Parigi-Saint Etienne; Bruxelles-Sint Truiden; Vienna-Graz; Criterium Heusden. 1953: Circuit de la Nethe; Heusden O-Vlaanderen; Criterium Montenaken. 1954: Parigi-Bruxelles; Putte-Mechelen. 1955: Parigi-Bruxelles; GP Lanklaar; Criterium Rijkevorsel. 1961: Criterium Overpelt.

François (François Marie) Picolot (Fra)
Nato a Tregrom (Bretagna) il 21 aprile 1889, deceduto a Cavan (Bretagna) il 15 settembre 1926. Fondista. Corridore professionista nel 1910, nel 1921 e 1923, senza ottenere vittorie.
Una storia dimenticata, sepolta, sconosciuta, ma presente nella realtà delle vie che il ciclismo ha percorso aldilà dello sport. Una storia che mostra le facoltà incredibili dell’uomo, ma pure le sue enormi debolezze e che andrebbe letta al contrario di ciò che si è soliti considerare, quando il protagonista è uno sportivo, ovvero pensando all’essere umano e non all’atleta. Francois (Francois Marie, all’anagrafe) nacque in una famiglia dove il padre faceva un po’ di tutto: dal fabbro al falegname, dalle primissime basi di ciò che il tempo eleggerà idraulico, allo stagnino. Insomma, un artigiano che viveva senza eccessi, ma con molta sostanza, non ricco, ma nemmeno poverissimo. Un uomo che aveva il sogno di lasciare ai figli un qualcosa in grado di aiutarli nella scelta del mestiere e preparar loro un sicuro sentiero di vita. Lo sfondo era quella “belle époque” che alimentava nuove speranze e quei sogni sorti da scoperte e siamesi tecnologie. La bicicletta era tanto, tantissimo nell’immaginario collettivo del tempo e quando nacque il primo Tour de France, Francois Picolot era già meccanico di biciclette. A 14 anni e mezzo aveva una parte tutta sua nella bottega del padre e lavorava, lavorava, fino a giungere a riferimento di zona. Ancora non pensava di correre, anche se era bravino a pedalare: gli bastava sistemare e “pettinare” quello strumento allora ancora grezzo e pesante, rispetto a quel che verrà. Cinque anni dopo, alla vigilia del sesto Tour de France qualcuno convinse il padre a far provare l’agonismo a Francois, anche per lanciare al meglio la sua attività. “Con quel che fai – gli diceva il padre – potresti trovare sostegni per partecipare a grandi corse”. Il giovane Picolot iniziò così a 18 anni e mezzo a fare il ciclista dilettante, continuando l’attività di meccanico. Piazzamenti, niente di più, ma con la passione crescente sul mix più vero ed immortale dello sport, quello che ti fa vivere l’esercizio atletico, “prima di tutto come una sfida con sé stessi e, poi, con gli avversari”. Francois correva e s’allenava praticamente mai, perché doveva lavorare. Quindi le gare erano allenamento, o meglio, l’allenamento stava nell’andare a correre in bicicletta e ritornare a casa in bicicletta. Cresceva però. Piazzamenti migliori ed un paio di vittorie. Abbastanza per svegliare per vari motivi la Biguet a fornirgli assistenza per fare il professionista nel 1910. Picolot si iscrisse così al Tour de France di quell’anno: aveva 21 anni, tante corse in meno degli altri, allenamenti sui generis, fondo sicuramente insufficiente, ma voleva arrivare a Parigi. Prima tappa di quel Tour, la Parigi-Roubaix, già classica e già considerata terribile, ma una delle più corte: “solo” 272 km. Francois lottò con le avversità naturali ed agonistiche, ed arrivò 59°, a 3 ore e 5’ dal vincitore Crupeland. Da considerare che nella celebre città del nord della Francia, non arrivarono 10, dei 110 partiti. Sulla medesima falsariga, con piazzamenti costanti nell’intorno di metà del gruppo originario, superando incidenti, cadute e forature, Picolot arrivò ai traguardi di Metz, Belfort, Lione, Grenoble, Nizza, Nimes e Perpignan. La nona tappa, la Perpignan-Luchon di 289 chilometri, era la prima tappa pirenaica di quella Grande Boucle, ma pure la prima frazione nella storia, con quattro colli da scalare: ciononostante non era la più dura dell’edizione 1910. La successiva, infatti, di grandi salite pirenaiche ne avrebbe proposte cinque, con Tourmalet e Aubisque compresi. Ovviamente la sera di Perpignan, fu un coacervo di pensieri pesanti e preoccupanti, nei sessantatré rimasti in corsa. Più ancora delle salite, si temevano le discese. Fatto sta che dopo quasi sei ore di corsa sul finire della discesa del Col de Port nel gruppo finale della corsa, ancora piuttosto folto, accadde il temuto: caddero diversi corridori, taluni si rialzarono con ferite apparentemente non gravi, mentre altri rimasero a terra: erano Picolot, Wattelier, Privat e l’asso Dortignacq, partito già claudicante per una rovinosa caduta nella tappa precedente. Quest’ultimo si arrese subito, Privat e Wattelier ripartirono, ma a Saint-Girons si ritirarono. Picolot, invece, che pareva il più malconcio risalì in sella per ultimo e continuò a pedalare da solo con tanto dolore fino a scalare il terzo colle di giornata, ovvero il Col de Portet d’Aspet, ma ai piedi della quarta montagna, il Col des Ares si fermò, letteralmente distrutto. Quell’epilogo lo lasciò sofferente a lungo. Riprese a lavorare e decise di ritornare all’agonismo solo quando fosse giunto al possesso di esperienza e di fondo necessari, per arrivare all’unico obiettivo che cercava nello sport: finire il Tour de France a Parigi. Si preparò con calma, indipendentemente da mesi ed anni, anche perché doveva lavorare in bottega e quando si sentiva ormai pronto, scoppiò la Guerra. Divenuto soldato, finì al fronte occidentale e nella famosa “Battaglia della Somme”, nei pressi di Hébuterne, fu ferito gravemente. Salvò la vita, ma rimase mutilato alla mano sinistra e pur ritornando a camminare, le diverse fratture subite, lo portarono a ritrovarsi con la gamba sinistra più corta, ed una conseguente zoppia. Ritornò a lavorare con grosse difficoltà, ma come corridore era finito, perlomeno questo lo dichiarava la logica. Tra l’altro, le fratture e le ferite di guerra avevano reso la sua salute assai cagionevole. La logica però, non aveva fatto i conti con l’animo e la tempra dello sfortunato Francois Picolot, simbolo perfetto di ciò che s’è sempre detto dei bretoni. Lui, il meccanico di bici, era tornato a farlo e voleva assolutamente completare il sogno di arrivare a Parigi al Tour de France. Per vedere dove potevano allargarsi i suoi confini, si preparò una bicicletta un po’ diversa dalle altre a causa delle menomazioni e, fra l’incredulità dei paesani di Cavan (a pochi km dalla natia Trégrom), dove da tempo s’era trasferito, riprese a prepararsi per l’agonismo. Ad agosto 1921, si iscrisse alla più massacrante delle corse in linea senza soluzione di continuità, coi suoi 1196 chilometri: la Parigi-Brest-Parigi. Questa corsa, in programma dal 2 settembre, poneva un tempo limite oltre il quale non si veniva classificati per il gruppo di partenti definiti “vitesse”, ovvero quelli più competitivi, mentre per l’altro gruppo partente, quello definito “touristes routiers”, in pratica i meno competitivi e poco assistiti, il limite per la classificazione era marcatamente più ampio. Il ciclismo, che in quanto a regole, dirigenti di buon senso e scelte strategiche, è sempre stato perlomeno un po’ carente, o vicino allo spirito raccolto con profondità da Andres Londras quando definì i ciclisti “Forzati della strada”, accettò senza obiezioni l’iscrizione di Picolot fra corridori di “vitesse”. Un assurdo, in considerazione della disabilità evidente di Francois, il quale non si dannò di certo, perché la Parigi-Brest- Parigi, per lui, altri non era che una tappa per arrivare, prima o poi, a Parigi col Tour de France.
Partirono in direzione di Brest 106 ciclisti, 43 “vitesse” e 63 “touristes routiers”. Vinse un grande come il belga Louis Mottiat in 55 ore 7 minuti e 6 secondi, davanti a 56 classificati. Gli altri 50 partenti, o abbandonarono, o arrivarono fuori tempo massimo, o furono squalificati perché saliti su auto, o protagonisti di altre infrazioni molto gravi. Picolot fece un’impresa, viste le sue condizioni, anche se non fu classificato, perché arrivò un’ora e mezza dopo il tempo massimo dei “vitesse”, impiegando 97 ore e 7 minuti, che l’avrebbero classificato al 23° posto assoluto e all’11° fra i “vitesse”. Verso di lui, anche all’arrivo, nessuna indulgenza e, soprattutto, nessuna capacità di derogare, in considerazione della svista all’atto dell’iscrizione. L’unica consolazione però, stava nella creazione di un precedente che avrebbe dribblato eventuali obiezioni all’accettazione per un futuro Tour de France. Dopo quella impressionante corsa, Picolot si fermò di nuovo, per assorbire i segni della mostruosa fatica con conseguenze sulla sua salute e prepararsi al Tour. Il tentativo di dar finalmente un’altra volta gambe al sogno di terminare la Grande Boucle, si concretizzò il 24 giugno 1923, quando fu allo start della prima frazione di quel Tour, la Parigi-Le Havre di 381 chilometri.   Stavolta, alla vigilia dovette superare qualche obiezione, ma al via, grazie a quel precedente nella Parigi-Brest-Parigi, ci poté essere. Partirono dalla Capitale francese in 139 e Francois arrivò 113°, a 4 ore e un minuto dal vincitore. Aveva speso molto però perché alla lunghezza s’accostò quel vento che lo rendeva più fragile di tutti gli altri, visto che la forza sul manubrio la poteva spendere con una sola mano, perchè l’altra poteva esibire solo un appoggio.  La seconda frazione da Le Havre a Cherbourg di 371chilometri, Picolot la superò meglio, poiché non pensò a quanti gli stavano dietro, ed ottenne un piazzamento praticamente uguale a quello della tappa precedente: 114°. La terza tappa che da Cherbourg si concludeva a Brest, dopo 405(!) chilometri, vide un altro mazzo di ritiri, ma non quello di Francois che, a costo di sforzi incredibili, chiuse 97° e la sera di Brest lo vide ancora fra i 100 rimasti in gara. I suoi potevano essere considerati successi, in virtù delle sue condizioni, ma erano vittorie di Pirro, perché per quel sogno si stava distruggendo. E così, stanchissimo, nel corso della quarta tappa, che da Brest si concludeva dopo 412 chilometri a Les Sables d’Olonne, il gladiatorio bretone cadde e lì finì il suo sogno. Fu costretto al ritiro, con conseguenze tali da rallentare non poco il suo ritorno al lavoro e di incrinare ulteriormente il suo stato di salute. La delusione per non essere riuscito a finire il Tour fu enorme, ed in grado essa stessa di far ulteriore male ad una salute via via più compromessa. Tre anni dopo, a settembre, a causa di una nefrite acuta che sfociò in infezione, Francois Picolot lasciò questo mondo. Aveva solo 37 anni.

Tristano Tinarelli
[Immagine: 35556966916_66cd6d2020_b.jpg]
Nato a Baricella (BO) il 21 aprile 1933, deceduto a Bologna il 16 aprile 2009. Passista scalatore. Professionista dal 1959 al 1960, senza ottenere vittorie.
Il suo essere stato un buon dilettante non si determinò dal numero dei successi, bensì dalla sua regolarità negli ordini d'arrivo e da una evidente capacità di entrare nelle fughe. Lo scarso spunto veloce, la forza e il valore dei colleghi dell'epoca, gli hanno impedito di costruirsi un solido palmares, ma le sue belle condotte, gli hanno consentito una certa notorietà. Si segnalò all'osservatorio e al mondo professionistico, in maniera decisa, per una sua stupenda vittoria da dilettante, colta nel giugno del 1958, nel Giro del Frignano, una classica che si correva sulle strade dell'enfant prodige del ciclismo dilettantistico dell'epoca, Romeo Venturelli. Una manifestazione di 134 chilometri con molte salite che partiva da Maranello indi Serramazzoni, Pavullo, Renno, Ponte Pruneto, Sestola, Montecreto, Pievepelago, Barigazzo, Lama Mocogno e l'arrivo a Pavullo. In quell'edizione c'erano tanti bei nomi alla partenza, da segnalare oltre a Venturelli, anche Vittorio Adorni (che finì 13° a sette minuti da Tinarelli). Tristano allora esponente di spicco dell'U.S. Vignolese riuscì a rimanere nel drappello dei primi che superò la salita di Sestola e, sapendo che il difficile finale avrebbe potuto consentire il ritorno di Venturelli, fermato da una crisi di crampi, staccò i compagni di fuga a pochi chilometri dal traguardo, giungendo sul traguardo di Pavullo, fra una folla strabocchevole, tutto solo. Anticipò di 25" proprio il grande corridore di casa, nel frattempo ritornato sui primi inseguitori. Per Tinarelli fu un trionfo, perché contro un Venturelli motivato, era pressoché impossibile vincere. Sulle ali di quel successo trovò un contratto professionistico con la Torpado e nel 1959 passò di categoria. Il primo anno fu particolarmente incolore, senza acuti e poche occasioni di uscire dalla "pancia" del gruppo. Andò un po' meglio nel 1960, quando la sua regolarità trovò più tangibilità e il trentunesimo posto al Giro d'Italia, davanti ad una buona fetta dell'ottimo cast di quel Giro, poteva far prevedere qualcosa di discreto per il futuro. Tristano però, capì che non era il caso di continuare, ed a fine '60 abbandonò l'attività, rimanendo comunque nell'ambiente ciclistico in vari ruoli.

Sergei Yakovlev (Kaz)
[Immagine: 16701704391325Yakovlev,Sergei.jpg]
Nato a Temirtau il 21 aprile 1976. Passista. Professionista dal 1999 al 2008, con 10 vittorie.
Un buon corridore, soprattutto grazie alla sua disponibilità verso la squadra e, conseguentemente, in direzione del capitano di essa. Ottimo sul passo e ben poco egoista. Insomma, uno nato gregario-spalla, prima ancora di poter vedere quanto poteva valere singolarmente. All’occorrenza, era pure uno che sapeva vincere, ma preferiva tessere le file di chi gli consentiva ingaggio e stipendio. A muoverlo una precisa filosofia: meglio farsi apprezzare da chi conta, piuttosto che ricercare vittorie che modificavano poco il proprio cammino, visto che era palese il non essere campione.
Divenne professionista nel 1999, dopo aver vinto nel 1997 il Titolo kazako élite. La sua squadra d’esordio fu la francese Besson Chaussures, una piccola formazione con programma di medio livello e senza precisi capitani. Ciò gli consenti di arrivare più facilmente alla lotta per la vittoria personale, ed infatti nei due anni di permanenza nel sodalizio, vinse sette delle 10 corse presenti nel suo carnet di carriera. Nel 1999, arrivò al successo nella 2a tappa del Circuit Franco-Belge, i Campionato dell’Asia nella prova in linea ed il Prologo del Tour de Hokkaido, in Giappone. L’anno successivo, vinse il Tour de l’Ain, il Gp Riom, il Campionato del Kazakistan su strada, ed in Italia, la quarta tappa del Giro d’Abruzzo. Proprio nel nostro paese, ed in una squadra a base abruzzese, s’accasò nel 2001, la Cantina Tollo-Acqua & Sapone. Qui si evidenziarono compiutamente quelle sue qualità di uomo squadra, che poi firmeranno la sua carriera. Non a caso, nel 2002, fu ingaggiato dallo squadrone tedesco della Telekom, dove strinse amicizia col connazionale in gran crescita Aleksandr Vinokurov, di cui divenne spalla praticamente fino al termine della sua attività agonistica. Nel primo anno di Telekom vinse la settima tappa del Tour de Suisse, che si concludeva Oberstaufen. Si congedò dal team tedesco vincendo a fine settembre 2005 l’ottava tappa del Giro dell’Indonesia.
Nel 2006 passò al team spagnolo Liberty Seguros-Würth che, poi, tre mesi dopo, in seguito allo scandalo doping che coinvolse il Manager-Direttore Sportivo Manolo Saiz, divenne Astana, ovvero la capitale del Kazakistan. Si trattava di un intervento statale per tutelare fino in fondo il sempre più convincente Vinokurov. In quella stagione Yakovlev partecipò al Giro d'Italia, giungendo terzo nella decima tappa, la Termoli-Peschici. Continuò il suo oscuro ma sostanziale lavoro di spalla nell’Astana fino alla fine della carriera agonistica. Nel dopo divenne direttore sportivo della stessa Astana. Ruolo che ricoprì fino al 2019.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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#2
La storia di Picolot... Grande Maurizio  Adorazione
 
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#3
A proposito della menomazione che la Battaglia della Somme lasciò a Picolot sulla mano sinistra, essa era simile a quella, di tutt'altra origine ovviamente, che aveva lo spagnolo Javier Castellar corridore della Kelme negli anni ottanta. Ricordo che Eddy Merckx, quando sponsorizzò le biciclette per la storica formazione spagnola, nel 1986, preparò appositamente per Castellar, che era un buon corridore, una sorta di protesi. Castellar aveva solo il pollice quasi intero alla mano sinistra e le altre, terminavano tutte alla prima falange. Fin dai tempi della sua esperienza fra i dilettanti (dove fu Campione Spagnolo su strada) correva con uno speciale meccanismo frenante collegato a un'unica leva.
 
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