17-11-2010, 12:57 PM
Ecco il centro che recupera i condannati per doping
«Se non torneranno ad essere atleti di livello mondiale non importa, a noi interessa che tornino ad essere degli uomini». Mattia Piffaretti, 42enne svizzero, psicologo dello sport, ha messo a punto un progetto per fare in modo che gli atleti fermati per vicende di doping non si perdano nei meandri bui della depressione. Che il doping uccida lo si sa, ma che le sanzioni inflitte possano essere altrettanto pericolose lo sanno in pochi. Doveroso combattere i bari, smascherarli, rendere lo sport più credibile, ma ugualmente importante è domandarsi dove vanno a finire gli atleti squalificati? E soprattutto, quale futuro possono avere? Antonio Pettigrew è morto in circostanze misteriose il 10 agosto scorso, Terry Newton si è tolto la vita il 26 settembre. Il primo campione di atletica, il secondo nazionale inglese di rugby. Per entrambi la stessa parabola di vita: gloria sportiva e poi l’onta del doping. Il doping uccide, ma le sanzioni non sono da meno. È da questo semplice assioma che il dottor Mattia Piffaretti, che sta coordinando con l’Università di Losanna e con l’aiuto dell’agenzia mondiale del doping (Wada) un rivoluzionario progetto pilota, si preoccupa appunto di capire i meccanismi che spingono un atleta a ricorrere all’uso di sostanze illecite ed evitare le ricadute. «Fino ad oggi è stato privilegiato l’aspetto repressivo della lotta al doping: stanare, scoprire e punire. E dopo? si chiede Mattia Piffaretti -. In collaborazione con l’Università di Losanna, nel quadro delle borse di ricerca in scienze sociali, abbiamo infatti deciso di lanciare e testare questo programma (Windop, http://www.unil.ch/issul/page79113.html), sostenuto finanziariamente dall’Agenzia mondiale contro il doping (Wada)». Dieci atleti attivi in discipline diverse, provenienti dalla Svizzera e dai paesi limitrofi hanno dato la loro disponibilità per partecipare al progetto pilota, della durata di un anno. «La tragica morte di Marco Pantani è un caso doloroso che non può essere dimenticato. Il nostro progetto è in favore di queste vite che non possono essere spezzate - spiega Piffaretti -. Lo sport deve elevare l’uomo, e anche l’antidoping deve avere più sensibilità e rispetto». Parecchie federazioni internazionali tra cui l’Unione ciclistica internazionale (UCI) collaborano alla realizzazione dello studio pilota. Tra i dieci volontari, anche un italiano, Gianni Da Ros, 24 anni, inizialmente squalificato per 20 anni per uso e spaccio di prodotti dopanti, successivamente ridotti a 4 anni dal Tas. «Ad agosto ho ricevuto una mail - ci racconta il veneto -: mi chiedevano se fossi interessato a partecipare a questo progetto pilota. Non ci ho pensato su due volte». Oggi a Gianni mancano otto esami per la laurea in ingegneria chimica e, per far fronte alle spese, si paga gli studi facendo il cameriere in un bar di Padova. «Ho attraversato momenti difficilissimi, mi sentivo devastato dalla vergogna e dal dolore, poi sono ripartito dai miei errori. Per la mia vicenda di doping - ricorda - sono stato anche tre notti in carcere, ma oggi anche questa la considero un’esperienza positiva. Molto peggio uscire di casa. Cosa ho capito da questa mia vicenda? Che la vita non è un gioco. Oggi grazie anche al dottor Piffaretti e al suo staff, penso di essere avviato a diventare un uomo migliore: almeno lo spero». Gli chiediamo: tra due anni e mezzo, quando avrai scontato la tua pena, hai intenzione di tornare a correre in bicicletta? «Una cosa è certa: se torno so già adesso che sarò un corridore molto più motivato e temprato. Se deciderò di piantarla lì, spero di essere per lo meno un uomo migliore».
di Pier Augusto Stagi
da Il Giornale
«Se non torneranno ad essere atleti di livello mondiale non importa, a noi interessa che tornino ad essere degli uomini». Mattia Piffaretti, 42enne svizzero, psicologo dello sport, ha messo a punto un progetto per fare in modo che gli atleti fermati per vicende di doping non si perdano nei meandri bui della depressione. Che il doping uccida lo si sa, ma che le sanzioni inflitte possano essere altrettanto pericolose lo sanno in pochi. Doveroso combattere i bari, smascherarli, rendere lo sport più credibile, ma ugualmente importante è domandarsi dove vanno a finire gli atleti squalificati? E soprattutto, quale futuro possono avere? Antonio Pettigrew è morto in circostanze misteriose il 10 agosto scorso, Terry Newton si è tolto la vita il 26 settembre. Il primo campione di atletica, il secondo nazionale inglese di rugby. Per entrambi la stessa parabola di vita: gloria sportiva e poi l’onta del doping. Il doping uccide, ma le sanzioni non sono da meno. È da questo semplice assioma che il dottor Mattia Piffaretti, che sta coordinando con l’Università di Losanna e con l’aiuto dell’agenzia mondiale del doping (Wada) un rivoluzionario progetto pilota, si preoccupa appunto di capire i meccanismi che spingono un atleta a ricorrere all’uso di sostanze illecite ed evitare le ricadute. «Fino ad oggi è stato privilegiato l’aspetto repressivo della lotta al doping: stanare, scoprire e punire. E dopo? si chiede Mattia Piffaretti -. In collaborazione con l’Università di Losanna, nel quadro delle borse di ricerca in scienze sociali, abbiamo infatti deciso di lanciare e testare questo programma (Windop, http://www.unil.ch/issul/page79113.html), sostenuto finanziariamente dall’Agenzia mondiale contro il doping (Wada)». Dieci atleti attivi in discipline diverse, provenienti dalla Svizzera e dai paesi limitrofi hanno dato la loro disponibilità per partecipare al progetto pilota, della durata di un anno. «La tragica morte di Marco Pantani è un caso doloroso che non può essere dimenticato. Il nostro progetto è in favore di queste vite che non possono essere spezzate - spiega Piffaretti -. Lo sport deve elevare l’uomo, e anche l’antidoping deve avere più sensibilità e rispetto». Parecchie federazioni internazionali tra cui l’Unione ciclistica internazionale (UCI) collaborano alla realizzazione dello studio pilota. Tra i dieci volontari, anche un italiano, Gianni Da Ros, 24 anni, inizialmente squalificato per 20 anni per uso e spaccio di prodotti dopanti, successivamente ridotti a 4 anni dal Tas. «Ad agosto ho ricevuto una mail - ci racconta il veneto -: mi chiedevano se fossi interessato a partecipare a questo progetto pilota. Non ci ho pensato su due volte». Oggi a Gianni mancano otto esami per la laurea in ingegneria chimica e, per far fronte alle spese, si paga gli studi facendo il cameriere in un bar di Padova. «Ho attraversato momenti difficilissimi, mi sentivo devastato dalla vergogna e dal dolore, poi sono ripartito dai miei errori. Per la mia vicenda di doping - ricorda - sono stato anche tre notti in carcere, ma oggi anche questa la considero un’esperienza positiva. Molto peggio uscire di casa. Cosa ho capito da questa mia vicenda? Che la vita non è un gioco. Oggi grazie anche al dottor Piffaretti e al suo staff, penso di essere avviato a diventare un uomo migliore: almeno lo spero». Gli chiediamo: tra due anni e mezzo, quando avrai scontato la tua pena, hai intenzione di tornare a correre in bicicletta? «Una cosa è certa: se torno so già adesso che sarò un corridore molto più motivato e temprato. Se deciderò di piantarla lì, spero di essere per lo meno un uomo migliore».
di Pier Augusto Stagi
da Il Giornale