Login Registrati Connettiti via Facebook



Non sei registrato o connesso al forum.
Effettua la registrazione gratuita o il login per poter sfruttare tutte le funzionalità del forum e rimuovere ogni forma di pubblicità invasiva.

Condividi:
Janis Lusis, il mitico sussurro di Latvia.
#2
L'eco di Latvia 

“Ringrazio l’atletica e l’amore che mi ha trasmesso, perché m’ha fatto dimenticare l’odio verso i soldati russi che assassinarono vigliaccamente mio padre. M’è rimasto lo strozzante dolore di averlo perso quando ero ancora un bambino. Tutto quello che ho fatto lanciando, era per lui e la mia terra, la Lettonia, anche se la mia canottiera portava il simbolo dell’URSS. L’inno russo che ascoltavo sul podio delle mie vittorie, lo vivevo come un canto per l’atletica e quel giavellotto che è stato, e sarà sempre, un riferimento per me, mia moglie e, spero, per i nostri figli”. 
Con queste parole Janis Lusis, riassunse i significati della sua storia d’atleta vincente come pochi, ed epigone del lancio del giavellotto. 
Quand’era piccino, a soli sei anni, il 14 maggio 1945, cinque giorni dopo la dichiarazione di vittoria della Russia sulla Germania, suo padre Voldemars, venne ucciso da un soldato di Stalin. La sua colpa: essersi ribellato all’ordine di consegnare alle forze armate sovietiche presenti sul territorio lettone, i cavalli, i maiali e altri beni della fattoria di famiglia. Poco importò se a vantaggio del padre di Janis, vi fosse un onorato servizio d’appoggio alle popolazioni locali, nella costruzione di strade e ponti, dopo il passaggio del fronte. I soldi non c’erano, la fame era tanta e quei beni erano tutto per la famiglia Lusis. 
Il killer, con la divisa sempre orrenda d’un esercito, lo trucidò a freddo con un colpo di pistola alla nuca. Si dice che il piccolo Janis, abbia visto tutto e abbia sempre contenuto con una forza interiore immane, l’odio verso quel popolo che, attraverso la pistola di un imbecille chiamato da criminali ordini, aveva straziato la sua famiglia. Lo fece anche quando, per il talento atletico che possedeva, fu deportato in Russia, in una delle tante scuole di avviamento allo sport, create appositamente dal comunismo per cercare i migliori trionfi di stato. 

Divenuto ragazzo ben messo, ma mai robusto come un pesista, il giovane Janis fu indirizzato, proprio da quelle scuole, verso il lancio del giavellotto, specialità nella quale riusciva ad esaltare pure la dote di una evidente velocità. La sua spalla destra era adattissima alla frustata che, da sempre, richiede il lancio di quell’attrezzo. In più, Janis, aveva dentro se stesso, da buon lettone, i cromosomi di realtà culturali più distanti da quelle classiche di vaste zone dell’impero sovietico, un distinguo che veniva dal Baltico, là, nelle terre più vicine alla Finlandia. Era un predestinato al giavellotto. Non a caso, se sfogliamo la storia della specialità, troviamo tanti lettoni oltre a Lusis, da Inese Jaunzeme (Oro Olimpico a Melbourne nel 1956) a Elvira Ozolina (Oro a Roma nel ’69), fino a Dainis Kula (vincitore dell’Oro a Mosca nel 1980).

[Immagine: lusis_ea.jpg&w=320&h=385&zc=1&hash=9e0a6...01cc22492e]

La crescita di Janis fu palpabile, ma a ventun anni era ancora grezzo per superare le fortissime selezioni sovietiche: una specie di olimpiade propedeutica ai veri Giochi, ed a Roma non andò. L’esplosione del grande talento di Latvia, avvenne nel 1962, quando a Belgrado vinse i Campionati Europei, con un lancio di 82,04 metri, ma la sua serie, tutta su quegli 80 metri che allora significavano l’eccellenza, fece capire che il ragazzone lettone aveva qualcosa in più del comune. Finì l’anno imbattuto (fu per diciotto volte in competizione) ed a Tashkent, un mese dopo gli Europei, con un lancio di 85,04 avvicinò imperiosamente il record mondiale dell’italiano Carlo Lievore. 
Stupiva il suo modo di interpretare la gara, con lo sguardo rivolto al cielo, quasi a voler riconoscere nell’invisibilità dell’aria, le spinte migliori del vento o della semplice brezza. Anche la prova sulla direzione della spinta ventosa, attraverso il semplice lancio di un oggetto di piccolo peso, già al tempo tanto comune, non distoglieva più di tanto il suo rito col volto all’insù, alla ricerca dell’ideale percorso ove avrebbe fatto passare la sua lancia, il suo messaggio terreno. 
Era appena arrivato ad un grande successo e già qualcuno lo eleggeva a mito, proprio per la sua originalità, quasi parlasse con l’attrezzo e fosse con lui in volo. Le penne dell’epoca, iniziarono anch’esse ad indirizzare la propria grafia verso una lettura che appariva affascinante, pronta a spingersi lei stessa, verso un’altra versione del pensiero ellittico di Janis. Grazie a quegli uomini che oggi non ci son più, leggere di Lusis, rappresentava un tassello luminoso del quadro che il lanciatore dipingeva nei cieli. Era come sentirlo pittore, ai margini del campo dove in tanti provavamo testimoniare qualcosa. Che tempi! 

Anche nelle venti gare a cui partecipò nel 1963, Janis lanciò meglio di chiunque altro, il suo giavellotto vibrava sull’aria, lasciando un fruscio leggero più simile ad una musica che mai avresti voluto sentire conclusa. E poi, quel sorriso che ti sforzavi di leggere come un’espressione di felicità, quando era invece una forma di ringraziamento alla sua arte e al ricordo di quel padre che lo aspettava lassù. Lo disse il buon Janis, lo disse da vecchio atleta, quando ancora non era arrivata la perestrojka, ma lui era troppo per il mondo, per essere tartassato dagli strali della Gabbia Stato sovietica. 
Arrivò l’anno olimpico e dopo quasi tre anni di imbattibilità conobbe il volto della sconfitta: nell’impero dell’URSS, dietro di lui, crescevano avversari pronti a copiare il suo meraviglioso gesto tecnico. Aksyonov, Kusnyetsov (due volte) e il polacco Sidlo, riuscirono a batterlo, ma a Tokyo giunse da favorito: era già troppo grande per non esserlo. 
Sulla pedana olimpica giapponese il venticinquenne lettone però, sbagliò l’unica gara della sua vita. Oddio, lanciò per sempre molto bene, ma le particolari condizioni di quella giornata, non gli furono amiche e lui non riuscì ad essere completamente se stesso. Arrivò al bronzo, dietro due grandissimi alfieri della specialità, l’ungherese Gerghely Kulcsar (argento), ed al figlio più aspettato della terra del giavellotto, Pauli Nevala. 
Una battuta d’arresto che non piegò l’amore viscerale di Janis verso quel gesto che, ormai, veniva confuso col suo cognome. Riprese la sua marcia nel ’65, vincendo 18 delle 21 gare a cui prese parte, le tre sconfitte vennero da Kulcsar (due volte) e dal polacco Sidlo. Nessuno però, lo avvicinò nella competizione più importante, la finale di Coppa Europa dove Lusis vinse, lanciando ad 82,56 metri. Tornò imbattuto nel 1966 e, sui cieli di Budapest, in casa di quell’avversario che lo aveva battuto a Tokyo, si prese una sonora rivincita, facendo volare il suo giavellotto ad 84,48 metri, conquistando così il suo secondo Titolo Europeo consecutivo. A fine anno in previsione dei futuri Giochi di Città del Messico, gareggiò nella capitale messicana venendo a capo facilmente di un cast da finale olimpica.
Un leggero infortunio, lo frenò un poco nei mesi centrali del 1967, dove fu sconfitto dapprima dal tedesco dell’Est, quasi omonimo di un celebre tennista australiano del tempo, Manfred Stolle, quindi, per tre volte, da un connazionale di origine estone Mart Paama. Ma erano eccezioni, come sempre, e nella gara più importante dell’anno, a Kiev, nella finale di Coppa Europa, ancora una volta, Lusis, apparve un imbattibile innamorato di quell’attrezzo, del vento e della poesia di quel lancio. A fine stagione tornò nella capitale messicana, firmando un ulteriore successo con una prestazione di grandissimo rilievo metrico. 

Agli albori della stagione ’68, il grandissimo lettone che aveva impreziosito il monumento della sua specialità, era in cima ai pensieri di chi amava l’atletica: su 130 gare disputate ne aveva perse solo12, mentre sulle cinque grandi finali disputate, aveva perso solo all’Olimpiade di Tokyo. Era per tutti il maestro, ma non aveva ancora firmato un primato mondiale e gli mancava l’oro olimpico. La stagione alle porte doveva dargli quelle due risposte, anche se l’osservatorio non ne faceva un cruccio, tale era l’oggettività della sua superiorità. Non era così per Janis, uomo di poche parole, ma col cuore pulsante; atleta che non si distaccava dalla vita, dall’onda nuova che stava percorrendo il mondo e il suo forzato paese. In silenzio, come sempre, si preparò a rispondere nell’unico modo che conosceva profondo, lanciando più lontano nei cieli il suo messaggio, il suo istinto di libertà. Su quel giavellotto in volo c’era lui. 
L’anno si aprì con una serie di vittorie ancor più nette. A metà stagione andò in Finlandia, nella terra sacra della sua disciplina, doveva e voleva raccogliere la sfida dei tanti grandi lanciatori di quel luogo. Ad aspettarlo c’era l’olimpionico uscente Pauli Nevala, l’astro Jorma Kinnunen, i fortissimi Vaino Kuisma ed Esko Kuutti, assieme a loro, quelle tante altre star che vedevano la terra finlandese anche come un naturale luogo d’allenamento, per non dire di culto. 
Si presentò a Tampere, il 19 giugno, davanti ad uno stadio stracolmo, con tanti appassionati appesi alle reti dell’impianto o negli alberi adiacenti pur di poter vedere i giavellottisti. Qui, in un clima così particolare, Janis superò bellamente tutti gli avversari e sfiorò il mondiale lanciando a 90,92 metri. Vinse poi a Keuruu, lanciando ad 87,58, ma il primato mondiale era nell’aria. Ed il record arrivò due giorni dopo, a Saarijärvi, dove il lettone scagliò l’attrezzo a 91,98 metri! Il primo obiettivo di stagione era stato raggiunto. Anche ad Helsinki, quattro giorni dopo, nell’ultima gara finnica, il suo giavellotto volò più lontano. Nessuno poteva resistergli e la sua imbattibilità continuò per altre 15 gare fino alle Olimpiadi. 

Mexico City, città già a quei giorni densa di smog e con l’aria più rarefatta per i suoi 2500 metri sul livello del mare, non si prestava a facili letture e a grandi misure. Janis Lusis doveva e voleva vincere, niente lo avrebbe fermato. Gli avversari si auguravano in un’altra giornataccia come quella di Tokyo, ma il grande lanciatore di Jelgava, non si fece intimorire dagli spettri di quell’unica sconfitta importante e, nel tardo pomeriggio messicano di quel 16 ottobre, a far da eco e da colonna sonora all’impresa di Tommie Smith sui 200 metri, ci pensò il suo giavellotto. Il cielo della città che non aveva mai visto una cometa così da vicino, salutò quel segmento grigio donandogli la riconoscenza di una luce particolare, raccolta a salutare una leggenda che si era dischiusa. 
Qualche minuto dopo quel raggio luminoso, Janis Lusis sorrise al mondo: aveva dimostrato le sue stimmate anche agli scettici incalliti, donando agli sguardi un’ellisse di 90,10 metri, nell’aria più impossibile per superare quella soglia. Salutò il pubblico e volse lo sguardo alla pista, dove un collega con la pelle scura, col medesimo intrinseco bisogno di testimoniarsi, si accingeva a segnare un altro lampo di storia: Tommie “Jet” Smith. Per chi racconta, allora piccolo ragazzino aldiquà dell’oceano, quel tardo pomeriggio messicano, vissuto dietro uno schermo televisivo apparso più grande dell’intero orizzonte, si condensò un “uno-due” indelebile.

...continua...
 
Rispondi


[+] A 1 utente piace il post di Morris
  


Messaggi in questa discussione
RE: Janis Lusis, il mitico sussurro di Latvia. - da Morris - 22-01-2021, 01:50 PM

Vai al forum:


Utente(i) che stanno guardando questa discussione: 1 Ospite(i)