Login Registrati Connettiti via Facebook



Non sei registrato o connesso al forum.
Effettua la registrazione gratuita o il login per poter sfruttare tutte le funzionalità del forum e rimuovere ogni forma di pubblicità invasiva.

Condividi:
Sport: Sul Viale dei Graffiti
#21
  Fra qualche settimana, una tappa della Tirreno Adriatico 2022, riabbraccerà una zona mitica......                         


   Il Cippo, la Cantoniera e Carpegna, templi indelebili di ciclismo.

Uno sguardo fra odierno e storia

[Immagine: carpegna-2000.jpg]

Chi va a Carpegna non  può che respirare ciclismo. Lì, nel paesino, sotto quel Cippo che pare proteggerlo nell’incanto della maestosità ambientale, sussurrano i respiri dei grandi del pedale; di quegli uomini che, sulla bicicletta, hanno portato i loro nomi a sibilare siamesi con quell’angolo del Montefeltro. E come tutti i fatti e gli avvenimenti che la storia traccia incontrandone i luoghi teatro, si finisce nella suggestione e nel fascino del ricordo.
Quattro volte il Giro d’Italia è passato di qua, due volte ne è stato arrivo di tappa. Un numero esiguo, certo, eppure, grazie agli eccelsi protagonisti che l’han valutata, impressa e conquistata, questa zona è diventata un mito della “Corsa Rosa” e dell’intero pedale. Qui c’è la dimora che non morirà mai del leggendario Marco Pantani, il più grande scalatore della storia, nonostante le Cassandre appannate dall’invidia, o dalle cortezze tornite d’ipocrisia, che solo sul romanzo del pedale, fra gli sport, prosperano con sì tanta e preoccupante intensità. Lui non ha mai corso il Carpegna in gara, ma l’aveva scelto come palcoscenico dei suoi allenamenti per svettare ovunque, fermare le fabbriche, porre le genti davanti ad un video, come icona ineguagliata d’ammirazione e partecipazione emotiva. Era la sua reggia, ove preparava ogni variabile del suo leggiadro pennello, dando un tocco tutto suo a quanto fatto dai nobili che l’hanno preceduto. Qui, ha vinto il più forte corridore della storia, Eddy Merckx, quel belga con la grinta di un disperato, la forza di un Golia e la generosità agonistica di nessuno, proprio nessuno. Qui, han posto sigillo prezioso due ispanici, Julio Jimenez e Josè Manuel Fuente, che stanno fra i più grandi grimpeur di cui si abbia memoria e che anche col raffreddore più pesante, uno storico vero e non “media”, porrebbe in disamina, ben davanti alla più ottimistica delle valutazioni sui “frullini monocordi” seduti su "bombe tecnologiche" del ciclismo di oggi. Qui si onora, con tanto di ben di Dio precedente, di stare un Alessandro Bertolini, l’ultimo a passare per primo quassù e che ha sempre vissuto, con modestia la sua bravura: non da super, ma di spessore migliore a tanti strombazzati dai megafoni mediatici odierni.
Un gruppo di eletti, dunque, che può aspettare senza modificare morfologie, personaggi ed autori che è dura prevedere possibili, per quell’inverso acume nelle traversie che il ciclismo va a cercare anche quando non ci sono. Carpegna è superiore, immutata e non scalfibile. Sono altri, del cosiddetto “grande ciclismo”, a doverla cercare, per illuminarsi. Per dare l’illusione ad un ancor folto gruppo di appassionati che digerisce anche i sassi, d’aver visto dei campioni.

Le tappe di un mito…..

29 maggio 1969 - Giro d’Italia  - frazione Senigallia-San Marino di 185 km

In una giornata grigia ma caldissima e afosa ai limiti della sopportazione, si visse subito un colpo di scena. Mentre il gruppo s’avvicinava al chilometro “zero” di Senigallia, la Maglia Rosa Silvano Schiavon e Ugo Colombo caddero. Fortunatamente niente di grave, ma lo start ebbe luogo con e con qualche minuto di ritardo, per dar modo al dottor Frattini, di medicare i due. La tappa, che aveva nel Passo della Cantoniera di Carpegna, l’asperità principale di giornata, prima dell’arrivo all’insù della Repubblica del Titano, si consumò noiosa e a bassissima andatura. Le condizioni ambientali, il bisogno di cercare acqua (allora, le opportunità di oggi, erano solo dei sogni), frenarono gran parte degli ardori agonistici. I tentativi di Gattafoni e Scopel e quello più lungo di Paolini, di fatto, furono spinti dal bisogno di cercare acqua…. con più calma. Sulla Cantoniera, si visse a lungo sul “vogliamoci  bene” di gruppo. Poi, uno scatto del grande scalatore spagnolo ormai  al lumicino, Julio Jimenez, che correva per l’Eliolona,  ruppe la monotonia. In cima, “l’Orologiaio di Avila”, passò con una trentina di secondi su due romagnoli in cerca di evidenza, il cesenate Guido Neri della Scic, per tutti uno dei migliori gregari italiani negli anni ’60, ed il forlivese di San Martino in Strada, Giancarlo Toschi, spalla di Ole Ritter ed un ormai al crepuscolo Vito Taccone, alla Germanvox Wega.
In discesa da Carpegna il gruppo ritornò compatto. La battaglia si sviluppò sulle rampe del Monte Titano, a San Marino e fu avviata da Eddy Merckx, che poi forò. L’incidente scatenò ulteriormente le polveri, ed alla fine a vincere con una manciata di secondi di vantaggio fu Franco Bitossi (Filotex) che tolse la gioia di un successo di tappa, proprio a Guido Neri. Merckx, uscito dalla possibilità di vincere la frazione per la foratura, conquistò ugualmente la Maglia Rosa.


Sul primo al Passo della Cantoniera 1969.
[Immagine: julio_10.jpg]
Julio Jimenez Munoz, arrivò alla chetichella al Giro del 1969, l’ultimo della sua carriera. A fine ’68, il suo contratto con la francese “Bic” di Raphael Geminiani e del coetaneo Jacques Anquetil, non fu rinnovato, probabilmente per dissidi col nocchiero emigrato in Francia da Lugo di Ravenna. Trovatosi disoccupato, fu contattato dal pubblicitario marchigiano Alceo Moretti, un personaggio che ha fatto tanto bene al ciclismo italiano negli anni ’60. Costui, infatti, era specialista nel trovare nell’inverno fra una stagione e l’altra, aziende disposte a formare squadre, attingendo fra i disoccupati e quei dilettanti d’esperienza e spessore che, incredibilmente, non erano stati posti a contratto dalle squadre consolidate. Moretti trovò nella milanese Eliolona, azienda leader nelle tende da sole (in seguito assorbita dalla Zucchi), colei che gli consentì l’ennesimo salvataggio di un bel gruppo di corridori. Fra questi, appunto, Jimenez, un atleta però, già al tramonto. Tanto è vero che la conquista del GPM della Cantoniera, fu uno dei suoi ultimi fuochi e all’indomani del Giro, chiuso ad un per lui modesto 34° posto, appese la bicicletta al chiodo.
Nato ad Avila il 28 ottobre 1934, Jimenes è stato professionista dal 1959 al 1969, con 52 vittorie all’attivo. Un atleta “passerotto” che maturò piuttosto tardi, poiché a lungo, a causa di origini umilissime, le sue corse in bici si alternarono al lavoro di orologiaio. Di qui il soprannome de “l’Orologiaio di Avila”, oppure, per la sua fede scrupolosamente osservante, quello di “Sacrestano”.
Quando si trasferì a Madrid con la famiglia nel 1953, il suo trend non si modificò e per poter sostenere l’attività ciclistica che aveva abbracciato completamente la sua passione, fu costretto pure ad aiutarsi andando ad acquistare pezzi per lo strumento di gara, ai mercatini delle pulci. La sua taglia fisica e le sue specifiche attitudini alla salita però, pian piano lo misero in luce, fino al passaggio al professionismo. Ne uscì una carriera che lo ha fatto entrare fra i grandi scalatori di ogni epoca, naturalmente indirizzato verso le maggiori gare a tappe, dove, purtroppo, la sua debolezza a cronometro e la scarsa concentrazione, hanno ridotto sensibilmente il suo comunque buon palmares. Vissuto a lungo come alter ego del grande Bahamontes, è stato Campione di Spagna nel '64 e della Montagna nel '62 e '65.
Ovviamente, s’è messo in mostra nelle gare in salita, come sul Mont Faron nel ’63, indi ad Arrate nel '65, Urquiola '62, '64, '65, Poly '67. Ma i pezzi forti del suo ruolino, stanno nelle maggiori corse a tappe, dove ha vinto la Classifica dei Gran Premi della Montagna 3 volte al Tour de France ('65, '66 e '67); altrettante volte nella Vuelta ('63, '64, '65), nonché le tappe a lui più congeniali: 5 al Tour, 4 al Giro d’Italia e 3 alla Vuelta. I suoi piazzamenti migliori nella classifica generale, furono il 2° posto al Tour nel ’67 dietro Roger Pingeon, il 4° al Giro d’Italia ’66 (dove per undici tappe indossò la Maglia Rosa) e il 5° nella Vuelta di Spagna ’64.


27 maggio 1973 – Giro d’Italia – Frazione Lido delle Nazioni-Carpegna di 156 km
[Immagine: 8a.jpg]
Una data da scolpire. Fu la genesi imperiosa del Mito di Carpegna nel grande ciclismo. Già da sola in grado di reggere l’usura del tempo e la facilità umana di cancellare, per gli interessi dell’oggi, i significati prorompenti del passato, specie quando l’oggetto è lo sport del pedale. Per la prima volta il Giro d’Italia fece tappa a Carpegna , e che tappa!
Il Giro 1973 partì da Verviers, in Belgio dove, nel prologo, Eddy Merckx conquistò subito la Maglia Rosa. Il “Cannibale” aveva già messo nel suo inimitabile bottino di primavera, fra le altre,  Het Volk, Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi; Amstel Gold Race e  Parigi-Bruxelles. Era poi andato in Spagna, a sfidare Luis Ocana alla Vuelta, ed era uscito netto vincitore. E che fosse un Merckx alato più del solito lo si capi, qualche giorno dopo, proprio al Giro. La frazione che da Lido delle Nazioni si concludeva a Carpegna, dopo le scalate del Valico del Barbotto, di Perticara, del Passo della Cantoniera e del Cippo di Carpegna, per concludersi poi nel paesino, era la prima grande sfida su grandi pendenze del Giro. Eddy, in Maglia Rosa, partì deciso a regolare i conti con l’altro grande di Spagna, colui che alla Vuelta non c’era, ovvero Josè Manuel Fuente, nonché gli italiani di quella generazione fortissima, come mai nella storia, che stava offuscando con la sua presenza.
Poco prima di Borello, il Cannibale parlottò con Fuente anticipandogli, forse per metterlo alla prova, che avrebbe fatto la corsa dura fin dal Barbotto. Poco dopo, strizzò l’occhio al fido compagno Joseph De Schoenmaker, per fargli capire che il piano tracciato la mattina, era confermato. Sulla prima ascesa di giornata, con un caldo incredibile che faceva appiccicare i tubolari all’asfalto divenuto tenero, Eddy impose subito un ritmo impossibile ai più. Solo Fuente gli tenne la ruota, mentre a qualche decina di metri inseguivano il giovane italiano, Giovanni Battaglin,  neoprofessionista, ma già più forte di tutti i connazionali in salita, ed il compagno De Schoenmaker. Per gli altri, la notte era già scesa anche se fatta di luce fulgida e di caldo cocente. Al culmine del Barbotto, Eddy fu primo su Fuente, a 10” Battaglin e De Schoenmaker,  gli altri, sgranati, ad una quarantina di secondi. In discesa le due coppie di testa sui riunirono e sull’ascesa di Perticara, a dare cambi a Merckx, ci pensò il compagno, rendendo la resistenza di Fuente al lumicino. Sulla Cantiniera a Pennabilli, l’affondo di Eddy, provocò il cedimento del bravo gregario e, di lì a poco, di schianto, mollò anche Fuente. In cima al passo, la Maglia Rosa passò con un sempre più grande Battaglin a ruota ed a 3’28” Gimondi ed i migliori italiani che, nel frattempo, avevano riassorbito lo spagnolo. Dopo la breve discesa su Carpegna, la prima volta del Cippo. Qui, anche il fortissimo e commovente giovane vicentino, fu costretto a cedere al passo del Cannibale, che lo anticipò dopo la picchiata sul traguardo di Carpegna di 45”. Terzo, a 4’16”, finì Zilioli. Più staccati gli altri. L’impresa di Merckx, resa più grande dalla prestazione mostruosa del giovane Battaglin, finì per suggellare quel Giro. Idem l’incredibile cornice di folla. Le immagini di Eddy e Giovanni sul Cippo l’enorme pubblico, ed i paesaggi da sogno di Carpegna, divennero il motivo conduttore del film “La corsa in testa”, un documentario su Eddy Merckx, che ha fatto epoca e che, ancora oggi, è da considerarsi una perla nel settore. Anche questo ha contribuito ad alimentare il mito della località del Montefeltro sugli sfondi ciclistici.
 
Ordine d’arrivo:
1° Eddy Merckx (Bel-Molteni) km 156 in 4h40’36”, alla media di 33,257kmh, 2° Giovanni Battaglin (Jolljceramica) a 45”, 3° Italo Zilioli (Dreher Forte) a 4’16”; 4° Gianni Motta (Zonca) a 4’19”, 5° Felice Gimondi (Bianchi), 6° Franco Bitossi (Sammontana), 7° Wladimiro Panizza (GBC) a 4’34”, 8° Josè Pesarrodona (Esp-Kas-Kaskol), 9° Roberto Poggiali (Sammontana) a 4’52”, 10 Gosta Pettersson (Sue-Scic)….

Sul vincitore.
[Immagine: eddy_m10.jpg]
Su Eddy Merckx, non c’è niente di più significativo della sintesi dei suoi numeri (senza citare corse che renderebbero fulgida una carriera).
Su strada ha corso in totale 1793 corse, vincendone 525 (426 da professionista).
Ruolino anno per anno:
1961 (Allievo) – 7 corse 1 vittoria
1962 (Allievo) – 55 corse 23 vittorie compreso il Campionato Belga per Allievi.
1963 (Dilettante) – 72 corse 28 vittorie
1964 (Dilettante) – 72 corse 24 vittorie compreso il Campionato Mondiale a Sallanches (Fra)
1965 (Dilettante) – 5 corse 4 vittorie
1965 (Professionista) – 69 corse 9 vittorie
1966 – 95 corse 20 vittorie
1967 – 113 corse 26 vittorie
1968 – 129 corse 32 vittorie
1969 – 129 corse 43 vittorie
1970 – 138 corse 52 vittorie
1971 – 120 corse 54 vittorie
1972 – 127 corse 50 vittorie
1973 – 136 corse 51 vittorie
1974 – 140 corse 38 vittorie
1975 – 151 corse 38 vittorie
1976 – 111 corse 15 vittorie
1977 – 119 corse 17 vittorie
1978 – 5 corse 0 vittorie
Nel suo palmares ci sono, relativamente alle corse in linea,: quattro Titoli Mondiali (tre da professionista nel '67, '71, '74; ed uno fra i dilettanti nel ’64), un Titolo Nazionale (’70); sette Milano-Sanremo su dieci disputate (’66, ’67, ’69, ’71, ’72, ’75, ’76), cinque Liegi-Bastogne-Liegi (’69, ’71, ’72, ’73, ’75), tre Parigi-Roubaix '68, '70, '73; due Giri delle Fiandre (’69, ’75); due Giri di Lombardia ’71, ’72); tre Freccia Vallone (‘67, ’70, ’72); tre Gand-Wevelgem (‘67, ’70, ’72); due Amstel Gold Race (’73, ’75), una Parigi Bruxelles (’73), un G.P. di Francoforte (’71); due Het Volk (’71, ’73).
Nelle corse a tappe: cinque Giri d'Italia (’68, ’70, ’72, ’73, ’74); cinque Tour de France (’69, ’70, ’71, ‘72, ’74); una Vuelta (’73); un Giro di Svizzera (’74); tre Parigi Nizza (’69, ’70, ’71); quattro Giri di Sardegna (‘68, ’71, ’73, ’75).
Zoomando, limitatamente al professionismo: 32 classiche, 14 giri nazionali, 18 corse a tappe, 82 tappe in linea, 51 a cronometro, 10 prove a cronometro, 33 prove in salita, 164 fra criterium, circuiti, kermesse.
Su pista da dilettante e professionista ha corso 143 manifestazioni vincendone 98.
Il record dell'ora con km 49,431, stabilito a Città del Messico il 25 ottobre 1972, unitamente a quelli dei 10 e 20 chilometri, sono da considerarsi i più prestigiosi titoli sui velodromi, ma non si devono dimenticare altre performance di grande valore. Esattamente:
17 Sei Giorni (16 con Patrick Sercu ed una con Ferdinand Bracke)
1 Campionato Europeo dell’Omnium nel 1975
1 Campionato Europeo dell’Americana (con Patrick Sercu) nel 1978
3 Campionati Nazionali nell’Americana (con Patrick Sercu) fra i dilettanti (’63-’64, ’65).
5 Campionati Nazionali nell’Americana (con Patrick Sercu) fra i prof. (’66-’67, ’73, ’75, ‘76).
Ha praticato anche il ciclocross correndo 3 manifestazioni e vincendone 2


25 maggio 1974 – Giro d’Italia – Frazione Macerata-Carpegna di 191 km
[Immagine: nacera10.jpg]

Una tappa che si propose invertendo i ruoli dei protagonisti dell’anno precedente e che si concluse con la rivincita di Josè Manuel Fuente su Eddy Merckx. Lo spagnolo, stavolta in Maglia Rosa, partì da Macerata, col timore di vedersi la squadra sfaldare al fine di rispondere ai prevedibili attacchi nelle lunghe fasi ondulate e di pianura, precedenti il durissimo finale. Ma né Merckx, né gli italiani,  forse per il fatto di trovarsi di fronte ad un pomeriggio freddo, autunnale, con pioggia annunciata e poi arrivata, si impegnarono a rendere aspro l’avvicinamento a Carpegna. Fatto sta, che sullo strappo di Frontino, ad una ventina di chilometri dall’arrivo, erano ancora in tanti davanti. Un bel gruppo, con i bravissimi Kas, Uribezubia, Lopez Carril e Galdos, a proteggere il capitano in Rosa, in attesa del di questi affondo. E l’oceanica folla presente fra Carpegna e il Cippo, non aspettava altro.
Il primo attacco di Fuente si consumò presto, dopo meno di un chilometro di salita. Con lui rimasero Merckx e gli italiani Battaglin e Tino Conti, ma poco prima di metà ascesa, una seconda accelerazione dello spagnolo, gli consentì di rimanere in solitudine. Al suo inseguimento ravvicinato, il solo Cannibale, annunciato lontano dalla stato di grazia, per una primavera densa di difficoltà e acciacchi, nonché martoriato, nell’occasione, da un cattivo funzionamento del cambio. Il Cippo di Carpegna però, incappucciato dalla nebbia e con una carreggiata stretta densa di spettatori, favorì un vezzo tanto comune ai tempi, definito “compagnia della spinta” che, di fatto, rese la scalata una pagina ingiusta, o poco credibile, dietro ai due assi stranieri in testa, ed in gran duello. Gli unici su cui si poté giurare la percorrenza della salita attraverso le rispettive e proprie gambe. Sugli altri no. Ovviamente fatti che i giornali nostrani dell’epoca, a parte qualche raro caso, non narrarono con obiettività, perché il nazionalismo italiano nello sport, è un dato altrettanto acquisito dalla storia. Ed in quel caso, a godere della “compagnia della spinta”, furono gli italiani, o quegli straneri italianizzati per militanza in formazioni della penisola, magari particolarmente simpatici, perché fuori dalle possibilità di lottare per la “Rosa”. Fatto sta, che in cima al Cippo, mentre si stava scatenando sulla zona un violento acquazzone, tale da rendere estremamente pericolosi i ripidi tornanti della picchiata verso il traguardo di Carpegna, Fuente e Merckx, distanziati da 1’18”, furono autori di una corsa “pulita”, mentre gli altri, più o meno coscientemente, poterono godere, approfittando del caos, della disorganizzazione, della fregola degli spingitori, di un consistente aiuto per superare a forza di braccia, una salita per molti troppo indigesta. Dietro ai due, terzo passò Poggiali, a 2’, con a ruota Uribezubia, mentre la pattuglia di Gimondi, comprendente il giovane Gianbattista Baronchelli, varcò la cima a 2’20” da Fuente.
I circa 10 chilometri di discesa, furono all’insegna della prudenza, più o meno di tutti, soprattutto di Merckx, che si ritrovò impossibilitato a cambiare quella bicicletta, che già in salita gli aveva dato non pochi grattacapi. Al  traguardo, il solitario Fuente, poté così prendersi una clamorosa rivincita sul belga e rafforzare il primato in classifica generale. Il distaccò del Cannibale fu di 1’05”, mentre terzo, a 1’44” dal vincitore, arrivò Enrico Paolini, che superò allo sprint un drappello di una quindicina di corridori. Le tante spinte, non produssero sanzioni importanti, a parte qualche ammonizione a figure di terzo piano e quella, incredibile, ma da regolamento, al dominatore Fuente, perché portava il numero dorsale in posizione non conforme. Su chi era stato indubbiamente avvantaggiato, nemmeno l’ombra di un richiamo. Sarà, ma pure queste note non certo gradevoli, cementarono il mito del Carpegna. Quegli aloni di fascino e leggenda che Marco Pantani, anni dopo, coi suoi allenamenti lassù, contribuì ad aumentare ancora in maniera esponenziale, nonostante l’assenza del Giro d’Italia  dal Cippo, per ben sette lustri.
Ordine d’arrivo:
1° Josè Manuel Fuente (Esp-Kas Kaskol) km 191 in 6h06’11” alla media di 31,296 kmh; 2° Eddy Merckx (Bel-Molteni) a 1’05”, 3° Enrico Paoloni (Scic) a 1’44”; 4° Roger De Vlaeminck (Bel-Brooklyn); 5° Marcello Bergamo (Filotex); 6° Felice Gimondi (Bianchi), 7° Roberto Poggiali (Filotex); 8° Franco Bitossi (Scic), 9° Hennie Kuiper (Ned-Rokado), 10° Wladimiro Panizza (Brooklyn)….

Sul vincitore, Josè Manuel Fuente.
[Immagine: josa_m10.jpg]

https://www.ilnuovociclismo.com/forum/Th...uel+Fuente


21 maggio 2008 – Giro d’Italia – Frazione Urbania-Cesena di 199 km
[Immagine: urbani10.jpg]
Il Giro tornò su Carpegna nel 2008, non con un arrivo di tappa, ma con un passaggio sul Cippo. Ciclismo diverso, molto diverso: meno campioni, praticamente nessuno, molta assistenza di vario genere sui singoli, meno spettacolo e, soprattutto, un pathos lontanissimo parente di quello di un tempo. Una crisi evidente, impossibile da nascondere, anche per il sempre fecondo mondo della stupidità. La  montagna del suo leggendario Marco Pantani, fu percorsa svariati minuti sopra le lancette del suo cantore in maglia Mercatone su bici Bianchi e minuti sullo stesso, quando questi  era un ragazzino juniores. Meglio non dire di quanto, altrimenti si finirebbe nel vedersi cadere le braccia. E nemmeno può valere la giustificazione di una giornata di maltempo: troppo il ritardo..
S’aggiunse poco al mito di questa salita. E quel poco, nel solo fatto di passarci, mostrando conseguentemente il valore positivo della constatazione, su quali nobili pagine insistano nel passato del ciclismo. Di quel pedale  professionistico che dovrebbe cambiare radicalmente, per trovare gli istmi d’una rinascita. Lo sanno tutti, ma non c’è movimento e a chi sta bene così, per insita miopia o travolgenti interessi, va benissimo, appunto, così.
Il giorno del quarto passaggio del Giro sul tempio di Carpegna, a farla da padrona, dopo la partenza da Urbania, fu una fuga scattata al chilometro 42, a 157 dal traguardo di Cesena. Una fuga di comprimari, di garibaldini forse più valorosi degli stessi capitani, ovvero Bertolini, Lastras, Dall'Antonia, Mangel e Veikkanen. Costoro, arrivarono in prossimità del Cippo con un vantaggio di quasi 9 minuti. Sulla cima a passare per primo fu Alessandro Bertolini, su Pablo Lastras e Tiziano Dall’Antonia, mentre dietro, si poté assistere al cosiddetto “forcing” del gruppo che, però, non arrivò mai, pure nel prosieguo di tappa, a dare la sensazione di poter ritornare sui fuggitivi. Lepri che andarono, pur con qualche defezione, al traguardi di Cesena. Qui, la beffa di una “s” d’anticipo sul proprio nome di Fortunato, piegò le velleità del corridore umbro Baliani, che scivolò su un sampietrino malmesso, lanciando così il pur veloce trentaseienne Bertolini, al suo primo successo di tappa al Giro.

Sul primo a Cippo Carpegna: Alessandro Bertolini
[Immagine: alessa10.jpg]

Nato a Rovereto (TN) il 27 luglio 1971. Passista veloce. Professionista dal 1993 al 2012 con 23 successi.. Un corridore che nelle categorie giovanili e fra i dilettanti in particolare, lasciava presagire quel grande futuro, poi raggiunto solo in parte minoritaria .Un uomo squadra, generoso ed altruista, probabilmente più forte di tanti capitani e pseudo-capitani, dei quali è stato spalla o vero e proprio gregario. Forse gli è mancata un po’ di cattiveria.
Iniziò fra i giovanissimi nel 1982, mostrando negli anni dell’apprendistato ciclistico, un crescendo costante e copioso. Da juniores fu terzo ai Mondiali del 1988. Da dilettante, fra il ’92 e ’93, fece incetta di classiche come il Palio del Reciotto, vinto due volte, l'Astico-Brenta e la Coppa Fiera di Mercatale. Nel ’92, conquistò il Titolo Tricolore e l’anno successivo finì 3°.
Esordì fra i professionisti a fine stagione ’93, alla Milano Torino, in seno alla Carrera Tassoni. La prima vittoria nel 1996, con la maglia della Brescialat, nella tappa di  Elgoibar alla Euskal Bizikleta. Negli anni successivi corse con la MG-Technogym, la Cofidis e la Mobilvetta, con cui si aggiudicò diverse corse: la più importante, fu sicuramente la Parigi Bruxelles nel ’97. Fece poi suoi, in maglia Alessio, il Giro del Piemonte nel 2003 ed il Giro della Privincia di Lucca, l’anno successivo. Passato nel 2005 alla Domina Vacanze, s’affermò nella Coppa Sabatini. Col 2006, si spostò alla Selle Italia-Diquigiovanni del manager Gianni Savio, con le cui squadre, consumò tutti gli ultimi anni di carriera. Ottimo il suo 2007, con sei successi, fra i quali il Giro dell’Appennino, la Coppa Placci, il Giro del Veneto e la Coppa Agostoni, nonché i trionfi nella Coppa Italia e nell'UCI Europe Tour. Vittorie, che gli fecero guadagnare, a 36 anni, la prima maglia azzurra professionistica, in occasione del Campionato Mondiale di Stoccarda, dove fu prezioso gregario di Paolo Bettini, che conquistò la sua seconda Maglia Iridata. Nel 2008, la consacrazione, col successo nella tappa di Cesena al Giro d'Italia e il bis al Giro dell'Appennino. Nel 2010, a quasi 40 anni, si tolse la soddisfazione di conquistare il Tricolore nella Corsa dietro derny.

Maurizio Ricci detto Morris
 
Rispondi


[+] A 3 utenti piace il post di Morris
#22
Echi di Enrique Omar SIVORI

[Immagine: JUVENTUS-OMAR-SIVORI-3.jpg?w=774&ssl=1]

………………Questi echi richiameranno l’attenzione del popolo juventino. Li scrivo da  
ammiratore profondo per il calciatore Sivori, per me il più grande giocatore bianconero della storia e colui che avrei voluto vedere nell’Inter e nel Racing (la mia squadra argentina), senza cambiare la sostanza delle cose, ma solo per un fatto di puerile simpatia. Perché è il campione che deve prendere il cuore del giudizio di chi, come me, ha fatto dello sport la sua vita. Le casacche sono sempre una forma di tifo, profondo, rissoso o leggero che sia. Il profeta no, egli non si cancella dal cuore della conoscenza e da quell’humus che circonda ogni singola opera d’arte. E’ l’uomo che attraverso questa via espressiva si testimonia e comunica. Ricondurlo ad una maglia, una squadra, dei colori, può significare disprezzarlo, se non si è in grado di dividerne le sostanze. La casacca resta e continua il suo corso verso una retta, mentre l’uomo campione-artista è sempre destinato ad un segmento. Ci sono altre variabili, in particolare quelle giornalistiche, che potranno legare il profeta a città e tifoseria, ma non le essenze del suo mito che resterà monumento ed ermeneutica per chi vorrà raccontarlo e presentarlo come proprio personale museo. Ecco perché l’emozione del racconto diviene solco interno e quel sontuoso dipinto che s’immortala, mi dona l’indelebile ed invisibile cornice, col nome di Enrique Omar Sivori.


Gli anni cinquanta stavano scemando, ed il bambino sottoscritto pigiava i pedalini del triciclo, spesso in mezzo al ghiaino, col pensiero fisso di fare il corridore. In casa mia si parlava tanto di ciclismo, di motori e automobili da corsa. Era una ruota continua, tant’è che nei miei primi rudimentali disegni, quasi imposti da mia sorella maestra elementare, uscivano degli extraterrestri con lontane sembianze umanoidi nel tronco e nelle braccia, ma al posto delle gambe c’eran sempre delle ruote. Sentivo menzionare nomi che ricordo tutti, ma di calciatori mai, anche se i miei “dadi”, fratello e sorella, già adulti, tifavano per il Bologna, a lungo l’unica squadra che conoscevo o potevo conoscere. Quando arrivò la Tv, avevo poco meno di otto anni, ma la mia minicultura ciclistica era straordinaria, al punto di fungere da richiamo al “distributore di benzina” (allora lo chiamavamo così) dei miei genitori, dove la gente si fermava per vedere le mie scorribande con la bicicletta e quei surplace che ero già capace di fare per almeno tre minuti. Indi come un’appendice conviviale, venivo tempestato di domande sui corridori, di cui già sapevo vita e miracoli e di lì i miei primi comizi che si concludevano con quei regali e quei dolciumi che mi facevano sentire fiero. Ero una piccola attrazione. In un tardo pomeriggio di un giorno d’estate, un signore, distinto e davvero signorile, dalla fronte spaziosa e dai capelli castano chiari ondulati che poi scoprii tanto somigliante ad Ugo Koblet, tolse da un borsone che teneva agganciato all’interno della pedana della sua enorme lambretta, un pallone tutto bianco e venne da me. “Tieni - mi disse con gli occhi che gli brillavano – questo è per te, piccolo fenomeno. Non ti ricorderai, ma io ero con quel gruppo di Milano che t’ha ascoltato domenica sera dopo che ci avevi stupito con quel surplace. Ti regalo questo pallone, non è di cuoio, ma di gomma pesante. Con quello puoi diventare un calciatore. Non c’è solo il ciclismo dove sei già un campioncino. Io sono dell’Inter e tu se sarai così bravo col pallone, come con la lingua e la bici, potrai diventare come Omar Sivori. Non gioca nella mia squadra, ma nella Juventus, però è davvero il calciatore più bravo”.
Quell’uomo, che non ho più rivisto, con quel regalo, cambiò la mia vita. Grazie a lui, avevo conosciuto altre due squadre da aggiungere al Bologna, ma, soprattutto, mi era entrata la voglia di conoscere quello sport. Iniziai a guardare assiduamente la Tv e conobbi finalmente chi era Omar Sivori. Ne fui folgorato. Ero un prodigio di velocità e memoria, e quando arrivai per la prima volta su un campo di calcio della campagna di quei tempi, praticamente della grandezza di un odierno di calcetto, mi sentivo già Sivori. Non avevo mai provato prima a giocare, ma trasmettevo istintivamente alle gambe quello che avevo visto in televisione. Cominciai a trattare il pallone col sinistro che non sentivo come il mio piede preferito, ma la trance di quel processo imitativo, me lo stava facendo dimenticare. Fu la fine. Il ciclismo agonistico era lontano anni, mentre il calcio, a qualche centinaio di metri da casa lo giocavano tutti. Divenni l’attrazione del campetto. Ogni incontro “uno contro uno” con relativo portiere per ciascuno, era per me un’occasione per vincere e sentirmi Enrique Omar Sivori. E dire che, come quasi tutti, parteggiavo per l’Inter, ma a differenza di tutti gli altri, io mi fissavo sul singolo giocatore e non sulla squadra. I giganti coi quali giocavo anche più grandi di me per anni e non solo per altezza, mi prendevano in giro perché il mio idolo era della Juve, ed io mi vendicavo irridendoli con tunnel e dribbling quando si giocava. Anche quando iniziai veramente col calcio ero un anarcoide con in testa Sivori, subivo decine di falli, ma per me un dribbling o un tunnel erano come un gol. Quando poi incontravo uno grande e grosso e non piccolino come me, lo facevo piangere, diventavo cattivo, irriverente, addirittura sadico. Fin quando ho giocato è sempre stato così. Il calcio non mi ha mai preso completamente, anche se ho avuto l’occasione di arrivare in alto, molto in alto, ma in me c’erano i cromosomi che non mi facevano amare la squadra, bensì il giocare prima di tutto per divertirmi e prendere in giro gli scarponi, ed allora era tantissimi, che usavano solo il fisico.
 
Anche in questo ero la microbica fotocopia di Sivori, un campione che ancor oggi negli angoli della memoria e nei dettagli del tempo, possiede sul mio interno ed intorno, un angolo luminoso. Per colpa sua e del suo sport, non sono diventato un ciclista, ed ho iniziato, paradossalmente, ad amare gli sport individuali. Per colpa della sua costante imitazione, sono diventato un polivalente che ha sempre cercato di prendersi il profondo degli sport che incontrava, cercando prima di tutto il talento. Mi sono divertito a giocare a calcio grazie al fatto che mi sentivo lui, altrimenti avrei trovato il football più noioso della mezza dozzina di altri sport che ho praticato agonisticamente o amatorialmente. Oggi, “vecchio”, lo devo ringraziare due volte, perché incantato da lui, ho trovato la via per scoprire il miglior modo di fare il dirigente e se ho vinto tanto lontano dal suo sport, è stato perché Omar mi ha involontariamente trasmesso il fiuto per scoprire le stimmate rare. Esattamente quei distinguo che oggi mi aprono la tastiera e che fino a ieri mi spingevano a portare giovani alla pratica e alla carriera nello sport.
Enrique Omar Sivori, era un artista come pochi, un indio allo stato puro che solo da anziano s’è adagiato un poco all’ipocrisia. Un campione vero, non come quei tanti che nel momento in cui li scopri oltre la corteccia, ti si sciolgono al punto di dimenticarli e di non aver la benché minima voglia di raccontarli. Il cuore mi dice che sopra Omar, solo Maradona e Di Stefano si sono eretti, mentre “caviglie di ricotta” Van Basten gli è giunto a spalla. Gli altri li vedo più lontani, compresi i super ruffiani Pelè e Platini. Quando poi scendo, incontrando il razionale, davanti a Sivori, oltre a Maradona e Di Stefano, ci sta solo e di un pelo …. il “lecchino brasilero” “O Rey” .......

[Immagine: Omar_Sivori%2C_Juventus_1961-62.jpg]

Caro Omar, t’ho voluto bene, ed ho sempre difeso la tua indole di ragazzaccio anarchico al credo delle perfezioni, perché ti vedevo vero come tutti i supremi del messaggio da leggere ed interpretare. Sì, proprio quei supremi dioscuri dell’arte fino alle viscere, che lasciano ai tanti miopi, lo spazio per criticarne le condotte, sol perché son troppo difficili da capire nell’intrinseco idioma.
Caro immenso “Cè” (“Io” in castigliano), è un fardello già capitato a tanti: a Marco e Diego su tutti. Con un groppo in gola, solo per ricordarti, lascio questi echi sopraggiunti come un’impalcatura di questi giorni di rimembranze……., dove, su di te ed altri, tracciavo sulla tastiera i miei ringraziamenti….

Ad Enrique Omar Sivori

Quel magico sinistro,
quei calzettoni arrotolati sulle scarpe
quasi a nasconderle,
quel senso del tocco
quei dipinti di trasparenza
che richiamavano fantasmi
ai piedoni che volevan colpirti.
Quel largo sorriso
che tentava invano
d’intenerire il volto indio,
quegli incisivi distanti
quasi volessero lasciare un segno alle prede.
Guerriero e artista
non conformista e amante verace della vita
sontuoso e virtuoso pittore
su un corpo richiamante mediocrità
che usavi per confondere
le tue carezze da killer
genesi d’amore e passione
pronte a prenderci fino alle lacrime.
L’estro in te siamese
che trasportava il nero della tua chioma
sugli sfondi d’una epopea che cerco
ma che non posso più trovare,
scolpiscono il tuo tratto
e s’elevano sull’aria come una brezza
che attenua il soffocante calore
d’un intorno appassito sul razionale
voluto da troppi satrapi.
Ed il tuo graffio risuona e traccia
s’eleva e intenerisce
come un assioma immortale
che applaude nel dolore
tunnel e dribbling
della tua nuova dimensione d’immenso.
Sei sempre tu, carissimo Omar.

Maurizio Ricci detto Morris
 
Rispondi


[+] A 4 utenti piace il post di Morris
#23
Raffaele Marcoli, veloce come il vento, buono come il pane.

[Immagine: s-l1600-6.jpg]

Nato a Turbigo (MI) il 27 marzo 1940, deceduto in un incidente automobilistico a Feriolo, il 29 agosto 1966.  Velocista, alto m. 1,70 per kg. 68. Professionista dal 1963 al 1966, con 7 vittorie.

Per chi come me ha vissuto da undicenne appassionato di sport la tragedia di Raffaele Marcoli, costui sarà sempre un indimenticabile, una leggenda le cui volate, erano rese fulgide dalla TV eccezionale del tempo, un corridore che senza volerlo e senza mai ricercarsi, sapeva fungere da esempio di una parte evidente del ciclismo. Uno che continua a vivere nelle menti di quei più vecchi, che sono i veri ed ancora numerosi appassionati del pedale, checché ne dicano i media odierni, che devono sempre vendere quello che non c’è e, se c’è, è spesso pesante in troppi pori. Ed uno che continua a vivere, perché seppe far intenerire il genio narrativo sempiterno di un recente compianto come Gianni Mura, e l’attualità di un ultra ottantenne olimpionico, amico e compaesano di Raffaele, come Tony Bailetti, capace di organizzare il cinquantennale della morte di Marcoli, come un Fellini dei ricordi e della riconoscenza e che continua ancora oggi ad animare in Turbigo il sodalizio ciclistico che porta il nome dello sfortunato campione. Ed è così, che il sottoscritto, scrivendo, si scioglie nelle immagini di quei rush composti e potenti, in quegli sprint lineari che facevano di Marcoli, un alfiere davvero peculiare della velocità. Senza treni e, mi si permetta, con l’arte unica del suo io ciclistico. Si diceva che era negato per le salite, ma le biciclette di allora, aldilà del peso ben superiore, non avevano quella gamma di rapporti da mountain bike che sono il corredo di oggi. E lui, il Raffaele, arrivò a finire i quattro Giri d’Italia a cui partecipò, senza mai sfiorare il tempo massimo, o a scegliere quei tattici ritiri che sono una delle tante vergogne del ciclismo odierno. Insomma, Marcoli non era il campione che poteva vincere i GT, ma era una luce di un tempo dove l’osservatorio e, soprattutto, chi dirigeva il ciclismo, erano ben più positivi. Raffaele era uno vero, corretto e chi lo narrava, lo dipingeva cordiale, onesto e buono. Abbastanza per definirlo una figura d’oro che, se non fosse intervenuto il destino, poteva completare con luminosità superiore il proprio tratto nello sport.
[Immagine: Marcoli-960x649.jpg]
Figlio d’arte, il padre, Felice, era stato un discreto dilettante, Raffaele non bruciò le tappe nelle sue prime esperienze ciclistiche. Il suo talento velocistico iniziò a lasciare chiari segni da allievo, ma fu alla S.C. Binda, fra i dilettanti, che emerse con compiutezza. Tante vittorie e poi, nel 1962, il passaggio alla S.C. Cogliati Manzoni, il definitivo lancio anche numerico, con ben 18 centri in stagione. Nelle decine di successi fra i “puri”, vanno citati il Gran Premio Coperte di Somma e la Coppa d’Inverno. Nel 1963 l’Avvocatt Eberardo Pavesi lo volle alla Legnano e lo fece subito esordire al Giro d’Italia. Qui, fu chiamato a difendersi, ed a crescere senza nessun aiuto e lui rispose bene, finì 9° nella tappa di Bari e finì il Giro a Milano, 85°. Fu poi 2° nella Milano-Vignola, 12° nel Trofeo Matteotti e 15° nella Tre Valli Varesine. Nel 1964, sempre con la maglia color verde oliva, accumulò piazzamenti tali da far capire che era un ragazzo destinato. Una sorta di vittoria giunse subito nella seconda tappa del Giro di Sardegna che si concludeva a Cagliari, perché a vincere fu l’amico Antonio Bailetti con un’azione solitario e lui, l’ormai divenuta “Freccia di Turbigo” vinse la volata per il secondo posto, davanti a nomi altisonanti come quelli di Carlesi, Vannitsen, Van Looy e Sorgeloos.  Il suo Giro d’Italia fu poi formidabile. Iniziò col 3° posto nella tappa di Parma, proseguì col 2° posto in quella di Verona, battuto dal solo Bariviera, che era allora uno dei migliori velocisti mondiali; fu di nuovo 3° a Marina di Ravenna, ma superò tutto il gruppo giunto a 5” dal vincitore Zoppas e dal belga Hoevenaers; vinse la frazione che si concludeva a San Benedetto del Tronto annichilendo Dino Zandegù; fu poi 6° a Castelgandolfo e 7° ad Alessandria. A Milano chiuse il Giro al 94° posto e vinse la Classifica dei Traguardi Tricolori. La stagione restante lo vide 5° al Trofeo Matteotti, 5° nella St Vincent-Meda, 5° nella Milano-Vignola e 12° nel Campionato Italiano.
Nel 1965 passò alla rientrante Maino diretta da un altro grande vecchio del ciclismo di quel periodo, Alfredo Sivocci. Non fu una scelta felicissima, perché il suo valore meritava maggiore assistenza anche perché il ciclismo di stava modificando. Fortunatamente in Maino trovò il grande amico Danilo Grassi, ex iridato della “100 Chilometri a Squadre”, che aveva i numeri del corridore di razza e che aveva sul passo doti primarie. Un valido punto d’appoggio, che meritava egli stesso un altro tipo di sodalizio. La crescita di risultanze e spessore di Marcoli si poté comunque assestare a dei bei livelli. La “Freccia di Turbigo” fu trionfante in due tappe del Giro d’Italia, a Siracusa e Biandronno, fu 7° a Brescia. Chiuse il Giro 66°. Vinse poi il GP di Scorzè, le Tipo-Pista di Varedo, Casale Monferrato e Broni, fu 3° a Triuggio e Groppello d’Adda, 5° nel GP Ceprano, 6° alla Milano-Vignola, 7° nel GP di Alghero, 9° nel Trofeo Cougnet e 10° nel GP di Prato, nel GP Camucia ed in quello di Montelupo.
[Immagine: 1965-giro-Marcoli-vince-in-volata-la-tap...60x705.jpg]
La stagione seguente lo vide passare ad un sodalizio destinato a fare storia, la Sanson che Vincenzo Giacotto aveva portato al ciclismo per sostituire la Carpano. Iniziò l’anno col 2° posto, dietro il solitario Van de Kerckhove, nella tappa di Alghero del “Sardegna” e proseguì col 10° nella Sassari Cagliari. Indi il 6° posto nel Campionato di Zurigo. Al Giro d’Italia vinse la Chianciano-Roma con una volata incredibile, su un drappello di sette uomini (a dimostrazione che sapeva anche andare in fuga), fu 10° nella frazione di Napoli, 8° in quella di Giulianova e 2° nella tappa di Cesenatico. Chiuse il Giro d’Italia al 56° posto. Dopo la Corsa Rosa fu 8° nel GP Desio e fece sua con un’altra imperiale volata la Coppa Bernocchi, davanti a Zandegù, Dancelli e Durante.  Qualche giorno dopo fu 5° nel GP Feg Robbiano.
Poi quella curva a Feriolo e il frontale con un camion. Tre vite perdute: la sua, quella della fidanzata che stava per diventare moglie, ed il fratello di costei. Una tragedia per le loro famiglie e per il ciclismo.    

Maurizio Ricci (Morris)
 
Rispondi


[+] A 2 utenti piace il post di Morris
#24
Ciao Maurizio, ho letto solo ora il ritratto di Sivori.

So che esula dal personaggio ma posso chiederti come mai questa avversione (so che non è il termine giusto visto che lo metti comunque altissimo in un'ipotetica classifica) per Pelé? Non la contesto (nei racconti di mio padre e mio nonno sono cresciuto con l'idea che il più forte brasiliano dell'epoca fosse Garrincha quindi non faccio testo :D ), è semplice curiosità per un'opinione che è sicuramente in contrasto con quella comune.

Grazie mille.
Luca
 
Rispondi


[+] A 1 utente piace il post di Paruzzo
#25
In attesa della valutazione di Morris, attingo ai miei vaghi ricordi. Credo che per Pelé conti molto l'enorme numero di reti segnate, insieme ad una sorta di valutazione diffusa, diventata quasi scontata se non obbligatoria, come il miglior calciatore di tutti i tempi. Nelle partite che ho visto, però, Pelé non mi ha mai impressionato del tutto. Forte, sì, grandissimo fiuto del gol, ma non un calciatore che cambiava le sorti di una squadra quanto altri. 
Garrincha era fortissimo, dribblatore spaventoso, lui sì una arma in più, dai vantaggi che creava sulla sua fascia nasceva molto di quel Brasile. 
I link a due classifiche del XX° secolo: IFFHS e World Soccer 

Gol e risultati contano molto, ovviamente, ma nei termini in cui un giocatore cambiava la forza di una squadra considero Cruijff forse migliore di Pelé, e Maradona sicuramente sopra tutti. Il miglior Diego era inarrivabile, a mio avviso bel oltre anche Messi e i vari Ronaldo o Ronaldinhi... 


Edit: nelle due classifiche linkate molte valutazioni grandemente discutibili, quando non stupefacenti. George Best viene citato molto in alto in entrambe (in una addirittura sopra Van Basten) ma era nella mia memoria solo un buon giocatore, inferiore a tantissimi altri. 
Incredibile che in entrambe non venga citato Ruud Krol, centromediano fantastico, sia in chiave difensiva che in termini di interdizione e impostazione del gioco. A volte Krol mi dava la sensazione che la sua squadra giocasse in 12! Dovendo scegliere il libero titolare tra lui e Beckembauer andrei dritto sull'olandese. Liedholm una volta mise Pruzzo a marcare Krol, spuntando molto la forza di quel Napoli. Ricordo una vignetta con le caricature di Falcao (  Wub  ), che palleggiava con un pallone invisibile, e Krol, che scrutava l'orizzonte. Il testo recitava: "Falcao è fortissimo, gioca anche senza palla... Ma Krol è ancora più forte, gioca anche senza squadra!". 
 
Rispondi


[+] A 2 utenti piace il post di OldGibi
#26
(02-03-2022, 04:51 PM)Paruzzo Ha scritto: Ciao Maurizio, ho letto solo ora il ritratto di Sivori.

So che esula dal personaggio ma posso chiederti come mai questa avversione (so che non è il termine giusto visto che lo metti comunque altissimo in un'ipotetica classifica) per Pelé? Non la contesto (nei racconti di mio padre e mio nonno sono cresciuto con l'idea che il più forte brasiliano dell'epoca fosse Garrincha quindi non faccio testo :D ), è semplice curiosità per un'opinione che è sicuramente in contrasto con quella comune.

Grazie mille.
Luca

Caro Luca, come credo di avere già scritto, sono molto “breriano” nei giudizi e nelle preferenze su quel calcio sudamericano che, comunque, metto marcatamente al primo posto nelle preferenze circa i maestri di questo sport (altro che inglesi!). In altre parole, come il grande Gianni, prima di arrivare all’incenso del Brasile, mi avvolgo con quello dell’Argentina e dell’Uruguay. Su questa graduatoria incidono preferenze simpatetiche, che richiamano cultura sportiva e non, antropologia, sociologia e, persino, quella politica che, in un continente così saccheggiato da nordamericani ed europei, ha comunque evidenziato sproporzioni spaventose, tanto d’accettazione quanto d’opposizione, fra i singoli popoli del Sudamerica. Ognuno di noi ha ovvie simpatie, che nascono sovente da processi di studio ed elevazione delle idee, che producono consci ed inconsci percorsi simpatetici, capaci di superare i confini stessi dell’oggetto da giudicare. Ebbene, per il sottoscritto, per il suo non conformismo, per la sua formazione di uomo di quella sinistra (che non c’è più), un paese come il Brasile, va annoverato fra i più retrogradi ed ignavi della storia. Sicuramente per il peso del suo numero di abitanti, per la di fatto incapacità di reagire, quello più adatto all’imperversare dello “spesso cancro” delle multinazionali, come testimonia appieno l’Amazzonia.

…......Ed una Coca Cola non poteva scegliere testimonial migliore di un Pelé, simbolo certo per grandi capacità, ma pure per il buon livello di costruzione di un mito, da far poggiare su un popolo che, non dimentichiamolo, ha registrato fino a non molto tempo fa, dei suicidi per la sconfitta nella finale della Rimet 1950, al Maracanà, ad opera dell’Uruguay…..
Uno, l’Edson Arantes, che s’è adeguato diventando l’uomo delle frasi scontate, conformiste e pertinenti ai vertici calcistici mondiali, che non avrebbe mai calciato negli stinchi di un Blatter, come invece fece qualcun altro….
Uno, il Pelè, a cui han scritto copioni, affinché nemmeno per incidente potesse aprire porte non funzionali al becero conformismo della FIFA.
Ecco perché il sottoscritto ha digitato “lecchino”…..(ma ci sarebbero anche altri esempi)

Solo ed esclusivamente sul calciatore….
Pelè ha fatto oltre mille gol, ma……più di mille in Brasile o col Brasile. Non ha mai accettato la sfida ed i calcioni del calcio d’Europa, come invece fecero diversi suoi compagni connazionali, bravi quasi quanto lui, come Didì (uscito ridimensionato dal Real Madrid) o il più distante Vavà (che ben si comportò all’Atletico Madrid). Ha sempre giocato in squadre fortissime, il Brasile e il Santos e, persino, per quel che poteva valere lo spessore del campionato nordamericano, i Cosmos.

Ha sempre potuto godere di una sorta di protezione fra gli arbitri, aspetto poco presente, ad esempio, “mano de dios a parte”, per quel Diego Maradona che, in Spagna, fu vittima di una frattura cercata, voluta e complottata, come l’ematocrito di Pantani a Campiglio. Da quell’infortunio alla caviglia sinistra, Diego ne uscì all’80% e nel seguito fece quel che sappiamo, con squadre ben lontane dalla forza di quelle di Pelè.  

Ciononostante, una delle più grosse buffonate o azioni mafiose della storia dello sport intero, portò Blatter e la sua cricca, a camuffare, di fatto ad invertire, l’esito della “votazione”, circa il calciatore del secolo, che aveva avuto un esito a grande maggioranza a favore di Maradona su Pelè.

Parlando con tanti personaggi del mondo dello sport, che ho incontrato “senza rete”, in Italia, in Spagna ed in piccola parte in Francia, ovviamente di una certa età, ben pochi han messo Pelè al pari di Diego, o di Di Stefano.

Caro Luca, hai menzionato Garrincha. Bene, nelle sue punte, Manè non è stato inferiore a nessuno. La sua finta, sempre quella, ha saputo mettere a sedere chiunque, ed aveva un tiro da lontano, molto forte e preciso, nonostante la pesantezza dei palloni del tempo e le sue gambe da invalido. Già, perché il buon Garrincha, aveva ricevuto dalla natura e dalla denutrizione infantile, perlomeno quanto la supposta poliomelite, dei cospicui difetti, come una spina dorsale deformata, uno sbilanciamento del bacino dovuto ai sei centimetri di differenza nella lunghezza delle gambe, un ginocchio affetto da valgismo e l’altro da varismo. In altre parole, un invalido, ed allora nel corredo chimico e di cosiddetto aiuto di uno sportivo, c’erano solo stimolanti, non quel GH e quegli steroidei che han costruito campioni, o quell’insieme di incidenze di carattere pepdico, che han inciso su quelle capacità di resistenza che hanno portato a raddoppiare i chilometri percorsi in una partita. Garrincha aveva la testa di un bambino dell’età delle elementari tenere e viveva in un ambiente di bufali ipocriti, che mal lo sopportavano, o lo dovevano sbranare come fosse cacciagione: Purtroppo non poteva che fare la fine che ha fatto. Ma è stato un grandissimo, uno straordinario davvero, non un Harlem Globe Trotter del calcio, come l’odierno Neymar. Per me, preferire Manè a Pelè, non è un errore grave.

Adesso, sulla via di una promessa che t'ho fatto, posto la prima puntata di Julio Cesar Abbadie, la seconda a giorni perché non posso fare diversamente….

Ciao!
 
Rispondi


[+] A 2 utenti piace il post di Morris
#27
Caro Hold, il tuo stupore su Ruud Krol è anche il mio. Nato come terzino eccelso (uno dei primi di sempre), è poi divenuto il più forte libero della storia. Il tutto senza cospargersi della fama di uno che poteva spazzare palla o gamba, come invece è capitato ad altri liberi di fama. Lui costruiva, c'era sempre e sapeva dare ai compagni una sicurezza unica. Sì meglio di Kaiser Franz. Di sicuro il più sottostimato della grande Olanda. 
Ciao!
 
Rispondi


[+] A 2 utenti piace il post di Morris
#28
Grazie mille per l'esaustiva risposta, anche io come detto in passato ho una predilezione calcistica per Argentina e Uruguay e in particolare per quest'ultimo.

Concordo su Krol (per quel che ho visto in quelle partite del passato che, purtroppo, non ho vissuto ma che ho recuperato negli anni).
 
Rispondi


[+] A 2 utenti piace il post di Paruzzo
#29
                                                            Julio Cesar Abbadie: “El Pardo”

    [Immagine: 251853139_10158515975838224_532514505944...e=6224C5E2]

Ci sono artisti dello sport che non ti nascono dentro, perché il nostro segmento di vita, non sempre si incastra con quelli di costoro. A rimediare ci pensa la sete di conoscenza che te li fa scoprire, al punto di scatenarti l’uso dei mezzi che l’unico vero progresso partorito dall’uomo, quello scientifico e tecnologico, ti mette a disposizione. Resta però, come sempre, il frutto del computer più maestoso che si chiama cervello umano, a donarti la parte migliore delle scoperte, perché non ci sono filmati e, tanto meno, statistiche, capaci di creare quell’humus emozionale e significativo, che solo il racconto sa trasmettere. Lo capissero tutti, avremmo un mondo migliore del penoso di oggi, checché ne dica qualche cosiddetto intellettuale.
Conobbi il calciatore Julio Cesar Abbadie leggendo i giornali, a metà degli anni sessanta, quando mi divoravo ogni pagina di Stadio e Gazzetta dello sport che mi capitavano a tiro, ed erano parecchie, per fortuna. Erano i suoi luminosi ed ultimi acuti di una carriera lunghissima che la ragione voleva già al crepuscolo da tempo. Eppure la Copa Libertadores e la ben più importante Coppa Intercontinentale, perlomeno per noi europei, lo elessero vecchietto dal cuore giovanissimo e confermarono la sua tangibilità di fuoriclasse. Da quei giorni non ho mai smesso di ricercare su di lui, come su tanti altri, del resto, scoprendo pian piano tasselli del suo mosaico di stella del calcio, da considerarsi, a tutti gli effetti, una delle più grandi ali destre di tutti i tempi. Soprattutto, prima dei filmati, hanno inciso su di me i ricordi dei tifosi genoani, ed in particolare la considerazione di un grande scrittore, potrei dire pure uno storico, anche se non ama definirsi tale, vale a dire un connazionale di Abbadie, Eduardo Galeano. A metà degli anni settanta, per un esame universitario, ebbi modo di leggere “Il saccheggio dell’America Latina”, scritto appunto dal grande Eduardo, un autore che mi colpì e che ebbi modo di conoscere ancor meglio dopo. Uno dei pochi intellettuali, così intenso ed onesto, da essere capace di esprimersi con compiutezza su quella che è una verità universale: lo sport è manifestazione d’arte, dove l’artista, quando s’esprime con luce, cancella ogni club di una disciplina di squadra e paese di provenienza. È stato un caposaldo che m’ha sempre animato sin da bambino e son ben lieto di aver scoperto, già anziano e con pagine alle spalle, che un grande come Galeano, la vede come me.
Un’evoluzione d’onestà e profondità la sua, espressa sulle prime pagine di “Splendori e miserie del gioco del calcio”, libro scritto dal limpido Eduardo nel 1997, ed edito in Italia da Sperling & Kupfer Editori, di cui riporto le prime righe.
                                [Immagine: f8ea25b75122ba06f149a5239ad8347c.jpg]
“Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Anche come tifoso lasciavo molto a desiderare. Juan Alberto Schiaffino e Julio César Abbadie giocavano nel Peñarol, la squadra nemica. Da buon tifoso del Nacional facevo tutto il possibile per riuscire a odiarli. Ma Pepe (Beppe) Schiaffino coi suoi passaggi magistrali orchestrava il gioco della squadra come se stesse osservando il campo dal punto più alto della torre dello stadio, ed el Pardo (il Bruno) Abbadie faceva scorrere la palla sulla linea bianca laterale e si lanciava con gli stivali delle sette leghe distendendosi senza sfiorare il pallone né toccare i propri avversari: e io non avevo altro rimedio che ammirarli, avevo addirittura voglia di applaudirli.
Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: "Una bella giocata, per l'amor di Dio. E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non mi importa un fico secco di quale sia il club o il paese che me lo offre”.     
                              [Immagine: 165552380-51879bb1-412c-4687-9556-39098a0e3007.jpg] 
Dunque “el Pardo” (il Bruno), Julio Cesar Abbadie, giunge su queste pagine col viatico maestoso di Galeano, affinché il sottoscritto non rafforzi l’opinione del grande scrittore uruguagio, ma sottolinei solamente, nel suo piccolo, una realtà sancita dalla storia del calcio.
El Pardo è stato un grande, che ha consumato il suo tratto artistico ed agonistico con la dignità dei poveri di un Paese povero, ma calcisticamente immenso. Uno che non ha mai cercato di evidenziarsi marcando l’accento sul sé, grazie agli incontri con chi scriveva quotidianamente sui media: preferiva il pubblico e quell’indole maestra che viene istintiva solo agli artisti veri, tanto nelle pagine fulgide, quanto nelle meno luminose. Onesto anche lì, come tutta la sua vita. E quando pochi anni fa, coi capelli non più pardi ma canuti, da indimenticabile alfiere, poté riabbracciare quella gente della Genova del Genoa, emozionandosi come un debuttante che scopre di essere qualcuno, ancora una volta ci lanciò un’aurora di verità, un segno di grandezza. Chi scrive, vide quelle immagini e la sfilata di Abbadie allo Stadio Marassi, da un video in una residenza a seicento chilometri di distanza dal luogo. Ancora una volta capì, che non sono freddi i riporti, se dentro al cuore c’è il caldo della riconoscenza e quel messaggio che il perfido uomo mai potrà sopprime: la tentacolare immensità dell’artista. Sempre.
Mai ho tifato per il Genoa e mai ho vissuto a Genova, ma ”El Pardo”, che dei grifoni è stato probabilmente  il più grande, è un patrimonio anche mio, come di tutti coloro che, senza azzerarsi nel tifo, amano il calcio.  .  

Maurizio Ricci detto Morris
 
Rispondi


[+] A 3 utenti piace il post di Morris
#30
Ho avuto la fortuna di essere allo stadio quel giorno e fu uno dei momenti più emozionanti della mia vita da tifoso (anche perché purtroppo dal punto di vista calcistico la mia squadra non mi ha mai offerto nulla per cui gioire). La cosa bella fu di vedere tantissima gente come me, che Abbadie non lo aveva mai visto giocare, spellarsi le mani per quel signore con sciarpa rossoblù.

Forse proprio per le soddisfazioni nulle che ci ha dato la nostra squadra siamo legatissimi al nostro lontano passato.
 
Rispondi


[+] A 1 utente piace il post di Paruzzo
#31
Sempre sul calcio.....

Il mio undici storico da tifoso (Inter - Racing Club – Argentina):
Julio Cesar, Zanetti, Facchetti, Cambiasso, Guarneri, Samuel, Jair, Maschio, Ronaldo, Maradona, Sivori.

Il mio undici storico per fascino (escludendo i tifati):
Mazurkiewicz, Cafù, Maldini, Varela, Hulshoff, Krol, Abbadie, Schiaffino, Van Basten, Pelè, Cruyff.

Il mio undici più forte di sempre:
Buffon, Cafù, Maldini, Zanetti, Samuel, Krol, Garrincha, Schiaffino, Di Stefano, Maradona, Eusebio.

Non ho messo Messi e CR7, come del resto altri che potrebbero stare fra i primi undici di sempre, perchè avevano davanti, per me, dei pari ruolo più bravi e, magari, funzionali ad un gioco non figlio delle alchimie. Sono un non conformista distantissimo dalle logiche che imperversano lo spesso ipocrita, falso e mefitico mondo giornalistico, che pare abbia l'obbligo di alterare le essenze, omettendo e depistando. Messi sta a distanza da Maradona e Di Stefano e CR7 da Eusebio. Aspetti trattati "senza rete e dietro le quinte" in una vita nello sport che mi rendono fiero d'esserci stato.
 
Rispondi


[+] A 3 utenti piace il post di Morris
#32
.......da "ARCADIA"
Poesie liriche e testi di genesi sportiva

...di prossima pubblicazione

[Immagine: MFdSantos-Garrincha.jpg]


GARRINCHA

Quando nacque Manuel
i rozzi contenitori
della pigiata linfa del padre
s’unirono a chi si sfamava di sole
per lasciarlo senza agnomen
come un errabondo in cerca d’autore.

La polvere che faceva latte di miseria
gli portò il dono d’una temuta malattia
che gli lasciò le gambe come due virgole parallele
e lui l’affrontò armato dell’ancestrale richiamo
di chi, leggero, cerca nel volo
un condensato d’orizzonti.

Trovò l’agnomen mai nato
cacciando infante col fucile della precoce abilità
gli svolazzanti garrincha dei suoi cieli
ed incontrò la familiarità della cachaca
allucinogena ed antropologica cura
per allontanare gli artigli dei mali

Sconosciuto all’intorno
ancor prima della scuola e del pallone di stracci
conobbe col fumo dei sigari di paglia
un altro albero d’illusioni
portando ignaro la sua sfigurata zattera
sulle spiagge dell’isola della diversità.

Presente ed assente nei cammini
senza mai cercarsi come mestiere e copioni
finì per dischiudersi pittore col pennello a sfera
ipnotizzando le cornici d’assiepati spettatori
ammaliando i propri pochi temi
coi colori dell’intera Terra.

Sulle tele di quei campi
che l’han reso calciatore estroso ed unico
continuò ad eleggersi epicureo
e le sue finte sempre quelle
divennero i miraggi degli avversari:
era l’imprendibile Mané, il Garrincha.

Le sue mostre radunavano il mondo
ma lui non poteva vederle come gli altri
e da eletto seguace d’Epicuro
continuò sulle vie quotidiane con le tante compagne
moltiplicando gli echi di incontri e convivenze
con tanti eredi a volte nemmeno conosciuti.

Nei vizi e nei difetti
che gli umani sunti stendon a schemi da evitare
nell’istinto naif mai abbandonato
nell’esser nato segnato come raro
andò a rotolare per gli altri
là dove era venuto.

Lui però non era mai partito
quel che si vedeva erano le corde d’un violino
a cui tanti troppi han posto l’archetto
ed anche quando quei fili s’eran sfibrati
lui continuò a volare nel cielo d’origine:
s’era solo intristito nel vento del tempo.

Arrivò ignoto ma divenne Garrincha
morì veloce come il segmento d’un garrincha
abbastanza per farci la finta che ci ha ipnotizzato
mentre lui perseverando sulla stessa
continuava a dipingere le illusioni
come l’agrodolce d’ogni vita.


Maurizio Ricci detto Morris
 
Rispondi


[+] A 1 utente piace il post di Morris
#33
Oggi, questo corridore a me caro, perché era uno dei grandi quando iniziai a giocare a “quarcì” (tappetti) scolpendo ulteriormente la passione per lo sport della bicicletta, avrebbe compiuto 101 anni.
Oggi, di fronte a lui che vedo monumento, mi sono sentito ancor più vecchio ed ancor più arrabbiato per come han ridotto questa disciplina sportiva, così a lungo detentrice di immensi valori.
Oggi, avrei potuto inserire il suo lungo ritratto nella rubrica dei nati nell’odierna data, ma non l’ho fatto per motivi che preferisco omettere. Per ora.
Voglio però lasciare qui una …….”chiamiamola dedica” a lui scritta la mattina del 14 aprile 2014…. affinché si pensi a questa splendida figura divenuta simbolo dei milioni di italiani emigrati, proprio come un graffito che ci deve far riflettere aldilà dei confini dello sport.
Lui, il caro Pino Cerami, un campione di ciclismo e sunto di storia.

[Immagine: screenshot-33.png?w=640]
A Pino

Là, dai piedi d’un vulcano
con uno zaino di stracci e ricordi
come un penate immortale
divenuto lanterna,
dal caldo arido al freddo piovoso
come una rivoluzione sulla cresta del pane
come l’incenso ignaro che scorre
e s’incontra senza sapere
con la fatica e il sudore.
Là, dai ciottoli di sasso scuro
come viottoli di vita
su una bicicletta ardore
che intenerisce la fame
mentre Claire accarezza il cuore
con Annie e Corinne
che intonano candore
e dipingono la casa
d’un fieno di splendore.
Là, ove i bianchi capelli
ornanti tempie radiose
annunciano l’aurora di gloria
giunta copiosa per meriti e virtù
per spessore e tempra
affinché figlie, fratelli e nipoti
possan dire perenni
che Pino era un Campione
di sport e di vita.

Morris 12 aprile 2014
 
Rispondi


[+] A 4 utenti piace il post di Morris
  


Vai al forum:


Utente(i) che stanno guardando questa discussione: 1 Ospite(i)