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Luca Paolini
#4
Paolini: «Sfinito ma non finito»
È il più anziano ed esperto degli azzurri che Paolo Bettini ha schierato al mondiale di Valken­burg, si sente «finito fisicamente e mentalmente» ma, per fortuna, finché i risultati arrivano non ha alcuna intenzione di appendere la bici al chiodo.
Luca Paolini, comasco classe 1977, vanta 17 vittorie in 13 stagioni (tre in maglia Mapei, tre in Quick Step, due in Liquigas, tre in Acqua&Sapone, e da due è alla Katusha, ndr), il 3° posto al mondiale di Verona 2004 vinto da Oscar Freire, analoghi piazzamenti alla Milano-Sanremo 2006 e al Giro delle Fiandre 2007, oltre ad una vittoria di tappa alla Vuelta 2006.
Gregario fidato dell’attuale CT, è stato uomo fondamentale per la vittoria olimpica del Grillo ad Atene 2004 e gli ori iridati a Salisburgo nel 2006 e a Stoc­car­da nel 2007, ma anche per quello di Alessandro Ballan a Varese nel 2008. Bettini gli ha affidato ancora una volta il ruolo di regista della nostra nazio­nale, mettendo a tacere ogni critica, sot­tolineando che: «Luca è sì un mio amico, ma è soprattutto un atleta che si guadagna la convocazione piazzandosi sempre tra i primi. Il suo è un ruolo importante proprio perché io e lui ab­biamo una grande sintonia, mi può aiutare a gestire la corsa».
E come dargli torto se nelle ultime prove è stato l’azzurro più presente e spesso il meglio piazzato, quello che porta a casa il risultato che salva la spedizione? A Val­ken­burg ha dimostrato una grande gamba, ma ha dovuto chiudere buchi, entrare nelle fughe e prendere il vento in faccia per la nostra punta Nibali.
«Come previsto abbiamo portato Vin­cenzo a giocarsi la corsa coi migliori nel finale, ci può stare che dopo quasi 270 km non si abbia più birra. Gilbert aveva una marcia in più» dice al termine della sfida iridata dominata dal bel­ga, senza riuscire a nascondere un’evi­de­nte delusione per la magra figura raccolta dai nostri colori sull’ultima scalata del Cauberg. Lui non si azzarda ad aggiungerlo, con l’età si impara ad essere anche diplomatici, ma a noi re­sta il rammarico di averlo spremuto prima di un finale che si è rivelato ben più adatto a un corridore da classiche come lui (e come Mar­cato) che a uno da corse a tappe come Ni­bali, che con rivali come Gilbert e Valverde non poteva reggere il confronto.
Professionista dal 2000, Paolini è uno dei vecchietti del ciclismo di casa no­stra, ma scherza come un ragazzino sul­la sua carriera, ricordando il passato e valutando il presente, pensando al futuro e sognando. Sì, sognando, perché se dopo dodici partecipazioni in na­zionale una bandiera del ciclismo az­zurro come lui non è ancora mai riuscita a disputare un Giro d’Italia non può smettere.

Bicicletta fa rima con...?
«Passione. Ho cominciato a pedalare per questo e man mano mi sono convinto che il ciclismo senza passione non si può praticare. È un lavoro piacevole che impone tanti sacrifici, ma se ci si gestisce bene in genere vengono ri­pagati».

Quanto tempo è passato dalla tua prima gara?
«Una vita. La passione per le due ruote è nata per caso, il giorno che papà mi ha portato in una pista di bmx. Avevo sette anni. Da esordiente 1° anno ho provato la bici da strada ed è scoccata la scintilla. Alla prima gara, essendo abituato alle gare corte di bmx in cui nove volte su dieci chi parte in testa vince, feci una volata di un chilometro pensando di arrivare primo, invece finii ultimo. Non avevo calcolato la lunghezza».

Cosa ti ha insegnato il ciclismo?
«È uno stile di vita, soprattutto per un gregario, che insegna a sacrificarsi per gli altri e ad aprire la propria visuale ai bisogni altrui. Io di natura sono già predisposto in questo senso, ma sono convinto che la bici mi abbia fatto diventare ancora più generoso e allo stesso tempo mi abbia insegnato a capire chi ho di fronte, ossia a distinguere chi riconosce il lavoro che faccio da chi lo dà per scontato o lo sottovaluta».

Se non avessi fatto il corridore...?
«Ho un diploma di odontotecnico, papà fa l’odontotecnico quindi la logica porta a dire che avrei seguito le sue orme, ma in realtà non saprei. Oltre alla bici ho una sola altra passione: il motociclismo. Lo pratico poco per man­canza di tempo. Soprattutto ora che non sono più un giovincello, quando ho un giorno di riposo ne approfitto per stare a casa, lo sfrutto per ricaricare le pile. Non ho più la freschezza di una volta...».

Tre parole per descriverti?
«Alto, bello e simpatico. A parte gli scherzi, direi: altruista, ultimamente disciplinato e divertente».

Soddisfatto della tua carriera?
«Abbastanza. Devo riconoscere che il mio altruismo negli an­ni mi ha fatto perdere tante ghiotte occasioni, ma ho sempre fatto tutto col cuore quindi non rinnego niente. Il ricordo migliore? Il terzo posto alla Sanremo 2006 vinta da Paolo (Bettini, ndr). Il peggiore? Di brutti non me ne vengono in mente, sono stato fortunato».

Quali sono le persone di cui non avresti mai potuto fare a meno in questi anni?
«Beh, della mia famiglia. Da mamma Maria, papà Giovanni che in fatto di bici mi ha sempre viziato, e mio fratello Matteo, a mia moglie Elena e i no­stri bimbi: Gaia di 12 anni e Filippo na­to l’8 giugno di quest’anno».

Gaia ti chiede di andare in bici?
«In realtà sta diventando una pallavolista e ha il mio totale appoggio. Filippo è ancora piccolissimo, vedremo a cosa si appassionerà. Magari più che per il ciclismo, cercherò di trasmettergli il mio interesse per le moto».

Quanto ti pesa stare lontano da casa?
«Più si va avanti più è dura. Il ciclismo sta diventando sempre più internazionale e il calendario World Tour è ormai distribuito lungo tutto l’anno. Iniziamo a gareggiare a gennaio e finiamo a no­vembre, in più ci sono tanti ritiri quindi a casa ci passo davvero poco tempo (Luca abita con la famiglia a Faloppio, ndr). Non è semplice, a 35 anni e con due figli, ma mi faccio forza ripetendomi che sono gli ultimi anni e se voglio farli al top devo sopportare dei sacrifici, compresa la lontananza da casa».

Il più bel posto che hai visto grazie a una gara?
«Viaggiamo tantissimo, ma non abbiamo tempo di fare i turisti quindi più che una località al massimo posso consigliarti un hotel: come si mangia, co­me sono le stanze... In più sono dell’idea che come si vive in Italia non ci sono paragoni. Sono profondamente innamorato del mio paese».

Quello in cui vorresti trascorrere una va­canza?
«Sono stato alle Maldive anni fa con mia moglie e ci ho lasciato il cuore. Mi hanno stregato, credo siano uno dei pochissimi posti dove si può davvero spegnere tutto e abbandonarsi al relax totale».

L’anno prossimo ti vedremo ancora in maglia Katusha?
«Sì, ho un contratto con la squadra russa per un altro anno. Sarà la mia quattordicesima stagione tra i professionisti, vuoi sapere come mi sento? “Finito” completamente, ma tengo du­ro. Nonostante la stanchezza fisica e psicologica che credo sia normale alla mia età, continuano ad arrivare risultati quindi non mollo. Fino a quando sarò competitivo andrò avanti. Che limite mi do? 38 anni. Credo di poter affrontare ancora due/tre anni ad alti livelli».

Guardandoti indietro cosa vedi?
«Non ho grandi rimpianti, ma mi sto rendendo conto che, anno dopo anno, sto diventando sempre più professionale. Se avessi avuto più testa negli anni d’oro, quelli della piena maturità fisica intendo, avrei potuto raccogliere di più ma queste cose si capiscono solo col passare degli anni. Mi vengono in mente tanti ricordi, molti davvero di­vertenti. Ho avuto la fortuna di lavorare praticamente sempre con persone con cui mi sono trovato bene e divertito tanto. Mi resterà per sempre l’allegria che ho trovato nelle squadre in cui sono stato».

E guardando avanti?
«Con il ciclismo di oggi non è facile darsi degli obiettivi, ogni annata è stracolma di traguardi, ma uno ce l’ho. L’anno prossimo mi piacerebbe correre per la prima volta il Giro d’Italia. Sem­bra incredibile, ma per una ragione o per l’altra non ho mai potuto prendervi parte e ora ne sento il bisogno. Non vedo l’ora di gustarmi la corsa rosa da dentro».

Ormai sei un veterano in maglia azzurra. Quello olandese è stato il tuo 10° mondiale, il 9° tra i professionisti: dopo Ve­rona 1999 (dove conquistò l’argento nella crono degli Under 23, ndr) sei stato convocato per Hamilton 2003, Verona 2004, Madrid 2005, Salisburgo 2006, Varese 2008, Mendrisio 2009, Melbourne 2010, Copenhagen 2011.
«Esatto e anche se ho preso parte pure a due Olimpiadi (Atene 2004 e Londra 2012, ndr) mi emoziono sempre come fosse la prima volta. Se l’emozione è la stessa, nel tempo è cambiato il mio approccio a questi appuntamenti im­portanti. Un tempo dovevo fare “solo” il mio perché correvo con tanti campioni che avevano sulle spalle il grosso della responsabilità della squadra, ora invece ho a che fare con corridori giovani a cui devo cercare di trasmettere sicurezza e, in base al percorso e allo sviluppo della corsa, posso ricoprire diversi ruoli».

E tra questi giovani emergenti come ti senti?
«Non mi dispiace il ruolo di chioccia, le nuove generazioni sono diverse da quella a cui appartengo io ma forse anche per questo non sento troppo il gap tra noi e loro. Questi ragazzi sono molto più spavaldi e scaltri di quanto ero io alla loro età, hanno già i loro obiettivi chiari in testa, sanno il fatto loro, a volte si fanno prendere dall’euforia del momento ma non è difficile metterli in riga (sorride, ndr). Qual­che nome su cui scommetterei per il fu­turo? Indipendentemente dal mondiale, in gara ho visto muoversi bene Mat­teo Trentin, davvero un bel giovane, ed Elia Viviani».

A un ragazzino oggi consiglieresti di praticare ciclismo?
«Sì, ma più che consigli ai ragazzi ne darei uno ai genitori: non stressateli. Non si possono caricare di pressioni i bambini, devono avvicinarsi al ciclismo solo per divertirsi. Ho avuto modo di as­sistere anche recentemente a delle gare di Giovanissimi e ho visto genitori che fanno davvero venire il prurito alle mani. Un ragazzino che vive già con l’ansia una garetta di paese, come potrà mai amare questo sport e pensare di arrivare al professionismo?».

Una volta appesa la bici al chiodo, che farai?
«Sto cominciando a guardarmi intorno, a dire la verità ho già in mente qualche progetto ma nulla ancora di preciso perché non so per certo quando smetterò di correre. Mi piacerebbe rimanere in questo ambiente, in un altro ruo­lo. Vedremo...».

Che ricordo vorresti lasciare di te al mondo delle due ruote?
«Come verrò ricordato dipenderà dalla gente. Io ormai sono etichettato come un “gregario di lusso” e mi va bene così perché non sono un vincente ma ho dimostrato di poter essere un alleato prezioso per la vittoria. Mi piacerebbe essere ricordato come un corridore corretto e leale, che ha svolto una buona carriera al servizio dei propri capitani».

da tuttoBICI di ottobre a firma di Giulia De Maio
www.tuttobiciweb.it
 
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