18-05-2021, 05:18 PM
Felix Levitan, un incenso del ciclismo.
(Articolo scritto il 18 febbraio 2007, giorno della scomparsa dell’ex patron del Tour de France)
E’ un brutto giorno per il pedale. Bruttissimo se si hanno occhi che non si fermano al risaputo.
Con Levitan, se ne va l’ultimo mohicano di un ciclismo che non c’è più e che è difficile riconsiderare possibile, per l’imbarbarimento reale dei tempi e, soprattutto, per l’infima caratura degli uomini che oggi lo dirigono, in un summa di sottovalenze che non distinguono più ruoli, bensì
unici ed orizzontali appoggi all’interesse, al poltroncina, alla cultura della deficienza.
Felix, era un uomo che s’era fatto un retroterra di sapere, eleggendo, su ciò che osservava, il miglior libro possibile, direttamente sulla strada della vita. Un tempo, i giornalisti nascevano così. Si sceglievano in base a come riuscivano e scrivere, sul talento che possedevano fin dalle scuole più tenere e poi li si mandava direttamente sulle notizie, affinché raccontassero il visto, costruendo coi lettori, la chiave per vivere tanto gli effetti dei fatti, quanto la cultura della comprensione e delle siamesi domande. Erano uomini che divenivano intellettuali, spesso senza titoli scolastici di peso, capaci di imparare il linguaggio vero della comunicazione e del trasporto che viene dalla conoscenza. Ed erano bravi a scrivere, soprattutto.
Di quei credi-crogiolo, il giovane Levitan era dotato fino alle viscere. Da assistente di stampa ai telefoni, riuscì a divenire giornalista professionista a meno di vent’anni. Negli anni trenta, imparò a concepire lo sport come una via culturale originale e del ciclismo, che ancor levava scudi all’uscita dal pionierismo, intinse se stesso, fino a determinarlo come una lezione di vita, proprio per la sofferenza che l’eleggeva.
Quando, nell’agosto del 1944, nacque il “Parisien Libéré”, ne divenne da subito una delle penne di riferimento. Gli anni della rinascita e della crescita del Tour de France, all’indomani del conflitto, sublimarono in Felix un singolare pragmatismo nel vivere il messaggio e le valenze di quella corsa come summa del ciclismo, delle sue peculiarità e del bisogno di mantenere la disciplina del pedale, negli anni, come un prezioso monito di fronte a quei cambiamenti in avanti che, per essere tali, dovevano non dimenticare il passato e la sempre presente ignoranza umana.
Quel ciclismo doveva scorrere come un patrimonio pur proponendosi su strade diverse, di fronte ad abbigliamenti cambiati nel pubblico intorno alle strade e con auto sempre meno rare, al cospetto di sogni più concilianti verso la prospettiva reale di un’evasione e con lettori sempre amanti delle valenze particolari, così vicine al mito di quegli uomini in bicicletta.
Felix, capiva come nessuno che l’organizzazione sempre più imponente di quella manifestazione, non doveva disperdere i valori di quello sport divenuto, per lui, un modo stesso di testimoniarsi giornalista, ma pure uomo con una sua cultura densa di idealità. La sua penna e quelle innate capacità di organizzare un’idea, o il suo personale istmo verso quel futuro che ben conosceva il passato, lo elessero al ruolo, nel 1962, di Redattore Capo del “Parisien Libéré”, nonché la firma più illustre di quelle pagine.
In quel medesimo anno cardine, fu incaricato al compito di assistente di Jacques Goddet all’organizzazione del Tour de France. Ben presto, aldilà degli incarichi paritari su carta, Felix Levitan, divenne il vero patron della Grande Boucle, perlomeno colui al quale spettava l’ultima parola. Furono anni di grande valore per la manifestazione.
Goddet, era l’intellettuale, il romantico, l’uomo che aveva rimodellato il Tour, l’amico dei corridori, da loro visto col rispetto particolare che si deve ad un padre, mentre a Felix, pur essendo molto simile al collega, perlomeno assai di più di quanto non sia stato detto e scritto, spettava il ruolo alter, di pragmatico, di concreto oltre il limite e con la spesso sottile impopolarità che si unisce a chi deve dire ufficialmente di “no”. I corridori lo temevano, ma a quei tempi non sapevano, o non erano in condizione di capire, quanto fosse a loro vicino.
Levitan, della Grande Boucle difendeva, e per questo s’è battuto fino all’ultimo, il suo valore sportivo: da buon francese la vedeva come somma, ma non dimenticava gli altri contesti; semplicemente sosteneva la sua creatura come un dono, sempre e comunque circoscritta a quell’aspetto d’elezione che era, per lui, la disciplina del pedale, monarca della sofferenza e degli insegnamenti di vita.
L’impronta lasciata dal duo e di Levitan in particolare, ovvero da colui che l’ambiente riconosceva come il vero faro del Tour, visti i tempi odierni, fa piangere per il rimpianto.
La prova di quanto sostengo, nata dalle letture e dei tanti colloqui intercorsi in questi anni con chi ha comunque avuto occasione di conoscere Felix non solo nelle vesti di corridore, questo peculiare nocchiero la diede nell’inverno ’86-’87, quando capì bene che razza di aria nuova spirasse attorno al pedale.
Da una parte Verbruggen, del quale condivideva poco per non dire nulla, che vedeva troppo protagonista e poco incline ai valori dello sport per quella sua voglia di giungere alla monetizzazione più piena del ciclismo, attraverso la mondializzazione costi quel che costi e, dall’altra, il crescente interesse dell’organizzazione del Tour, sulle linee dell’immagine e del business. Non erano più tempi per letture sportive e per le difese dei valori di quel ciclismo al quale aveva dato una vita. Levitan, fu così sostituito al vertice della Grande Boucle, ma in realtà fu un suo abbandono. Venti anni fa, questo uomo antico, magari dipinto nelle punte d’eccesso d’un ruolo, aveva capito tutto.
Oggi, come tutti i rapporti che si basano sul solo danaro e sulla volontà dei singoli figuri di giungere all’appagamento, Verbruggen, attraverso la controfigura McQuaid e Leblanc, con la fotocopia Prodhomme, sono in guerra, ognuno pieno di scheletri nell’armadio di cui molti in comune e col medesimo agnello da immolare: il ciclismo nella sua essenza principale, ovvero nei corridori. Il contorno a questi tristi fiumiciattoli di sporco, ci porta una lunga striscia di catrame volgarmente speso o dipinto per gli ancora troppi beccaccini, per ciò che non sarà mai: che si chiamino Bruyneel, Lefevere, Zomegnan, o Concimati ecc, giunge la consapevolezza che un Levitan, in tempi degni di sport, se li sarebbe mangiati come panini imbottiti.
A non capirlo, proprio quei corridori che paiono non sapere né leggere e né scrivere, nonostante provengano da banchi scolastici più nobili e non siano più quelli che, a domanda, s’affrettavano a rispondere: “Ciao mama, son contento d’essere arrivato uno!”
E dire che Felix Levitan, che l’osservatorio magari dipingeva per burbero e sempre incline a far soffrire i corridori su una bicicletta, in realtà li difendeva e li rendeva dignitosi eroi del proprio illuminato immaginario, perché la dignità non si compra col danaro, ma con l’essenza dell’essere. Con lui, non ci stavano sponsor a correggere i tiri o a trasformare le quotidianità in metafisica: c’erano solo uomini su un mezzo di sofferenza, da eleggere nelle graduatorie, ma da rispettare su qualsiasi risultato.
Uomini da difendere di fronte all’indignazione dei fessi, incapaci di percepire le pagine dello sport, o prodighi di quelle frecce e di quelle gogne che non fan parte del pianeta delle fatiche.
Per parare queste spinte, Felix poteva accettare la decisione di un Goddet di espellere un Taccone che aveva fatto a pompate con Manzaneque, più per rispetto verso il collega, che per reale convinzione: in fondo, il litigio in quel coacervo di difficoltà, poteva anche essere più veniale di quanto non apparisse, come un codice d’onore, da legarsi ai contesti di quel cammino. Ed era per lo stesso motivo che trovò istantanea forza nell’intervenire in una notte di tanti anni dopo, su un nobile nome della bicicletta, affinché la decenza di ciò che quel cervello rarefatto dalle gambe virtuose e rappresentative, non mandasse a quel paese se stesso e, con lui, tutto l’ambiente e la medesima nazione.
Felix Levitan al centro fra Edith Piaf e Marcel Cerdan
Decideva per il meglio, Levitan, con decoro, senza darsi in pasto a quei colleghi che aveva già percepito come pericolose casse di risonanza dell’effetto, ignari direttamente o indirettamente, del degno o dell’indegno dell’essenza.
Con Felix non avremmo visto vergognose esclusioni prima della consumazione dell’evento e non avrebbe mai accettato il ricatto d’un insieme che, dall’organizzazione intera del ciclismo, voleva spingere la sua, per una mera questione di quattrini, alla tutela del “Toro Moreno” costruito a nacchera di mito, impedendo il giusto guanto di sfida di un sontuoso talento antico, troppo grande per non apparire anarchico sulla bicicletta.
Vent’anni fa, questo omino che ha spento i suoi occhi terreni su una delle più belle zone della Francia, aveva capito quel crescendo divenuto così mostruoso negli ultimi otto anni.
Lui, Levitan, è sempre stato coerente con lo sport, anche quando a vincere non erano i galletti di Francia. Voleva le sfide dei migliori, presentando tracciati in linea col mito e la storia della creatura che presiedeva. Era un grande e lascia col suo ricordo un groppo in gola.
Caro Felix, nel pomeriggio del 21 agosto ’96, rimasi per un’ora a Le Cannet, con l’intento di deviare il mio itinerario verso la vicinissima Cannes, per venirti a trovare e, magari, grazie ad un amico bilingue, riuscire a carpire qualche perla dalla tua voce. L’avrei fatto per ereditare un patrimonio. Poi, un acquazzone che pareva infinito, mi riportò sulla rotta di Vence e là, su quei colli densi di vegetazione, mentre faticavo ad accettare quella situazione e quell’alloggio, ti pensai fortemente come un’occasione perduta.
Negli altri dieci anni ad oggi, mai ho avuto la possibilità di rincontrarti. Ora sono qui, a dirti che se ho amato il ciclismo, un po’ lo devo anche a te e, visto che non te lo dice nessuno, ti ringrazio a nome di tutti quelli che han potuto vedere, per aver saputo rendere possibili pagine di un pedale che non ci sarà mai più.
Ti sia lieve la terra caro Felix. Ma prima di mettere il punto voglio ricordare che Levitan è stato anche questo:
Fondatore dell'Unione sindacale dei giornalisti sportivi della Francia, nella quale fu Presidente dal 1957 al 1965; Presidente dell’AIOCC (Associazione Internazionale degli Organizzatori di Corse Ciclistiche) per oltre tre lustri; Presidente dell’AIPS (Associazione Internazionale dei giornalisti sportivi) dal 1964 al ’73. In Francia, fu il creatore dell’Associazione del “Amici del Tour de France”, nonché Membro dell’Accademia Francese degli Sport dal 1957.
Maurizio Ricci detto Morris