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Sport: Sul Viale dei Graffiti
#18
  ROBERTO "Manos de piedras" DURAN
[Immagine: roberto-duran.jpg]
Un pugile che tanto mi è piaciuto e che ha, come tanti, purtroppo, portato la sua stanca figura sul ring, oltre i limiti del tempo della ragione e della competitività. Uno che ha continuato a combattere er allontanare e vincere, quei fantasmi che vedeva attorno a lui da quando era bambino. Un ragazzino che non s’è potuto invecchiare, perché la vita gli ha donato la povertà e per sconfiggerla è diventato uomo, quando altrove si giocava con le automobiline o la palla. Un uomo forte, con un pugno, il destro, in grado di stendere un bue, a dispetto della piccola statura e del peso non certo di nota. Stamina e volontà, coraggio, e la cattiveria che serve per dimenticare. Valori chiari e pochi, perché il tempo e le rincorse non davano occasioni. 
Lo chiamavano, ed ancor lo chiamano, “Manos de piedras”, un nomignolo terribile, come terribile era il suo ghigno quando avanti a lui c’era un pugile, figlio di quel potere che, a suo modo, ha sempre combattuto. 
Eccolo qua, Roberto Carlos Duran, nato a Chorillo alla periferia di Panama il 16 giugno 1951. Secondo di nove figli di una famiglia poverissima, di cui divenne, ben presto, l’unico sostegno. 
“Non racconterò mai cosa ho dovuto fare per vivere da piccolo e per portare soldi alla mia mamma. E’ un ricordo atroce e umiliante che non si distacca da quello che sentite di brutto nel mondo e che coinvolge i bambini. Il pugilato è stata la mia rivincita con la vita, l’unico modo per risorgere da quelle umiliazioni”. 
Con questa frase, solo questa e niente altro, Roberto Duran “Manos de piedras”, il più grande peso leggero della storia della boxe, si raccontò una sera ad un amico comune. In lui, gli occhi nerissimi, brillavano di una luce mista, fra odio e soddisfazione. Mentre scandiva quelle poche parole, il suo sguardo mostrava il ghigno, tanto simile ai disegni su Attila, il re degli Unni. Nemmeno il pizzetto leggero e la barba curata, come a dire che il suo volto nonostante il pugilato ha sempre mantenuto i suoi tratti di stereotipo di indio, potevano renderlo più dolce. 
[Immagine: roberto_duran.jpg]
Roberto era lì, coi suoi silenzi più espressivi di mille parole, coi suoi sguardi che tanto hanno stuzzicato le paure di decine di avversari, prima ancora della sua terribile “mano di pietra”. Era lì, e diceva quanto e come la boxe sia spesso un termometro di vita, un segno della sofferenza della maggioranza delle persone di questo mondo, abituate a combattere per non morire subito. A suo modo pure un grande oratore, certo senza l’esecuzione di sillabe, vocali e consonanti, ma col geroglifico delle sue espressioni nel volto e nell’intensità del ghiaccio dei suoi occhi. Un figlio di Satana spiritato e criminale? Niente di tutto questo, solo un pugile segnato da quella vita in cui, le botte degli avversari, non sono state nulla al cospetto della sua stessa origine. 
Roberto Duran iniziò a boxare all’età di quattordici anni. Da dilettante vinse 13 dei sedici incontri disputati senza mai andare al tappeto. Le tre sconfitte furono dovute essenzialmente alla sua boxe ben poco dilettantistica, già adatta al combattimento da “prof”. 

Al professionismo passò l’otto marzo 1967, quando ancora non aveva compiuto i sedici anni. Fino ai vent’anni, Duran, combatté sempre a Panama e in Messico, senza perdere un incontro e spedendo praticamente sempre gli avversari a gambe levate. Si creò la fama di picchiatore e gli organizzatori del Madison Square Garden di New York, in quanto peso leggero, lo chiamarono al debutto negli States il 13 settembre 1971, come contorno al mondiale della categoria. La cintura, in quell’occasione, vedeva di fronte Buchanan e Laguna. Il suo avversario, Benny Huertas, finì KO in 66 secondi dal suono della campana. Fu un’esecuzione terribile, anche perché Huertas godeva di buona fama. Gli attenti occhi del Madison capirono che, da Panama, era arrivato un fenomeno. 
Ray Arcel, un vecchio allenatore di 72 anni, ritornò in attività pur di allenarlo e di lì a poco, il 26 giugno 1972, Roberto Duran ebbe la possibilità di combattere per il titolo mondiale WBA contro lo stesso Ken Buchanan. 
Vinse il titolo con un combattimento che era il sunto del suo modo di boxare, insofferente alle regole e ai limiti, sempre all’attacco. Duran stese il grande pugile scozzese alla tredicesima ripresa, colpendolo con un terrificante destro che gli valse l’immortale appellativo di “Manos de piedras”. Conservò il titolo per più di sei anni e difese la cintura tredici volte, fino a riunificarlo per tutte le sigle. Tredici incontri tutti vinti prima del limite, salvo quello con Edwin Viruet, un pugile che seppe resistergli anche in futuro ai limiti dei welter. 
[Immagine: roberto-duran-un-pugile-dalle-mani-di-pi...C912w.jpeg]
Sei anni in cui la grandezza di Duran si vide tutta, in particolare al cospetto di Esteban De Jesus, un portoricano da considerarsi uno dei più grandi pugili della storia senza aver mai conquistato la considerazione che meritavano le sue qualità. Ad onor del vero, De Jesus (morto di Aids nel 1992), era un tecnico sopraffino, che una volta sconfisse Duran, ma il match era sulle 10 riprese e non era ovviamente valido per il titolo mondiale dei leggeri. Fu proprio quell’incontro ad eleggerlo sfidante ufficiale di “Manos de piedras”, ed i due si incontrarono per la rivincita il 16 marzo 1974. Vinse Duran, non senza soffrire, per KO all’undicesima ripresa. Vi fu poi una bella il 21 gennaio 1978, ed in quell’occasione Roberto vinse, sempre per KO, alla dodicesima ripresa. Furono incontri da prendere ad esempio come stereotipi: fra il pugile supertecnico ( De Jesus) e il picchiatore (Duran). 
Il terzo incontro col portoricano, portò il panamense ad una drastica decisione: privo ormai di stimoli e di avversari, tutti più o meno schiacciati dalla sua potenza, decise di abbandonare il titolo e di cimentarsi fra i welter, saltando completamente la categoria dei superleggeri. 
Un errore, perché Duran, al peso non suo, andava ad aggiungere quei centimetri che, per uno come lui, già piccolino e picchiatore, potevano costituire un grosso problema. Ma “Manos de piedras” era troppo forte per non conquistare anche altre categorie. Dopo otto vittorie, di cui la metà prima del limite, coi chiari successi sul forte Viruet e, soprattutto, su Carlos Palomino (ex mondiale poi divenuto attore), si guadagnò la chance iridata contro quel mostro sacro dei media, che rispondeva al nome di Ray Leonard. Costui, è sempre stato un pugile pieno di talento, ma pure esageratamente protetto da un ambiente che l’aveva eletto “Sugar”, il nome che accompagnò la carriera del grande Robinson.
[Immagine: 0_WBC-Ring-and-Lineal-Welterweight-Title...Lenard.jpg]
Il 20 giugno 1980 a Montreal, Duran impose la sua legge battendo, selvaggiamente, Leonard. In quell’occasione si vide quanto la stella eletta dal pugilato americano come unica ed irripetibile, fosse in realtà meno fenomenale, sia sul piano tattico che della stamina. Ray Sugar Leonard accettò di scendere sul piano della potenza e del combattimento contro un leggero come Duran, il quale, tra l’altro, rendeva a Leonard quasi 10 centimetri. Duran vinse bene, conquistando così il titolo mondiale in una categoria nuova. 
Cinque mesi dopo, la rivincita a New Orleans. Qui, Leonard, sfoderando tutto il meglio del suo repertorio ed umiliò “Manos de piedras”, deridendolo. Anche il pubblico iniziò a ridere e Duran si demoralizzò al punto che, improvvisamente, nel mezzo dell’ottava ripresa, voltò le spalle a Ray Sugar dicendo all’arbitro: “No mas, no mas” (basta), si diresse al suo angolo e lasciò il ring. 

Il panamense decise così, di salire ancora di categoria ottenendo una sfida col tecnico portoricano Wilfredo Benitez (uno che conquistò il mondiale dei superleggeri a 17 anni e che non ha mai dribblato i più forti, tra l’altro un maestro nella difesa usando l’elasticità delle corde), ma fu sconfitto ai punti. E non poteva essere diversamente, visto che in uno degli incontri di preparazione, opposto al non certo trascendentale italiano Luigi Minchillo, vinse in maniera stentata. 
Testardo come sempre, Duran, proseguì nella categoria, tanto da prendersi un’altra lezione da Kirkland Laing e se in quel match non finì al tappeto fu solo per il suo incredibile orgoglio. Ma una stupenda vittoria contro Josè “Pipino” Cuevas (gran pugile e poi affermato imprenditore nel settore petrolifero), conclusa con la sua “mano di pietra” alla quarta ripresa, gli aprì le porte per un’altra chance mondiale. Il 16 giugno 1983 incontrò il campione della WBA dei medi junior Davey Moore e lo stese alla sua maniera, nel corso dell’ottava ripresa. Una serie di colpi e poi, l’immancabile destro finale che spense le lampadine del giovane pugile americano. Quel colpo fu davvero terrificante, perché Moore non seppe più riprendersi, fino a chiudere anticipatamente la carriera. L’allora trentaduenne Roberto Duran aveva dunque conquistato il terzo titolo mondiale in tre diverse categorie di peso. Era allora il primatista mondiale assieme ad altri pugili, ed il sogno del quarto titolo e del primato in solitudine, cominciò a serpeggiare in lui. 
[Immagine: Duran-Hagler333-copy.jpg]
Ancora una volta la sua impulsività lo guidò immediatamente nella direzione del tentativo, ed accettò la supersfida col campionissimo del medi Marwin “Marvellous” Hagler (indimenticabile artista del ring che si ritirò a causa del furto subito da Ray Leonard), un pugile tecnico come pochi e potente, in più, medio naturale. Senza dimenticare di esser stato un leggero, Roberto Duran dimostrò con Hagler tutta la sua grandezza, mettendo in difficoltà il grande pugile americano (poi divenuto attore ….semi-italiano), fino a tumefargli un occhio. Perse ai punti, ma aveva fatto capire a tutti che anche da medio poteva dire la sua. Sulle ali dell’entusiasmo per la bella e significativa prestazione, accettò di mettere in palio il suo titolo dei superwelter contro il “cobra” Thomas Hearns, un pugile poco incassatore, soprattutto con una mascella di vetro, ma con una tecnica non inferiore a quella di Leonard, ed un pugno superiore. In più, altissimo. Forse il fatto che Hearns fosse stato ridicolizzato da Hagler, giocò un peso non indifferente sulla sua decisione. Duran al cospetto del “cobra” sembrò un nano, gli arrivava si e no al petto, ed andò incontro all’unica umiliante sconfitta della sua carriera, perdendo, praticamente senza combattere per KO alla seconda ripresa. Un’umiliazione, per un campione lui. 
Con una simile sconfitta, la razionalità avrebbe indotto chiunque all’abbandono della carriera, ma “Manos de piedras” non era uno dei pochi, lui si sapeva unico e continuò. Una serie di belle vittorie fra i medi con la sola sconfitta, per quanto immeritata, contro Robbie Sims e, finalmente, la chance di un altro mondiale nella categoria che gli poteva valere il quarto titolo.
          [Immagine: Barkley-Duran_RING.jpg]
Il 7 dicembre 1989, a 38 anni e mezzo salì sul ring contro Iran Barklay, campione mondiale WBC. Iran era un pugile tecnico e potentissimo, per giunta molto alto, non come Hearns, ma quasi. “Manos de piedras" si ricordò ancora una volta che, sul combattimento, nessuno al mondo gli era superiore e Barklay commise l’errore di accettarlo, anche perché non avrebbe mai pensato che quel vecchietto potesse superarlo. Duran, fu semplicemente magnifico, ed atterrò un paio di volte il campione, fino a vincere nettamente ai punti. Roberto “Manos de piedras” era così arrivato al quarto titolo della sua carriera. Un percorso che aveva svolto senza evitare avversari, ma guardandoli tutti in faccia, lasciando loro praticamente sempre tanti centimetri, spesso però ininfluenti, di fronte alla paura che la sua mano incuteva. 
Era il combattente che tutti volevano vedere. Era il pugile immacolato, in una categoria, dove il fatto di trovarsi di fronte ad avversari più grandi e grossi di lui, esaltava la sua recondita voglia di emergere da quella povertà e da quelle umiliazioni che l’avevano marcato da fanciullo. 

Continuò a combattere. Fece ancora l’errore di accettare una terza sfida con Ray “Sugar” Leonard, ben sapendo che l’americano non avrebbe accettato la rissa, ma si sarebbe limitato alla scherma per ottenere il verdetto. Sapeva che sarebbe fuggito dall’alto della sua tecnica sopraffina. Ed infatti, Duran, perse nettamente ai punti. Ma il vero errore lo fece dopo, continuando a combattere fino all’alba dei cinquanta anni, sempre ottenendo tante vittorie e poche sconfitte. Si fermò solo perché, in Argentina, ebbe un incidente dai postumi pesantissimi. 
La carriera del vero Duran però, finì con lo stupendo successo su Barklay. Il resto è stata solo una lotta fra lui ed i suoi fantasmi, ed a me, sinceramente, non piace parlarne. 
La mia grande stima verso il pugile non s’è incrinata nemmeno verso l’uomo con la mano di pietra. In fondo, merita il rispetto di chi ha provato cose che noi non conosciamo nemmeno lontanamente. La mia è una scelta sportiva, perché gli altri venticinque incontri dalla sconfitta con Leonard, non valgono il suo mito, anche se a sprazzi s’è visto quel pugile tanto amato dalla gente. Per me, Roberto Duran è quello che, in diciassette anni, ha conquistato quattro titoli mondiali in quattro categorie di peso, passando, unico nella storia, dai leggeri (suo peso naturale) ai medi. 
Insomma, un fenomeno, e non mi va di macchiare quel ricordo con degli incontri che potranno servire alle statistiche, ma non a chi ama il pugilato.

Maurizio Ricci detto Morris
 
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