26-01-2022, 07:01 PM
![[Immagine: Rafer_Johnson_1960c_%28cropped%29.jpg]](https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/04/Rafer_Johnson_1960c_%28cropped%29.jpg)
RAFER JOHNSON
Caleidoscopio d’atletica
Atleta monumentale, troppo sconosciuto, dimenticato o riconosciuto solo come l’attore che poi è diventato dopo la carriera sportiva. Rafer, fin dai teneri anni della High School, apparve come un predestinato, un talento mostruoso per le possibili risposte polidisciplinari.
Poteva essere un big nel football, nel baseball, nel basket: ove si cimentava vinceva, o mostrava qualità uniche. Ma quando vide Robert Mathias, due volte campione Campione Olimpico di decathlon, allenarsi assieme ai migliori americani, nel campo d’atletica della sua scuola, avvicinò il suo allenatore e gli disse: “Potrei battere quasi tutti quei tipi, anche se non ho mai gareggiato in atletica. Voglio provare”. Di lì, si sviluppò un’avventura entusiasmante.
Nel 1954, entrato all’UCLA, non perse una gara e fu autore di un crescendo che lo portò a battere il primato mondiale juniores della specialità. Nel 1955, era già il più forte decatleta degli States e, a Città del Messico, vinse i Giochi Panamericani. Chi lo vedeva non tardava a giudicarlo imbattibile, soprattutto in considerazione delle sue incredibili capacità agonistiche. Deciso a vincere i Giochi di Melbourne, seppe avvicinarsi come meglio non si poteva all’evento, trionfando ovunque gareggiasse. A Kingsburg, stabilì il nuovo primato mondiale della specialità amata e ai Trials vinse pure la gara del salto in lungo. Ma alle Olimpiadi un infortunio rimediato proprio nel primo salto del “lungo”, gli impedì di giocarsi al meglio le possibilità nel decathlon. L’allenatore capo della squadra americana, vedendo la brutta ferita di Rafer, disse: “Solo un pazzo può gareggiare nel decatlon in simili condizioni, ma Johnson, non è uno normale”.
Infatti, quel giovane così particolare, gareggiò, eccome se gareggiò! Non vinse, ma rimediò un argento che aveva il sapore dell’oro, ma pure della beffa, perché pur fra mille motivi di giustificazione, quella sconfitta resterà l’unica della sua carriera e si concretizzò per opera del connazionale Milt Campbell, uno che Rafer batteva sempre con disarmante facilità.
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Nel 1957, Johnson, a causa di un infortunio non gareggiò mai sul decathlon, ma nel 1958, andò a Mosca, a raccogliere la sfida del russo Vasily Kuznetsov, il bronzo di Melbourne che, nel frattempo, si era preso il suo record mondiale. Il 16 e 17 maggio, lo stadio della città moscovita, conobbe un ufo: Rafer Johnson, perfetto ed incattivito per le avverse condizioni che gli avevano tolto un oro olimpico ed un anno di attività, distanziò Kuznetsov di quattrocento punti e migliorò il record del mondo di trecento. Era lui il re e tale voleva rimanere, ma l’anno successivo gli giocò un altro brutto scherzo, materializzatosi in uno spaventoso incidente stradale. Uscì dalle lamiere della sua auto rotto e con la convinzione dell’osservatorio, di non poterlo vedere nel ’60, a Roma, a prendersi l’oro olimpico sfumato a Melbourne. Ma erano, appunto, le convinzioni degli altri, perché lui, Rafer Johnson, texano d’origine, californiano di residenza e di portamento, era come il ferro e si saldava col calore.
Infatti, contro ogni pronostico, riuscì a bruciare le tappe del recupero e l’8 e 9 luglio 1960, in quel di Eugene, nell’Oregon, vinse i Trials e stabilì nuovamente il record del mondo: un primato che per la miseria di 55 punti il solito russo Kuznetsov gli aveva portato via l’anno prima. Johnson, scacciò gli occhi delle ferite, delle fratture e delle ammaccature dell’incidente, distanziando nuovamente il russo, stavolta di trecentocinquanta punti: poteva andare a Roma da favorito, come era accaduto alla vigilia di Melbourne. Nello Stadio Olimpico della città che resterà eternamente, nonostante le balzane visioni di molti italiani, come la più fascinosa del mondo, Rafer, doveva raccogliere la sfida dell’ormai ipersolito Kuznetsov e di un compagno di allenamento dagli occhi a mandorla, anch’egli seguito dal grande coach Elvin “Ducky” Drake, venuto a studiare negli States da Taiwan, Chuan-Kwang Yang. Era proprio questo suo amico il più pericoloso, perché ben consapevole di quanto, sotto la scorza del duro, Johnson nascondesse un cuore grande. L’amicizia verso il principale avversario e la foga di dover vincere un Oro sfortunatamente sfuggito quattro anni prima, non deviarono però la concentrazione di Rafer, che svolse una gara senza cercare acuti, ma solo per vincere e cementare definitivamente il suo nome nella storia dell’atletica leggera: divenne così, finalmente, Campione Olimpico. Alla fine, il podio dei Giochi (con un Johnson rimasto in sicurezza quasi trecento punti sotto il proprio primato mondiale), lo vide primo con 8392 punti, secondo Yang con 8334 e terzo Kuznetsov, con 7809.
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Come aveva anticipato agli amici, con l’Oro di Roma, Rafer, abban-donò l’atletica e si diede al cinema. Ma il set, non era tutto per lui e Robert Kennedy che, per chi scrive, rappresenta il più avanzato statista statunitense degli ultimi sessanta anni, lo portò all’impegno attivo in politica. Quando Bobby fu assassinato, Rafer era presente, e fu proprio lui che stese sul pavimento, salvandolo dal linciaggio, l’autore materiale del delitto, Sirhan Sirhan. La morte di Robert, lasciò una profonda ferita in Johnson e lo spinse a mantenere il suo impegno sociale in direzione dei più deboli, soprattutto di pelle nera come lui. Nel 1984, in occasione dei Giochi di Los Angeles, fu il primo atleta di colore, ad essere scelto per accendere la fiamma olimpica.
Rafer Johnson, morto ad 86 anni agli inizi di dicembre 2020, per chi scrive, rappresenta un riferimento ben posizionato, nella soggettiva graduatoria dei più grandi atleti del secolo scorso.
Maurizio Ricci detto Morris